venerdì 25 aprile 2008

1 - URUK

Che lo si possa credere o no, io nacqui nella bassa Mesopotamia nel 2406 a.c., in una città dell’antica Sumeria chiamata Uruk, nei pressi del fiume Purattu, che noi conosciamo ora come Eufrate. Ultimo di cinque figli, tre maschi e due femmine, mi fu dato il nome di Khalàd, che nell’antica lingua di quella terra significava pressappoco “destino nascosto”. Mai nome fu più appropriato. Mio padre, vasaio e mercante, lo aveva scelto dopo che io fui concepito quando mia madre era ritenuta ormai sterile. I miei genitori videro un segno in quella nascita inattesa e chiesero lumi ai sacerdoti del tempio del Dio. Non mi si chieda che divinità adoravamo perché è una delle poche cose che non ricordo. Raramente ho invocato le Potenze Celesti e ogni volta ponevo solo la stessa domanda. Perché io? Ad ogni modo, neppure i sacerdoti, i loro oracoli e i loro riti, seppero dare a mio padre una risposta, per cui Khalàd fu il mio nome.

-Quando lo cambiasti in Callisto, il nome che porti ora?- mi chiede Cristina torcendosi distrattamente le mani. Il mio inizio l’ha già messa sulle spine e la sua naturale curiosità sta prendendo il sopravvento sullo scetticismo.
-Lo cambiai nel medioevo, quando giunsi per la prima volta in Italia. Mi serviva un nome meno…straniero. Callisto era quello che assomigliava di più al mio nome originale e così me lo sono tenuto. Torniamo però a Khalàd….-

La mia infanzia fu simile a quella di molti altri ragazzi di quel tempo, divisa tra gioco e lavoro di bottega. Mia madre e le mie sorelle governavano la casa mentre mio padre, io e i miei fratelli mandavamo avanti la bottega e il commercio del vasellame. Abitavamo nel quartiere degli artigiani, proprio sopra il laboratorio di mio padre. Non eravamo ricchi come i gran signori che vivevano nel cuore della città, nel quartiere che chiamavamo “il colle” per via che sorgeva proprio su una collina, tuttavia avevamo un’esistenza dignitosa. Secondo gli standard attuali potevamo essere considerati dei borghesi benestanti. Non erano molti i vasai di Uruk e noi avevamo la fortuna di poter contare su amicizie influenti nel quartiere dei mercanti, i quali davano spesso preferenza ai nostri prodotti. Mio fratello maggiore era divenuto lui stesso un mercante e in breve tempo si era ritagliato una posizione di favore in quella cerchia. Fu tra i mercanti, tra le altre cose, che si era sviluppato il primo alfabeto della Storia, il codice cuneiforme. Serviva a tenere il conto e la misura delle merci e presto si diffuse a tutti i livelli del commercio e dell’artigianato. Mio padre me lo insegnò che avevo solo sei anni.
Ricordo poco di mio padre e dei miei fratelli. Non perché la mia memoria non riesca a risalire così tanto il fiume del tempo, ma perché erano forse gli individui più comuni che si potesse immaginare. Spesso una persona ci rimane impressa nella mente per qualche particolarità che la caratterizza. Mio padre e i miei fratelli erano uguali a migliaia di altri uomini che abitavano Uruk. Chi ricordo invece perfettamente sono mia madre Asay e le mie sorelle, in particolare la più giovane, Assya, di solo un anno più grande di me. Mia madre era una donna straordinaria e le mie sorelle le assomigliavano in tutto e per tutto. Governava la casa con eccellenza, cucinava divinamente, trattava i baratti con le altre donne e riusciva quasi sempre ad ottenerne un guadagno. Sono convinto che se mio padre le avesse permesso di assisterlo nel suo lavoro, le vendite dei vasi si sarebbero triplicate. Assya non era da meno. Seguiva mia madre dappertutto e teneva i suoi grandi occhi neri sempre puntati su di lei, in modo da captare ogni movimento, ogni gesto particolare, ogni atteggiamento che svelasse il suo segreto di predominare sulle altre donne. Come si sarà capito, in una società estremamente maschilista come la nostra, nella mia famiglia erano le donne ad avere più intraprendenza e, oserei dire, potere.

-Eri molto legato a tua sorella, nonno?-
-Si, lo ero davvero. Eravamo molto simili e per questo andavamo d’accordo. Io la seguivo spesso nelle sue commissioni, quando non ero indaffarato al lavoro, e lei seguiva me quando andavo ad incontrarmi con i miei amici.-
-Come mai? Le interessavano i giochi tra maschi?-
-No. Le interessava Sunàt, il mio migliore amico. Si era presa una cotta per lui e ogni scusa era buona per seguirmi e incontrarlo.-
-Che età avevate?- chiede Cristina porgendomi un bicchiere con della limonata fresca.
-Non più di dieci anni, credo-, rispondo.
-Una cotta tra bambini allora-, commenta lei sorridendo.
-Assolutamente no. Le ragazze erano molto precoci a quel tempo. Si sposavano, se così si può dire, intorno ai dodici anni e a tredici aspettavano già il primo figlio. Se i due ragazzi si piacevano potevano parlare con le loro rispettive famiglie e se c’era parità di condizione sociale e nessuna inimicizia, il matrimonio poteva essere combinato.-
Mia nipote sembra spiazzata da quell’affermazione. Sa che queste cose accadevano di frequente nell’antichità, ma evidentemente sentirlo raccontare da un testimone oculare… beh diciamo che non si è ancora abituata all’idea.
-E Sunàt aveva qualche possibilità con tua sorella?-
-Diciamo che mio padre non lo vedeva di buon occhio. Aveva grande stima della sua famiglia ma riteneva il mio amico un vero scansafatiche e per le sue figlie voleva solo il meglio.-

Io e Sunàt passavamo insieme molto tempo. Eravamo quasi come fratelli e la gente spesso lo pensava vedendoci sempre insieme. Era figlio di un fabbro e anche lui aveva fratelli e sorelle, una delle quali aveva attirato la mia attenzione. Si chiamava Siuri, era mia coetanea, e anche se non avevo molte occasioni di vederla mi era entrata nel cuore, specie per i suoi occhi tanto particolari, verdi come smeraldi. Sunàt mi prendeva spesso in giro a riguardo. Diceva che quando vedevo sua sorella il mio cervello smetteva di funzionare e mi poteva portare a spasso per mano come una scimmia ammaestrata. Era vero.
Oltre a passare con lui tutto il mio tempo libero, di Sunàt condividevo le aspirazioni. Volevamo entrare nell’esercito cittadino e fare carriera come soldati. Nessuno dei due era figlio maggiore e quindi il nostro destino era quello di rimanere a vita aiutanti di bottega dei nostri fratelli più grandi. Avremmo potuto diventare dei mercanti, come mio fratello, ma era una possibilità remota. Entrambi non dimostravamo la pazienza necessaria per mercanteggiare.
Fu così che all’età di quattordici anni iniziammo la nostra avventura come soldati. L’esercito di Uruk sarebbe divenuto famoso alcuni decenni più tardi perché, sotto la guida del generale Lugalzaggesh, avrebbe conquistato le città sumere del nord e dato vita al primo e breve regno dei sumeri unificati. Lugalzaggesh sarebbe caduto dopo neppure trent’anni di sovranità, dando inizio al declino della nostra civiltà. Dopo che ebbi spiegato le mie motivazioni, mio padre acconsentì al mio arruolamento. La paga dei soldati era buona e se mi dimostravo degno potevo ritagliarmi una posizione importante nella società di Uruk.
La società sumera era una scala di posizioni molto lunga da salire ma non era preclusa a nessuno. Seguendo la via giusta, con il tempo, anche un uomo senza nessun avere o nessuna abilità particolare poteva elevarsi nella scala e conquistarsi una posizione privilegiata. Molte famiglie ricche del centro erano in origine dei semplici mercanti che si erano arricchiti.

-Non ti avrei mai creduto un soldato, nonno-, mi deride dolcemente Cristina.
-Sono molte le cose che non sai. Sono diventato agricoltore solo quando ho deciso di stabilirmi qui in Sicilia. In passato sono sempre stato un soldato, un…- Mi interrompo. E’ ancora presto per parlarne ma mia nipote percepisce quell’esitazione.
-Un?-
-Tutto a suo tempo, cara.-

L’addestramento di un soldato sumero di Uruk durava dai tre ai cinque anni ed era suddiviso in tre fasi. La prima consisteva nell’allenare il fisico per fortificarlo e imparare la lotta corpo a corpo. Durava circa un anno per tutte le reclute. Si passava poi alla seconda fase in cui si imparava a marciare, a tenere la formazione e ad usare scudo e lancia. Questo periodo di addestramento poteva durare uno o due anni e si veniva mandati a fare pratica nel pattugliamento della città. La terza e ultima fase consisteva nell’addestramento al combattimento con la spada, dopodiché si veniva integrati nei ranghi dell’esercito. Il mio addestramento e quello di Sunàt durò circa tre anni e mezzo durante i quali fu subito evidente che il mio amico era un soldato nato. Apprendeva ogni tecnica prima degli altri e la eseguiva alla perfezione dopo pochissime prove. Nessuno riusciva a batterlo in allenamento.

-Neppure tu?- domanda Cristina.
-Neppure io. Mi dimostrai una recluta diligente e mi impegnavo ma non avevo il talento di Sunàt per il combattimento.-
-Eppure mi dici di essere sempre stato un soldato-, mi fa notare lei.
-E’ vero. Ma per altri motivi.-

Avevamo un istruttore che ci seguì per tutto il tempo dell’addestramento. Era un uomo rude ma competente. Si chiamava Mordan e portava addosso i segni di molte battaglie. Il volto solcato dalle rughe era sempre serio e ci scrutava continuamente, anche quando pensavamo non ci vedesse. Fu lui che un giorno, quando avevamo da poco iniziato la seconda fase di addestramento, mi impartì il primo vero insegnamento sull’arte della guerra, il primo motivo di divisione tra me e Sunàt. Ero arrivato al campo di addestramento prima degli altri. Il sole non era ancora sorto ma volevo avere più tempo per esercitarmi con la lancia perché mi ero rivelato molto impacciato con quell’arma. L’istruttore Mordan mi colse alle spalle.
-Se mantieni dritto il busto, riuscirai a portare affondi più potenti e ti sbilancerai di meno-, mi disse con la sua voce cavernosa facendomi sobbalzare.
-Lo avevo immaginato, signore, ma è proprio questo il mio problema. Faccio fatica a stare dritto-, risposi un po’ stizzito.
-Con il tempo e l’esercizio imparerai. Anche io all’inizio non andavo d’accordo con la lancia, eppure ora guarda.- Si fece consegnare l’arma e fece un poderoso affondo, facendo scivolare l’asta di legno duro ad un palmo dal mio naso. Lo spostamento d’aria mi diede l’idea della potenza di quel movimento praticamente perfetto.-
-Come avete fatto, signore, a rendere il vostro affondo così potente?-
-Nello stesso modo in cui pensi di farlo tu-, mi rispose rendendomi la lancia. –Con molto esercizio, Khalàd.-
-Me ne servirà davvero molto, temo.-
-Quello che ci vorrà. E’ un po’ che ti osservo e sono sicuro diventerai un ottimo combattente.-
-E’ Sunàt il guerriero. Io posso aspirare a diventare un buon soldato.-
-La prima qualità di un guerriero è la disciplina. Senza disciplina, anche nei piccoli gesti quotidiani, nessuno può aspirare a diventare un vero uomo d’armi. Questa è la differenza tra te e il tuo amico. Sunàt ha talento, impara in fretta ed è forte, ma non ha disciplina. Ignora i miei consigli, diserta l’addestramento e non ha rispetto per i compagni. Questa non è la via del guerriero.-
-Non capisco, signore. Sunàt è forte. Io invece…-
-Capirai con il tempo, Khalàd. Ora continua i tuoi esercizi e ricorda: busto eretto!- Mi diede una pacca su una spalla e se ne andò, lasciandomi come inebetito sul campo di allenamento. Avevo molto su cui riflettere anche se quello non era il momento. Ripresi ad allenarmi cercando di tenere a mente il consiglio di Mordan.
Mi ci volle più di un mese per eseguire finalmente un affondo decente e nel giro di altri trenta giorni ero in grado di usare la lancia quasi come Mordan. Avevo intensificato gli allenamenti togliendo ore al riposo ma ne era valsa la pena. Un mattino, mentre provavo l’affondo assieme al mio gruppo, notai che Mordan mi osservava. Mi fece un cenno di soddisfazione e forse per la prima volta vidi la sua bocca arcuarsi in un mezzo sorriso. Anche Sunàt lo aveva notato.
-Ti ha dato lezioni private vero? Altrimenti non si spiegherebbe il fatto che ora potresti trapassare un uomo senza neppure sudare-, mi derise.
-Mi ha solo dato qualche consiglio per il modo di allenarmi-, risposi vago. Il mio amico forse non sentì neppure la mia risposta perché si era già impegnato in una sequenza di movimenti che io neppure sapevo esistesse.
Dopo il colloquio privato con Mordan avevo iniziato ad osservare anche io il comportamento di Sunàt. Prima vedevo in lui la perfezione, il talento, l’esempio da seguire. Ora notavo quanto i miei occhi fossero stati ciechi. Si allenava poco in virtù della sua grande capacità di apprendimento e talvolta non si presentava agli allenamenti. Andava spesso ad osservare l’addestramento dei soldati regolari e usava quello che imparava sul nostro campo di addestramento, rischiando di ferirci perché impreparati a rispondere a quelle mosse. Mordan non diceva nulla ma il suo sguardo severo rivelava in pieno la sua disapprovazione e io cominciavo a pensarla allo stesso modo. Una sera, mentre tornavamo a casa, tentai di affrontare l’argomento.
-Sai, non dovresti usare quelle tecniche con noi. Prima o poi ferirai qualcuno.- Lui scoppiò a ridere.
-Paura di pungerti, Khalàd?- mi derise allegramente. Almeno l’aveva presa bene. –Lascia perdere le sciocchezze di Mordan e vieni con me a vedere i regolari. Imparerai molto di più. Sei più abile di quanto pensi e migliorerai tantissimo, come ho fatto io.-
-Non sono così bravo come credi, amico mio. Se anche ti seguissi imparerei ben poco. Continuerò a seguire l’addestramento di Mordan che meglio si adatta alle mie capacità. Quello che volevo dirti è solo di stare attento. Io so che non hai intenzione di fare del male a nessuno ma gli altri potrebbero non capirlo e ribellarsi.-
-Che ci provino pure-, disse a bassa voce con un mezzo sorriso. Cosa gli stava succedendo? Il Sunàt che conoscevo era certamente vanitoso, desideroso di mettere in mostra la sua bravura, ma non era bramoso di sangue.
-Dico solo di fare attenzione. Uno di questi giorni potresti essere punito per le tue assenze, addirittura buttato fuori dall’esercito.-
-Suvvia, Khalàd, non esagerare. Ti prometto che d’ora in poi mi comporterò meglio. Ora andiamo a casa perché ho talmente fame che mangerei i un bue intero.-

-E con sua sorella come andava, nonno?-
-Con Siuri? Oh, fummo promessi in matrimonio, una specie di fidanzamento, anche se non ebbi il tempo di sposarla perché me ne andai da Uruk.-
-Te ne andasti?-
-Si, tempo dopo. Ora lasciami continuare.-
-Sai che dopo ti chiederò di rivedere le prove di quanto mi stai dicendo-, mi fa notare mia nipote con aria severa. –La prima volta che me le hai mostrate mi sono fatta influenzare un po’ troppo. Ora vorrei valutarle a mente fredda e in modo più razionale.-
-Naturalmente. Ma anche per quelle ci sarà tempo.-

Arrivammo al terzo stadio dell’addestramento e finalmente le mie mani si chiusero sull’impugnatura di una spada. Le nostre lame erano di bronzo e corte, come i gladi romani. Il bronzo non è fatto per essere affilato e in battaglia una spada del genere perde il filo dopo pochi scontri. L’arma allora si trasforma in una specie di clava e dove colpisce frantuma, più che tagliare.
Mi dimostrai subito abile con la spada. Non come Sunàt, certo, ma sicuramente più abile di molti miei compagni di addestramento. Fu per questo motivo, forse, che venni incorporato nell’esercito dopo il tempo minimo di pratica, assieme al mio amico, che nel frattempo non smetteva di assillare mio padre perché gli lasciasse sposare Assya.
-Siamo finalmente soldati, Khalàd!- mi disse eccitato il giorno in cui ci consegnarono le armi da guerra e l’uniforme, una tunica di lana grezza e un turbante per proteggere la testa dai violenti raggi del sole. Solo i guerrieri che si distinguevano in battaglia ottenevano anche una corazza e altre protezioni di cuoio bollito.
-Sei così ansioso di combattere?- gli chiesi seriamente.
-Naturalmente! Per cosa ci saremmo addestrati altrimenti? Vedrai, amico mio. Con la nostra bravura saliremo presto la scala gerarchica.-
L’occasione di andare in guerra venne presto, come già sapevo. L’esercito di Uruk era spesso impegnato in schermaglie con le forze delle città-stato vicine, per il predominio della bassa Sumeria. Quella volta fu Larsa ad attaccare briga. Larsa era una città più grande e prospera di Uruk ma la sua società era prevalentemente composta da mercanti e artigiani e il loro esercito era formato perlopiù da guardie di carovane, non da veri soldati regolari. Fu così che presi parte alla mia prima battaglia.

-Vinceste?- mi domanda Cristina.
-Vincemmo, naturalmente, ma ad un prezzo molto alto, almeno per me.-
-Fosti ferito?-
-No. Fu l’inizio della divisione tra me e Sunàt.-

Affrontammo i larsiani poco più a sud di Uruk. Il mio gruppo fu posizionato nelle seconde linee e già questo non piacque a Sunàt. Lui voleva essere davanti a tutti. Superato il primo usuale scambio di frecce, da cui ci si riparava sotto gli scudi di legno rinforzati con strisce e borchie di metallo, i due eserciti partirono all’assalto. Erano divisioni composte quasi esclusivamente da fanteria perché solo i comandanti potevano permettersi un cavallo e comunque a quell’epoca, al contrario di ciò che si crede, le tattiche di combattimento della cavalleria erano ancora molto rudimentali e poco incisive.
Dopo i primi assalti in cui le nostre linee avevano tenuto, i larsiani fecero una breccia proprio dalla mia parte. Ci trovammo in prima linea senza neppure accorgercene, per la gioia del mio amico. Non sto a raccontare i particolari ma fu una cosa orribile. Uccisi per la prima volta degli uomini, persone che potevano essere entrate centinaia di volte nella bottega di mio padre per comprare merci, amici forse. Di sicuro non era gente che avevo motivo di odiare, eppure li stavo massacrando.
Sunàt sembrava divertirsi. Aveva ucciso con la spada il doppio dei nemici di me ed era coperto di sangue dalla testa ai piedi, come un demone uscito dall’inferno. Il mio gruppo tuttavia stava soccombendo perché l’inesperienza si faceva sentire. Giunse l’ordine di tenere la formazione e di arretrare compatti, in modo che un reparto di veterani potesse venire a chiudere quella falla. I miei compagni però, ad eccezione di Sunàt, erano tutti in preda al panico e qualcuno aveva addirittura lasciato cadere la lancia.
-Sunàt!- chiamai. –Torna in formazione! Dobbiamo arretrare!-
-No! Posso abbatterne altri cento di questi e…-
Un colpo di spada nemica lo ferì ad una spalla e lui lasciò cadere la sua arma. Un altro nemico gli trafisse una coscia e il mio amico si accasciò. Senza pensarci, mollai lo scudo e scattai verso i suoi assalitori. Erano in due. Uno lo trafissi in piena schiena con uno dei miei poderosi affondi mentre l’altro, colto di sorpresa, ebbe il cranio fracassato da un colpo della mia spada. Presi sottobraccio Sunàt e lo trascinai al sicuro. La falla nello schieramento era però ancora aperta e lo lasciai a due compagni.
-Su gli scudi! Tutti quanti!- urlai agli altri e uno alla volta si fecero coraggio e mi si affiancarono. -Dobbiamo chiudere questo buco! Arretriamo lentamente e se qualcuno si avvicina infilzatelo con la lancia!-
Sembrava fossi l’unico ad aver mantenuto il sangue freddo, poi mi ricordai di quello che Mordan mi aveva detto e finalmente ne compresi il senso. Disciplina. Spesso l’unica via di salvezza di un combattente era proprio la disciplina.
Non fu facile ma alla fine riuscimmo ad arretrare abbastanza, in modo che i veterani venissero a coprirci e a rinsaldare lo schieramento. Al tramonto era tutto finito. Avevamo vinto ma io contai molte perdite tra il mio gruppo. Quasi la metà su cento uomini. Che cosa orribile e inutile la guerra e io ci ero andato di mia volontà.

-Ma da quello che mi hai detto hai combattuto molte altre volte-, mi fa notare mia nipote.
-E’ vero, ma per necessità o altri scopi-, rispondo serio. –In quasi cinquemila anni non ho mai cambiato la mia opinione in proposito.-

Tornati a Uruk il mio squadrone fu chiamato a rapporto. Fu il generale Camlhad in persona a parlarci, la massima autorità militare del tempo. Mordan era al suo fianco, in silenzio come sempre. Mi chiamarono fuori dallo schieramento. Ricevetti i complimenti del generale per il mio comportamento in battaglia e il mio valore. Ottenni in premio una buona quantità di grano, la nomina ad Aiutante di Campo e le urla di festa dei miei compagni. Ritornato tra i ranghi, fu la volta di Sunàt ad essere chiamato ma il trattamento non fu piacevole come il mio. Il pugno che il generale gli assestò in pieno viso avrebbe potuto fracassargli la faccia se il mio amico non fosse stato un giovane più robusto della norma, contando che allora avevamo appena diciotto anni. Io non me ne ero accorto ma i veterani avevano visto Sunàt avanzare dalle retrovie e creare confusione tra i suoi stessi compagni. Era stato lui la causa della falla nel nostro schieramento… e di conseguenza della perdita di metà dei nostri amici. In virtù della sua abilità di combattente gli veniva data una seconda opportunità ma se avesse disobbedito ancora agli ordini sarebbe stato cacciato con disonore dall’esercito, se non addirittura giustiziato.
Quella sera, mentre tornavamo alle nostre rispettive case, il silenzio regnava tra di noi. Sunàt zoppicava vistosamente e doveva reggersi alla lancia. Lo scudo lo sbilanciava e spesso rischiava di cadere. Metà del suo viso era scuro e gonfio, a causa del possente pugno del generale. Stanco di quel triste spettacolo ruppi gli indugi.
-Oh, insomma, Sunàt. Dammi lo scudo. Non vedi che non ti reggi in piedi?-
-Pensavo non volessi più parlarmi, Khalàd. Sei una celebrità ora, mentre io sono il mentecatto che ha fatto ammazzare metà dei nostri compagni-, mi rispose in modo sarcastico. Non ci badai e gli strappai di mano il pesante scudo.
-Non sono una celebrità e non è a me che devi rendere conto della morte dei nostri amici, ma alle loro famiglie.-
-Sono davvero uno stupido-, disse d’un tratto. –Perdonami se ti ho parlato in quel modo. Mi hai salvato la vita e non ti ho ancora ringraziato. Lo devo a te se sono qui ora.-
-Non mi devi ringraziare, Sunàt. Tu avresti fatto lo stesso per me.- Lo avrebbe fatto davvero? Quel pensiero malevolo mi sfiorò la mente per un istante soltanto eppure lasciò una traccia fastidiosa.
-Mi allenerò ancora, farò esperienza e diventerò il più grande guerriero di Uruk di ogni tempo, più grande anche del Principe Gilgamesh.-
-Questi propositi vanno per i prossimi giorni. Ora pensa a guarire. In queste condizioni non servi a nulla.-

-Non capisco-, ammette Cristina. –Si rendeva conto dell’errore che aveva fatto lasciando la vostra formazione?-
-In quel momento non capii neppure io. Pensavo che farneticasse a causa del dolore. Ripensandoci tempo dopo, accettai il fatto che era perfettamente lucido-, rispondo sospirando. Scuoto la testa. –L’unico errore che vedeva negli accadimenti di quel giorno era il fatto che non era riuscito a difendersi dai due nemici da cui lo avevo salvato. Dei suoi compagni non gli importava nulla.-

Passarono mesi di tranquilla inoperosità. Sunàt guarì in fretta e presto poté tornare in servizio, anche se molte cose erano cambiate. I compagni lo emarginavano e anche io lo vedevo poco durante il giorno. Come Aiutante di Campo mi venivano assegnate mille faccende e mi allenavo assieme ai veterani. Una sera però fummo accoppiati per la ronda esterna, un percorso di un paio d’ore fuori delle mura della città che veniva fatto ogni notte da tre turni di soldati. A noi era toccato il secondo. Il cielo era scuro e l’aria carica di umidità, cosa davvero insolita per quel periodo dell’anno in una terra dove comunque pioveva di rado.
-Ai piani alti sono ancora arrabbiati con me?- mi chiese il mio amico mentre camminavamo sul sentiero di ronda lungo il muro orientale.
-Hanno cose più importanti da fare, Sunàt, e poi non è che frequenti molto gli ufficiali, se non per ricevere ordini.-
-Il tuo senso del dovere ti farà salire la scala gerarchica in fretta, Khalàd, mentre io…- Non finì la frase perché un sibilo seguito da un rombo tagliò l’aria e squarciò il cielo sopra di noi. Un oggetto fiammeggiante passò rapidamente sopra le nostre teste lasciando una scia di fumo e fuoco. Puntava a oriente, nel bel mezzo delle pianure.
-Sta cadendo!- dissi io allarmato. –Che cosa sarà?!-
-Andiamo a scoprirlo!- esclamò Sunàt tutto eccitato. –Forse è un segno del cielo! Un dono, magari!-
-Siamo di ronda, Sunàt. Non possiamo.-
-Io ci vado-, mi rispose deciso. Aveva una strana luce negli occhi, come fosse posseduto.
-Siamo di ronda!- ripetei con più fermezza, -E sono un tuo superiore ora. Finiamo il giro e riferiamo ai nostri superiori.-
-Perché si impossessino loro di quell’oggetto?! Mai!- mi rispose aggressivo come non lo avevo mai sentito. Abbandonò lancia e scudo e scattò di corsa nella direzione in cui era caduto l’oggetto.
-Sunàt!- urlai per tentare di fermarlo, ma era inutile. Il mio sesto senso mi diceva che si stava cacciando nuovamente nei guai. Stavolta lo avrebbero come minimo cacciato dall’esercito e anche io avrei avuto grane. Lasciai lo scudo ma non la lancia e mi misi a correre anche io nell’oscurità, nella direzione in cui era andato il mio amico.
Corsi con andatura regolare per quasi un’ora ma ancora non riuscii a raggiungerlo. In cielo si sentiva il brontolio del tuono, segno che probabilmente stava per piovere. Mi stavo per inoltrare in una zona di fertili avvallamenti coltivati quando trovai Sunàt seduto a terra che riprendeva fiato.
-Stolto!- inveii contro di lui. –Stavolta ti giustizieranno! E anche io sarò punito per colpa tua! Torniamo indietro, presto! Ci inventeremo qualcosa per il nostro ritardo!-
-Hai paura per la tua carriera di generale, Khalàd?- mi derise. –Quella cosa è poco lontano da qui. Con la luce di un lampo ho visto del fumo alzarsi da un punto poco più avanti.-
-Non mi interessa! Torniamo indietro!- risposi ferreo anche se Sunàt era riuscito a stimolare la mia curiosità.
-Neanche per sogno! Io vado! Vedo che hai portato la lancia. Lo sai che per toglierti dai guai dovresti uccidermi?-
-Lo so-, risposi sottovoce. Mi rassegnai a seguirlo.

-Perché ucciderlo?-
-Perché era un disertore-, rispondo dopo un sorso di limonata ghiacciata. –Uno dei crimini più detestati in tutti gli eserciti del mondo, in ogni tempo della storia dell’uomo.-
-Ma perché uccidendolo ti saresti tolto dai guai?- domanda ancora Cristina. –In fondo la frittata era già fatta.-
-Perché avrei potuto raccontare la verità sull’accaduto e dimostrare la mia lealtà all’esercito di Uruk eliminando un disertore. Avrei potuto anche essere promosso.-
-Ma non lo facesti.-
-No, non lo feci-, rispondo serio.

Dopo pochi minuti arrivammo in un avvallamento paludoso dove un vecchio canale di irrigazione si era rotto e l’acqua aveva trasformato il fondo in un pantano sabbioso. Non era il fango però ad attirare la nostra attenzione ma il piccolo cratere fumante che vi si era formato dentro facendo evaporare ogni traccia di acqua.
-Forse è una stella-, disse Sunàt avvicinandosi. –Un vero dono del cielo.-
-E’ una roccia frantumata. Non vedi?- ribattei io scettico ma come il mio amico avevo intravisto qualcos’altro in mezzo ai frammenti di pietra fumante, due oggetti più scuri e informi.
Sudat si avvicinò al cuore del cratere e accostò una mano ad uno dei pezzi di roccia. Poi lentamente ve la posò sopra.
-E’ caldo ma non scotta-, sentenziò.
-Cosa sono quei due pezzi più scuri?- domandai seguendo i suoi passi. –Sembra….-
-Si. E’ metallo-, affermò Sudat.
-Ne sei sicuro?-
-Ti ricordi che mestiere fa mio padre? Vuoi che non sappia riconoscere un pezzo di metallo quando lo vedo?-, ribatté acido. Aveva ragione. –Non è rame e neppure stagno.-
-Forse bronzo?- intervenni avvicinandomi.
-No, neanche bronzo. Potrebbe trattarsi di quel minerale di cui si parla in giro, quello che pochi ancora sanno fondere.-
-Vuoi dire il ferro?-
-Proprio quello.-
Il tuono si fece sentire possente e un lampo squarciò il cielo sopra di noi riportandomi alla realtà.
-Ora hai soddisfatto la tua curiosità. Torniamo indietro e speriamo di non finire giustiziati.-
-Ci sono due pezzi. Prendiamone uno ciascuno-, propose Sunàt prendendone faticosamente uno in mano.
-A quale scopo?-
-Li porteremo a mio padre e gli chiederemo di provare a fonderli per farne due spade. Se è davvero ferro, con armi simili diventeremo invincibili-, sentenziò sollevando in aria il pezzo di metallo.
Un crepitio assordante, poi i miei occhi vennero letteralmente bruciati dalla potenza del fulmine che colpì il metallo sollevato da Sunàt. Sentivo metà del mio corpo in fiamme, poi più nulla perché svenni per il dolore.

-Fosti colpito da un fulmine?- mi domanda sbalordita Cristina. –E sei sopravvissuto?!-
-Tutto a suo tempo, cara. In effetti non sopravvissi. Quello fu il passaggio alla mia nuova vita, l’evento che la cambiò per sempre.-

Mi risvegliai che il sole era già alto. Aprii gli occhi. Ci vedevo nonostante ero sicuro che il fulmine mi avesse bruciato la vista. Ero seminudo perché parte della mia tunica era ridotta in cenere, ma dove la pelle era scoperta non vi era nessuna bruciatura. Solo una larga cicatrice irregolare mi scendeva dal lato del collo fino alle costole. Era un miracolo se non ero morto, un miracolo a cui faticavo a credere. Mi guardai in giro ma di Sunàt neppure l’ombra. Lo chiamai a gran voce ma nessuno rispose. Poi mi accorsi del mucchietto di cenere poco lontano dal punto in cui ero caduto e i miei occhi si riempirono di lacrime. Lui era stato colpito in pieno dal fulmine e quello era tutto ciò che ne rimaneva. Scappai via come impazzito. Non mi importava più della mia sorte. Stavo per tornare senza il mio compagno disertore e dovevo spiegare come era morto, ma non me ne importava. Il mio cuore era colmo di dolore. Caddi molte volte ma mi rialzai sempre, in preda ad una follia crescente che mi devastava dentro. Perché ero ancora vivo e il mio amico fraterno no? Ebbi la risposta a poca distanza dalla città, quando inciampai per l’ennesima volta e finii in un roveto. Quasi non sentii il dolore delle spine che si piantavano nella carne e quando mi rialzai notai una cosa straordinaria. Le ferite si rimarginavano all’istante e le spine lignee venivano espulse dal mio corpo senza lasciare traccia. Mi guardai le mani insanguinate ma senza segni di lacerazioni. Mi misi ad urlare per lo spavento. Caddi nuovamente svenuto.
Quando ripresi conoscenza ero disteso su un giaciglio. Riconoscevo l’aspetto del luogo, ero nella caserma dell’esercito. La testa mi faceva male e quando tentai di mettermi seduto sembrò che il mondo mi volteggiasse intorno.
-Ti sei svegliato finalmente-, disse una voce proveniente da una porta della stanza in cui mi trovavo. Era un inserviente. –Se riesci a reggerti in piedi ti do una tunica pulita e ti mando a lavarti. Ai piani alti sono curiosi di sapere che ti è successo e soprattutto dove è finito il tuo amico.-
-Come sono arrivato qui?- domandai mentre la testa iniziava a dolermi di meno.
-Ti ha trovato quattro giorni fa una pattuglia in perlustrazione-, rispose l’inserviente.
-Quattro giorni-, dissi a bassa voce. Mi guardai le mani. Nessun segno. Poi mi ricordai del fulmine e poggiai le dite sul collo. Sentii subito la superficie liscia e irregolare della cicatrice. Non avevo sognato. Non era un incubo. Era tutto vero.
Lavato e rifocillato, anche se un po’ malfermo sulle gambe, venni accompagnato al cospetto del generale Camlhad e del suo stato maggiore. Raccontai la mia storia anche se non menzionai i pezzi di metallo e neppure della mia caduta nel roveto. La cicatrice sul mio corpo testimoniava per le mie parole. Rischiavo di essere giustiziato come disertore se non mi avessero creduto.
-Discuteremo del tuo caso, Aiutante Khalàd-, disse infine il generale. –Nel frattempo sei sospeso da ogni servizio.-
Attesi per tre giorni il giudizio e sapevo che questa non era una cosa buona perché di solito discussioni così lunghe portavano alla pena di morte. Fui convocato al tramonto del terzo giorno.
-Abbiamo discusso a lungo il tuo caso, Aiutante Khalàd, perché il tuo racconto presenta alcuni lati oscuri e non era facile prendere una decisione. Te ne rendi conto?-
-Si, signore-, mi limitai a rispondere.
-Molto bene. Hai abbandonato la ronda notturna e non sei ritornato con il disertore Sunàt. Dici che è morto ma non puoi provarlo. Un simile reato prevederebbe la morte.- Iniziavo davvero a preoccuparmi. Perché tutto ciò doveva accadere a me? –Tuttavia-, continuò il generale, -Da più parti mi giunge voce che sei un soldato esemplare e non posso metterlo in dubbio visto che io stesso ti ho avanzato di grado. Quindi la tua pena è commutata nell’espulsione dall’esercito con effetto immediato.-
-Vi ringrazio per la vostra misericordia, signore.-

-Eri ancora vivo. Ti è andata bene-, mi fa notare Cristina.
-Chiaramente non puoi mettere bene a fuoco la situazione. Il soldato era l’unico lavoro che mi avrebbe permesso di farmi una posizione. Fuori dall’esercito il mio destino era quello di tornare a fare il garzone di bottega.-
-Meglio che essere morti-, insiste lei.
-La società sumera era molto competitiva. Chi non lottava per innalzare la sua posizione era considerato una nullità, con tutto ciò che ne derivava.-

La mia famiglia tentò di consolarmi in ogni maniera, in particolare Assya e mia madre. Mia sorella era dispiaciuta per la fine tremenda del mio amico ma lo era ancora di più per la mia sorte. Anche mio padre si dimostrò molto comprensivo ma non mancò di farmi notare che la perseveranza nel seguire Sunàt, di cui aveva sempre avuto una bassa opinione, mi aveva rovinato. Come dargli torto?
Fu mio fratello maggiore ad avere l’idea che poteva ridarmi un po’ della dignità perduta. –A Uruk non hai futuro, questo è vero-, iniziò. –Altrove però potresti mettere a frutto la tua abilità in altro modo.-
-Che intendi dire?- domandai interessato. Per quanto demoralizzato mi si accese dentro una scintilla di speranza.
-Conosco dei carovanieri che si accampano spesso poco fuori città. Viaggiano per tutta la Sumeria e anche in altri paesi. Sono sempre alla ricerca di guardie per i loro carri. Dovrebbero essere qui a Uruk proprio in questi giorni e domani andremo a parlare con loro, fratello mio. Ti sei distinto in battaglia e sei un abile combattente. Credo ti prenderanno subito e con una buona paga.-
-Tu mi ridai la speranza, fratello. Non so davvero come ringraziarti-, risposi con sincera gratitudine. Lasciare la propria casa non è mai una bella cosa ma, in questo modo, avrei potuto perlomeno redimere il mio nome e guadagnarmi da vivere.
Come mio fratello aveva detto, il capo dei carovanieri, un uomo smilzo dalla faccia di topo, mi prese subito con se con una paga simile a quella dell’esercito. Dovevo solo procurarmi in fretta delle armi perché nel giro di due giorni sarei partito. Avevo molte cose da fare, non ultima passare dalla famiglia di Sunàt per esprimere il mio cordoglio a suo padre e a sua madre. Fu l’ultima volta che incrociai gli occhi di smeraldo di Siuri.
Con il poco denaro che avevo ero riuscito a procurarmi una lancia e una vecchia spada. Non era gran cosa ma per il momento poteva bastare. La sera prima della partenza ricevetti una visita inaspettata. Il mio istruttore Mordan.
-Ho incontrato tuo fratello al mercato oggi e mi ha detto che partirai con le carovane. Hai già delle armi?-
-Una buona lancia e una spada. La spada è vecchia ma non potevo permettermi di meglio.-
-Fammela vedere-, mi ordinò. Come se fossi ancora in addestramento obbedii all’istante.
-Un vero rottame. Il filo è spezzato e non si potrà affilare mai più in modo adeguato. Pretendi davvero di affidare la tua vita ad un’arma simile?-
-Comprerò qualcosa di meglio dopo che avrò guadagnato un po’ di soldi-, risposi alzando le spalle.
-Sarai morto prima di guadagnarli-, commentò Mordan stizzito. –Prendi questa-, mi disse porgendomi una spada. –E’ stata la mia prima spada, di quando ero un soldato semplice come te. E’ ancora in ottime condizioni e ti sarà più utile di quella falce da grano che ti sei comprato.-
Afferrai l’arma che il rude soldato mi porgeva con mani tremanti. Era lunga poco meno del mio braccio, senza particolari fregi, ma robusta e con il filo ancora intatto.
-Non so come ringraziarvi, signore. La tratterò con la massima cura.-
-Lo spero bene, Khalàd. E ricorda il mio insegnamento. Che tu sia un soldato, un mercenario o una guardia di carovane, sii disciplinato e potrai competere in ogni scontro.-
-Disciplina-, ripetei mentre usciva dalla mia casa.

-Così lasciasti Uruk-, commenta Cristina perplessa.
-Esattamente-, confermo cercando di decifrare il suo viso impassibile.
-Cosa puoi mostrarmi di quel tempo?-
Per tutta risposta apro la cassa che ho ai piedi della mia sedia e ne traggo una piccola anfora di coccio rovinata dal tempo. Reca incisi tre cunei nel codice sumero. Cristina la prende e la osserva con attenzione.
-E’ sicuramente autentica ma questa non prova nulla-, mi fa notare restituendomi l’antico oggetto.
-E’ un’anfora da tre misure, uno dei primi sistemi per quantificare le merci sfuse. Al momento non prova nulla ma, bambina mia, la storia è lunga e i cimeli che ti mostrerò più avanti daranno significato anche a quelli più antichi-, le rispondo con un sorriso.
-Anche se mi hai mostrato quei dipinti e le foto, nonno, mi riesce difficile a crederti. I quadri potrebbero essere delle riproduzioni ben fatte e le foto… Non so davvero che pensare.-
-E’ naturale che sia così, Cristina-, le rispondo in sumero, la mia lingua madre. Non la comprende ma sono certo che sa riconoscerla. –Se penserai alla mia storia nel suo insieme ti accorgerai che ogni pezzo si incastra perfettamente negli altri e che ti sto dicendo la verità.-
-Come puoi parlare tanto fluentemente quella lingua?! Dovrebbe essere…- balbetta incredula. E' il mio asso nella manica. Le avevo parlato in Latino, in Greco antico, in Gaelico e pesino in lingua Egizia, tutte lingue note o riscoperte, ma mai in una lingua totalmente morta come il Sumero. Le traduco quello che le ho detto e attendo che si riprenda dallo choc.
-Dove andasti dopo?- mi domanda con un sospiro. Non ha ancora deciso se credermi o meno.
-Avevo un appuntamento con il destino, se così lo vogliamo chiamare. Un appuntamento chiamato Troia.-

PROLOGO

Si dice che la Preistoria lasciò il passo alla Storia nel momento in cui venne inventata la scrittura. Per scrivere la mie memorie non basterebbero le lingue del mondo, tanto sono vaste. Una lunga, lunghissima vita alla ricerca di un significato, una prova estenuante, voluta da qualche potenza celeste, che ha prosciugato infine la mia anima e mi donerà presto il tanto agognato riposo. Il corpo è invecchiato, seppure conservi ancora molto vigore. La mente è forte e lucida, come quando ero un ragazzo. Il mio spirito sta però abbandonando lentamente questo involucro ma, sebbene mi sia stato concesso il premio per la mia colossale impresa e null’altro mi si chiede di compiere, ho ancora un’ultima cosa da fare prima di riunirmi alla mia famiglia e a tutti coloro che hanno fatto parte del mio viaggio attraverso il tempo. Devo tramandare la mia storia. Guardo fuori dalla finestra e sento la brezza marina del mattino accarezzarmi il viso. L’odore del mare mi è sempre piaciuto e non potevo scegliere luogo migliore per finire i miei giorni, un’ampia casa a picco sul mare poco fuori Siracusa, in Sicilia. So che oltre queste mura, oltre le distanze, al di la dell’orizzonte del mare, c’è la mia terra natia e, sebbene ora sia un arido campo di battaglia, un tempo è stata il centro del mondo conosciuto, la culla della sua civiltà.
Passi rapidi e leggeri si avvicinano alla porta della mia stanza. E’ sicuramente Cristina, mia nipote, venuta a raccogliere la mia eredità. Inizialmente non volle credere a ciò che affermavo. Quando però le mostrai i manufatti introvabili che custodivo come un tesoro, i dipinti e le foto che mi ritraevano nel lontano passato e soprattutto che conoscevo molte lingue dimenticate del mondo antico, dopo il primo momento di malessere si fece forza ed iniziò ad abbattere un po’ il suo muro di incredulità. Ci sono cose che la Scienza non può ancora spiegare. I dotti tuttavia tendono ad affermare che un giorno nulla più sarà un mistero e la divinità verrà totalmente soppiantata dalla ragione. Quanto si sbagliano. Ci sono forze soprannaturali all’opera al di sopra delle nostre teste che neppure immaginiamo.
Sono orgoglioso di Cristina. Già laureata all’età di ventidue anni, da tre lavora come ricercatrice al dipartimento di Storia dell’Università di Messina. La persona ideale per il mio scopo e l’unica di cui mi fidi realmente per un uso saggio di tante informazioni. Una ragazza introversa, innamorata più delle cose del passato che dei suoi simili. Forse troppo. Non sa quanto la vita possa volare via in un baleno. I rimpianti sono la peggior dote da portare alla vecchiaia e io lo so bene perché ne ho molti. Spero che la sua mente sia abbastanza aperta da accettare tutto quello che le rivelerò. Nelle rare volte che ho tentato di raccontare qualcosa, in passato, i miei interlocutori mi prendevano per pazzo e mi scacciavano. Divertente, se ci ripenso adesso.
-Sei ancora a letto, nonno?- mi chiede aprendo lentamente la porta.
-No cara, entra pure-, le rispondo dalla comodità della mia poltrona preferita, piazzata proprio davanti alla finestra per poter guardare il mare.
-Ho portato il registratore come mi hai chiesto.-
-Bene. Voglio che tu ascolti senza distrarti per scrivere. Che ne diresti però di fare prima…-
-Ho anche la colazione, nonno.-
Cara ragazza. Oggi è più radiosa che mai. I miei tratti mediorientale si sono trasferiti più a lei che a suo padre. Cristina ha infatti i capelli neri come l’ebano, come pure i grandi occhi. La carnagione scura è fatta risaltare dal chiaro vestito estivo che le lascia le spalle scoperte. Più la guardo, più i ricordi mi assalgono. In lei rivedo molto di mia madre e delle mie sorelle, nonostante i lineamenti del suo volto siano molto più delicati di quelli delle donne della mia terra.
Poggiato il piccolo registratore digitale e il vassoio con la colazione, in pochi minuti la ragazza imbandisce la mia scrivania come il buffet di un grande albergo. Non occorre incitarmi per farmi alzare dalla mia seduta perché il profumo intenso del caffè caldo mi attira al pasto mattutino come le api al miele. Mentre facciamo colazione parliamo del più e del meno, senza mai sfiorare l’argomento del nostro prossimo colloquio. Cristina non ama dire più del necessario a riguardo ma noto divertito che, con la coda dell’occhio, punta spesso le tre grandi casse di legno che tengo nell’ombra, in un angolo della stanza. Le casse del tesoro, piene dei cimeli che ho raccolto in quasi cinquemila anni.
Finita la colazione a base di latte, caffè nero, pane e marmellata fatta in casa, mia nipote sparecchia e la scrivania torna all’originale compito di scrittoio, nonché ripiano per ogni sorta di cianfrusaglia. Sta per riportare le sedie al loro posto, una per ogni lato del tavolo, ma io la fermo.
-Mettiamoci accanto alla finestra. Riesco a concentrarmi meglio quando il sole e l’aria del mattino mi accarezzano la pelle.-
-Come vuoi, nonno-, acconsente lei apprestandosi a realizzare quella nuova disposizione. Faceva tutto con impegno e serietà, nel lavoro come nella vita privata. Forse era per quello che legava con difficoltà con gli uomini, nonostante fosse una ragazza molto attraente. Si siede su una delle sedie con il registratore in mano e mi guarda in attesa.
Accenno ad un sorriso e, trascinandomi dietro una delle tre casse, quella che contiene i cimeli più antichi, vado a sedermi di fronte a lei ed inizio il mio lungo racconto.