venerdì 19 settembre 2008

NUOVO SITO!!!

A TUTTI GLI AMICI LETTORI!!! POTETE LEGGERE IL NUOVO CAPITOLO DE "IL GUERRIERO" SUL MIO NUOVO SITO www.dunbardagh.com

LUKE SAINTS

mercoledì 10 settembre 2008

13 - IL CONFINE TRA CIELO E TERRA

Le giornate in Sicilia sono sempre belle e piove di rado. Sebbene le stanze della mia casa siano sempre ben ventilate, una passeggiata all’aria aperta, specie nelle prime ore del mattino, quando la temperatura è ancora sopportabile, risulta davvero piacevole e rilassante.
La spiaggia vicino a casa è davvero splendida, fatta di sabbia scura di origine vulcanica e abbastanza lunga perché si possa camminare a lungo. Mentre la percorro con Cristina, a piedi nudi per godere della deliziosa freschezza del bagnasciuga, faccio ordine tra i ricordi e proseguo il mio racconto.

Il vescovo Adriano, futuro Papa Adriano I, era un uomo straordinario e mi bastò il tempo del viaggio in carrozza assieme a lui per accorgermene. Aveva passato da poco i quarant’anni ma la sua mente era fresca e attiva come quella di un ragazzino. Mentre attraversavamo l’ex Gallia, ora regno dei Franchi, l’ecclesiastico studiava preparativi ed azioni da compiere non appena fosse giunto a Roma. Parlammo molto anche della mia vita, di quella plausibile almeno, e del perché portassi con me una spada.
-Un tempo sono stato un guerriero, Eccellenza-, spiegai quando mi pose quella domanda, mentre percorrevamo un sentiero che si perdeva in sterminati campi di grano. –Quella spada, sebbene a volte abbia desiderato di liberarmene, è l’unica cosa che mi lega al mio passato e porta con se molti ricordi.-
-Allora hai fatto bene a tenerla, fratello Khalàd-, mi disse lui. –E’ giusto voler intraprendere nuove strade, specie se portano a Cristo, ma non bisogna mai dimenticare chi siamo stati. Sarebbe come negare l’esistenza di una parte di noi stessi.-
-Eccellenza-, intervenne fratello Egisto. –Non crede che il nome del nostro nuovo fratello, e il suo aspetto soprattutto, possano allarmare qualcuno a corte? I mori d’Africa in fondo sono ancora pagani e…-
-Che cos’ha il mio nome che non va?- domandai un po’ seccato al monaco calvo.
-Nulla, fratello…- si affrettò a dire il frate. –E’ solo che…-
-Fratello Egisto voleva dire che ci sono membri della corte papale, persone con cui avremo spesso a che fare in futuro, che considerano i tuoi conterranei degli esseri inferiori-, mi spiegò senza tanti giri di parole Adriano. –E’ gente che non esiterebbe un istante a radunare un esercito e a mandarlo a sottomettere e convertire a forza la tua gente. Il tuo nome così… straniero… beh, ecco, potrebbe metterli a disagio.-
-E voi non volete averli tra i piedi per una sciocchezza simile, Eccellenza-, conclusi io per lui.
Il vescovo fece un mezzo sorriso e annuì. –Vedo che comprendi al volo, Khalàd.-
-Non è un problema. Lo cambierò. Ne assumerò uno un po’ meno da “forestiero”.-
-Abbiamo tutto il tempo per pensarci. A Roma mancano ancora diversi giorni di viaggio.-

-Non eri mai stato a Roma prima di allora, vero nonno?-
-No. L’avevo combattuta, ne avevo ammirato la civiltà a volte, ma non ci ero mai stato. Non era più la città imperiale di cui tanto avevo sentito parlare. Roma era diventata la città del Papa, da esso governata, e con lei i suoi diretti possedimenti. Il centro del potere non era più il palazzo imperiale in rovina del Palatino ma la Basilica Costantiniana del Vaticano, costruita sopra la tomba di Pietro.-
-Come fu scelto Adriano per divenire il nuovo Papa?- mi chiede lei, nonostante io sia sicuro che conosca bene come funzionassero le cose a quel tempo, all’interno della Chiesa.
-Tanto per cominciare era di famiglia nobile ed influente. Poi era il pupillo di un altro nobile anziano della corte papale che aveva molta influenza sulle candidature. In più, albergava nelle grazie del re dei Franchi, Pipino il Breve, cosa di fondamentale importanza visto che i re di quel popolo avevano giurato di difendere il Papato in caso di attacco.-
-Desiderio, il re dei Longobardi. Lui era la minaccia-, commenta Cristina osservando le impronte dei suoi piccoli piedi che rimangono sulla sabbia umida al suo passaggio.
-Si-, confermo. –Ma non corriamo troppo.-

Roma, la Città Eterna. Non è un soprannome esagerato perché la sua grandezza dava per davvero l’idea di qualcosa di intramontabile, di eterno, fin dall’antichità. Vedere quell’immenso abitato da lontano, mentre la carrozza percorreva una strada collinare in discesa, fu un’emozione indescrivibile.
-E davvero enorme-, commentai. –Non avevo mai visto una città tanto grande.-
-E’ solo un ammasso di pietra e mattoni, fratello Khalàd. Ciò che rende una città piccola o grande sono i suoi abitanti.-
-E Roma è dunque un città piccola o grande, in tal senso?- domandai, in modo da spingerlo a rivelare ciò che pensava di coloro che la governavano, la corte papale che a breve avrebbe presieduto.
-Al momento è piccola, ma ho il grande desiderio di farla tornare immensa.-
-Se mi permettete, siete un uomo ambizioso, Eccellenza-, azzardai. -Ho conosciuto altri come voi, con grandi propositi, ma che poi hanno ceduto agli eventi.-
-Hai ragione da vendere, amico mio. Tuttavia non siamo noi a decidere il corso degli eventi, ma Nostro Signore. Se Egli deciderà diversamente dai miei piani, allora sarà fatta la Sua volontà.-
Sembrava un discorso di comodo ma non detto da lui. Per quanto poco lo conoscessi, potevo affermare con sicurezza che il vescovo Adriano aveva un carisma unico e una grande fiducia nei suoi mezzi.
-Ho pensato ad un nuovo nome da assumere, Eccellenza. Mi chiamerò come un caro amico, un confratello di Grelòn che mi ha insegnato l’arte della miniatura. Veniva anche lui dall’Italia. Si chiamava Callisto. Il suono è simile a quello del mio vero nome, così mi sembrerà di essere ancora io.-
-Non è un nome che ci cambia, sono le esperienze-, affermò il futuro papa. –Apprezzo molto il tuo gesto e trovo il nome adeguato… fratello Callisto.-
Così cambiai nome ed entrai per la prima volta in Roma come Callisto di Uruk, anche se con il tempo esso divenne Callisto l’Uruchese ed, infine, Callisto Uruchese. Adriano aveva ragione. Alla corte papale non amavano molto gli stranieri, specie quelli che venivano dal medioriente. Li chiamavano indistintamente saraceni o mori.

-E’ così che è nato il nostro cognome?! Uruchesi!?- mi domanda Cristina molto sorpresa.
-Si, è stato così. Nel tardo Medioevo venivo chiamato Callisto degli Uruchesi. In seguito, soltanto Uruchesi.-
-Non credo ci siano molte persone al mondo che conoscano l’origine esatta del loro cognome.-
-Direi proprio di no-, le rispondo sorridendo.

Nello stesso anno del mio arrivo a Roma, neppure un mese dopo per la verità, il vescovo Adriano salì al soglio pontificio come Papa Adriano I ed iniziò immediatamente la sua opera di rafforzamento della Chiesa di Roma. Fratello Egisto era il suo faccendiere e segretario personale, mentre io assunsi il ruolo di scrivano. Redigevo gli atti papali, trascrivevo le conversazioni importanti e custodivo una piccola stanza, attigua al mio nuovo studio, dove erano conservati molti antichi atti risalenti anche all’età imperiale.
Un giorno, mentre scrutavo con attenzione gli scaffali colmi di scritti, alcuni dei quali su tavolette di argilla, altri su pergamena, fui sorpreso alle spalle proprio dal mio “datore di lavoro”.
-Qui ci sono molti documenti interessanti-, commentò il Papa affiancandosi a me.
-Molti documenti pericolosi, se mi permettete, Santità-, specificai sottintendendo i segreti che alcuni di quegli scritti contenevano. –Non mi pare il luogo adatto per conservarli, e neppure la maniera.-
-Hai proprio ragione, Khalàd-, disse Adriano annuendo pensieroso. Quando eravamo soli usava sempre il mio vero nome, forse per aiutarmi a ricordare chi ero veramente. –Pensi di essere in grado di catalogarli e trascriverli, in modo che il tempo non li danneggi, e nel contempo siano più facili da occultare in caso di bisogno?- Era una domanda innocente ma per me risultò quasi un insulto. Io, che avevo creato la Grande Biblioteca di Alessandria, non essere capace di archiviare quella poca roba? Inaudito.
-Naturalmente. E se mi permettete un piccolo suggerimento, io terrei lontano da qui fratello Egisto. Sembra ami un po’ troppo il pettegolezzo e questa corte ne è avida. Potrebbe rivelare cose inopportune.-
-Diretto come sempre, amico mio. Si, ho notato anch’io questa propensione del mio segretario alla poca discrezione. Vedrò di porvi rimedio.-

-Cosa c’era in quegli scritti?-
-Molte cose. Dai vangeli apocrifi ai documenti del primo Consiglio di Nicea. C’erano inoltre molti atti papali in cui si parlava di provvedimenti disciplinari, molti di essi contro ecclesiastici traditori e rei di altre nefandezze. Il marciume della Chiesa, in parole povere-, spiego senza mezzi termini.
-Il primo Consiglio di Nicea è definito l’evento che ha dato un’identità alla Chiesa ufficiale. Fu davvero così?- mi chiede mia nipote con noncuranza. In verità vuole strapparmi qualche informazione in più su quei documenti che furono il primo nucleo degli odierni Archivi Vaticani. Ammiro davvero la sua perspicacia e intraprendenza.
-Ti posso solo dire che, leggendo il resoconto delle discussioni di quei giorni, fu la più grande litigata della Storia, fatta da uomini ipocriti che pensavano di conoscere e comprendere l’insegnamento di Gesù meglio degli altri. Il Consiglio di Nicea non fu l’origine della Chiesa ma la fondazione di uno stato ecclesiastico che avrebbe dominato per secoli, direttamente o indirettamente, su tutta l’Europa. Un’entità molto più terrena e materiale di quanto si possa immaginare.-
-E Papa Adriano, di cui avevi una gran considerazione, che ne pensava?-
-Ne era pienamente cosciente e proprio per questo lo ammiravo. Negli anni in cui sono stato al suo servizio, mai una volta si è nascosto dietro alla “missione spirituale” della Chiesa di Cristo per giustificare atti ben poco ortodossi da lui ordinati. La corte papale era un nido di serpi, ma lui era un abile incantatore e sapeva tenerle a bada con maestria.

La corte papale era composta dai rappresentanti di molte nobili famiglie romane e non. Ufficialmente fungevano da ambasciatori dei poteri terreni alla corte del Papa. In realtà erano degli avvoltoi pronti a cogliere la minima informazione per girarla a proprio vantaggio, o del potentato che servivano. I cardinali, gli uomini di rango più elevato della Chiesa, all’infuori del Papa, non erano da meno. Una cerchia ristretta di grassi parassiti che passavano il loro tempo ad escogitare mezzi per accumulare maggiori ricchezze e potere. Da loro imparai un’arte degna dei ninja, per quanto era effimera. La capacità di ottenere potere pur mostrando continuamente il proprio volto spirituale, quello dell’uomo di Dio. Il Papa, naturalmente, sapeva bene come funzionavano le cose a corte ma, finché i cardinali e gli altri frequentatori della sua casa erano indaffarati nelle loro solite occupazioni, non lo intralciavano nei suoi progetti, che lui portava avanti segretamente con l’ausilio di una “corte ombra”, il vero governo della Chiesa. Adriano era solito dire una frase per spiegare i mezzi con cui il clero perseguiva i suoi scopi e si rafforzava. “Il confine tra cielo e terra è molto sottile e spesso se ne perde traccia.” Era una frase con molti significati che riassumeva il modo di pensare di quell’ambiente, anche se la maggior parte dei giocatori di quella partita si trovavano dalla parte terrena del confine.
Oltre a me e a fratello Egisto, c’era un’altra persona in stretta confidenza con il Papa. Era un frate di una trentina d’anni, di corporatura minuta, che viveva in un vicino convento. Si chiamava Leone e spesso Adriano gli affidava importanti missive da recapitare a potenti locali, oppure lo affiancava a qualche cardinale nelle missioni diplomatiche. Da quel poco che lo conoscevo mi sembrava la persona più pia e insignificante del mondo.
-Leone ha capacità e qualità che neppure immagini, amico mio-, mi disse un giorno il Papa, mentre pulivo degli scaffali dell’archivio per riporre i primi volumi che la mia catalogazione aveva prodotto. Stavano nascendo gli Archivi Vaticani. Veniva spesso a trovarmi. Sembrava rilassarsi in quel luogo polveroso dove io regnavo e dove, per un po’ di tempo, potevamo essere semplicemente due uomini che parlavano.
-A vederlo non si direbbe. Talvolta non si nota neppure la sua presenza-, obiettai riferendomi al piccolo frate.
-E ti sembra poco? Leone passa inosservato ovunque. E’ discreto e, soprattutto, è un attento osservatore. Sa valutare le persone e trovarne pregi e difetti. Nonostante parli poco, è un politico nato e sono sicuro che un giorno lo dimostrerà.-
-Ne parlate come di un figlio-, buttai li per cercare di capire meglio il rapporto che legava il Papa al fraticello.
-Lo considero più un allievo. In questo momento mi sta dando un enorme aiuto nel tessere la tela diplomatica che servirà a difendere Roma dalla minaccia dei Longobardi.-
-Desiderio è sul piede di guerra? Non ne sapevo nulla-, commentai senza neppure guardare il capo della Chiesa.
Scoppiò a ridere. –Povero Khalàd-, mi disse allegro. –Per quanto tu tenti di nasconderla o di soffocarla, la tua indole di guerriero è sempre ben presente in te.-
-Che intendete dire?- gli chiesi serio voltandomi a fissarlo negli occhi.
-Che puoi vestirti con il saio e portare la croce per tutta la vita, ma dentro di te sarai sempre un combattente. Credi che non sappia che ti fermi spesso ad osservare le mappe del mio studio, facendo ipotesi e piani di difesa per Roma in caso di attacco? I commenti che fai con gli inservienti dei miei appartamenti ti tradiscono. Tu sei un guerriero, Khalàd. Lo sei sempre stato e sempre lo sarai-, mi disse serenamente alzandosi in piedi per andarsene. –Il che, per Roma e per la Chiesa, potrebbe davvero essere un bene.-
-La situazione è così grave?- gli chiesi direttamente mentre usciva dall’archivio.
-Si-, rispose lui serio tornando a voltarsi. –Desiderio muove i suoi eserciti. Ha fatto piazza pulita dei duchi Longobardi che gli erano ostili e ci ha praticamente circondato. La corte franca è in subbuglio. Pipino il Breve è morto e ha lasciato il potere al figlio più giovane, Carlomanno. Egli non intende rispettare il patto di alleanza tra i re franchi e il Papato.-
-Ho sentito parlare dei figli di Pipino. In particolare di Carlo, il maggiore. Un uomo devoto, intelligente e ambizioso. So che si è risentito molto per la sfiducia paterna.-
Adriano si accigliò. Rientrò nell’archivio e richiuse la porta alle sue spalle. –Sai molte cose, Khalàd. Immagino tu abbia le tue fonti. Cosa suggeriresti di fare? Da soldato, intendo.-
-Sfruttate l’orgoglio di Carlo. Inviategli una delegazione, nei suoi domini a nord, e chiedetegli di mantenere il patto con il Papato. Appoggiatelo apertamente.-
-Lo metterei contro il fratello-, obiettò il Papa.
-Si scontreranno comunque. Si creerà tensione, è vero, ma è Carlo l’unico vero scudo che abbiamo contro Desiderio.-
-E’ una mossa rischiosa ma è l’unica sensata che mi sia stata proposta finora-, commentò Adriano iniziando a camminare avanti e indietro per la stanza. –Farò come hai detto. Manderò uno dei cardinali con lo scopo ufficiale di ammonire Carlo per la sua vita non proprio retta, per salvare le apparenze.-
-E gli affiancherete Leone con il vero messaggio. La richiesta di aiuto.-
-Esatto-, disse il Papa annuendo.

-Il Leone di cui parli, non sarà per caso…-
-Il futuro Papa Leone III. Si, è lui, e non è stato da meno del suo maestro.-
-Come mai un uomo così umile è potuto salire al soglio pontificio?-
-Nessuna regola lo vietava. Generalmente, venivano eletti uomini provenienti da famiglie nobili per il fatto che dovevano esercitare molto potere. Si optava quindi per coloro che avevano dimestichezza con quest’arte, che sapevano comandare.-
-E nel caso di Leone?- mi domanda Cristina sempre più catturata dalla mia spiegazione.
-La corte papale era, come detto, un covo di vipere e di parassiti. Non avendo un candidato forte da proporre, appoggiarono il testamento di Adriano che indicava il suo fedele assistente come papabile. Chiaramente, immaginavano che una persona tanto insignificante sarebbe stata un fantoccio molto semplice da manovrare. Come si sbagliavano.-

La delegazione partì due giorni dopo, diretta alla residenza di Carlo, re minore dei Franchi. Doveva fare in fretta perché i Longobardi potevano attaccare da un momento all’altro. La mano divina venne in nostro aiuto perché, al suo ritorno, l’ambasceria vaticana portò la notizia della morte, avvenuta in circostanze misteriose, di Carlomanno. Qualcuno malignò che fosse stato fatto avvelenare dal fratello. Carlo diveniva in questo modo l’unico re dei Franchi.
-C’è una questione che potrebbe ancora porsi tra re Carlo e i Longobardi-, riferì Leone la sera del suo arrivo, dopo che Papa Adriano ebbe ascoltato il pomposo resoconto del cardinale fantoccio inviato al re dei Franchi. Ci eravamo ritirati tutti e tre nello studio privato del Santo Padre.
-E sarebbe?- domandò il capo della Chiesa offrendoci personalmente una coppa di buon vino di Sicilia.
-Desiderio ha tentato di tessere una sorta di alleanza con i Franchi, concedendo le sue figlie in matrimonio a Carlomanno, al potente duca Tassilone di Sassonia e a Carlo stesso. Ermengarda, la sposa di Carlo, potrebbe essere il problema.-
-Speriamo non si intrometta o dovrà ripudiarla-, commentai amaro. Scacciare una donna, una moglie, era un atto che consideravo davvero squallido, specie per fini politici. Tuttavia, per quegli stessi interessi, era possibile evitare guerre o vincerne altre tramite l’allontanamento di una donna ingombrante.
-Il re farà ciò che Dio vuole-, sentenziò Adriano molto serio. -Desiderio è pronto ad invaderci dalla sua capitale, Pavia. Solo il grande esercito franco può fermarlo. Carlo e i suoi famosi Paladini devono accorrere in nostro aiuto.-
-Paladini?- domandai senza capire di cosa parlasse. –Chi sono?-
-Sono amici d’infanzia di re Carlo. Abili combattenti e condottieri-, mi spiegò Leone che evidentemente li aveva conosciuti. –Il più famoso e il più forte è Rolànd, che noi chiamiamo Orlando, il nuovo Duca di Bretagna. Lui e la sua spada “Durlindana” sono diventati leggenda tra il popolo.-
-Non importa se siano le leggende a combattere per noi-, esclamò cinicamente Adriano. –L’importante è che lo facciano.-
Carlo fece ciò che doveva. Si pose tra i Longobardi e il Papato e questo fece insorgere la sua sposa che venne puntualmente ripudiata. Assediò Pavia nell’anno 774 d.c., sebbene i suoi eserciti dovettero combattere anche contro le esalazioni venefiche e i fastidiosi insetti delle paludi che attorniavano la città. Molti morirono di malattia ma questo non fermò Carlo che, alla fine, guidando personalmente una sortita notturna dei suoi paladini, Desiderio fu fatto prigioniero e Pavia cadde.

-Nulla che non si sapesse già-, commenta Cristina fermandosi a osservare il mare, le cui onde le bagnavano i piedi.
-Vero. Tutti fatti noti, almeno in via generali.-
-Che intendi dire?-
-Nella vicenda dell’ascesa al potere di Carlo Magno, ci sono molte sfumature che vengono spesso messe in secondo piano. Per esempio, si crede che Papa Adriano abbia accettato passivamente il fatto che il re franco si fosse proclamato anche re dei Longobardi, dopo la presa di Pavia. Che si sia accontentato delle briciole senza proferire parola.-
-Se ben ricordo, il patto tra il Papato e i Franchi non prevedeva ciò.-
-Per niente. Adriano osteggiò fino alla fine questa decisione ma dovette cedere. Carlo non era sceso in Italia solo per gli impegni presi dai suoi avi ma, soprattutto, per avere un tornaconto personale, ampliando i suoi domini e dando soddisfazione alla sua segreta aspirazione di diventare signore di un impero.-
-Lo conoscesti? Carlo Magno, intendo.-
-Si. Mi fu presentato di sfuggita durante una sua breve permanenza a Roma. Ebbi modo di conoscerlo meglio in seguito, quando andai da lui per salvare il mio amico Leone.-
-Salvarlo?-

La conquista di Pavia aveva letteralmente messo fine al dominio longobardo sul nord e centro Italia, e di questo il Papa non poteva che esserne felice. Tuttavia, l’annessione al regno dei Franchi di molti dei territori conquistati, aveva messo in evidenza il fatto che Carlo si limitava a rispettare il potere della Chiesa, ma non vi si sottometteva.
-Quei possedimenti dovevano essere nostri!-, esclamò Adriano irritato mentre attendevamo l’arrivo del re franco e dei suoi paladini. L’intera basilica era in subbuglio fin dalle prime ore del mattino ed era solo mezzogiorno. Re Carlo entrava a Roma per rendere omaggio al Papa, da conquistatore vittorioso, e questo era un grande evento, sia per i cittadini romani che per il clero. Sebbene i dignitari della corte fossero divisi sul conto del re d’oltralpe, in quel momento si limitavano a festeggiare lo scampato pericolo, quello più immediato.
-Re Carlo non sarà mai una Vostra pedina-, sentenziò Leone mentre aiutava il capo della Chiesa a sistemare la veste. –Nutre rispetto per ciò che rappresentate ma persegue i suoi scopi personali.-
Oramai eravamo io e il piccolo frate i veri consiglieri del Papa, sempre con lui in ogni occasione. Ci eclissavamo soltanto nelle occasioni pubbliche, in modo da salvare le apparenze e permettere ai cardinali di mettere in mostra le loro belle porpore.
-Potrebbe non essere un problema-, intervenni nella discussione.
-Callisto. Se hai un’idea per rivoltare le posizioni dimmela in pochi minuti. Non mi va di parlamentare con il re in una posizione di svantaggio-, affermò Adriano davvero agitato. La situazione non gli piaceva perché sapeva che la trattativa tra il franco e il Papato, sulla spartizione del “bottino” di guerra, era favorevole al primo. Carlo aveva si rivendicato i domini Longobardi e la corona di Pavia, ma senza l’appoggio del Papa sarebbero sempre stati visti come acquisizioni illecite.
-Re Carlo vi rispetta. Usate questa leva per controllarlo, senza che lui se ne accorga.-
-Controllarlo?- domandò Leone sorpreso. –E’ già tanto se Sua Santità riesce ad ottenere per la Chiesa i possedimenti del centro dell’Italia.-
-Opponete una moderata resistenza e accontentatevi di poco… per ora-, suggerii. Non che mi interessasse arricchire ancora di più lo Stato della Chiesa. Volevo soltanto aiutare Adriano, proprio per il rispetto che gli portavo. Fin da quando ero stato dignitario alla corte di Alessandria avevo imparato molto sull’arte del compromesso politico. Non che amassi quella pratica, ma ammetto che ci sapevo fare. Il Papa si fece interessato e il suo sguardo divenne interrogativo.
-Continua-, mi disse sedendosi.
-Re Carlo è in una posizione di vantaggio, questo è innegabile. Potrà facilmente avere partita vinta, io credo. Rimane però un prezioso alleato, un potente alleato, che non vi potete permettere di perdere. Vuole il nord dell’Italia? Lasciateglielo, ma al tempo stesso, in cambio, ingabbiatelo. Legatelo alla Chiesa da nuovi vincoli e patti. Fate in modo di indirizzare le sue future scelte a Vostro vantaggio. Forse oggi perderete con lui una battaglia, ma potreste in questo modo vincere la guerra.-
Il capo della Chiesa divenne pensieroso e rimase in silenzio per diversi minuti. Quando parlò si rivolse a Leone. –Tu che ne pensi, amico mio? La via suggerita dal nostro fratello Callisto ti sembra percorribile?-
-Io ritengo di si. Al momento non sarà la più felice ma davvero potrebbe farvi avere, in un prossimo futuro, un maggiore controllo sul re dei Franchi.-
-Sei un uomo pericoloso, Callisto-, mi appuntò il Papa con un mezzo sorriso. -Sono felice che tu sia dalla mia parte. Non oso pensare cosa accadrebbe se ti schierassi con la fazione della corte che mi si oppone.-
-Sono felice di esserVi di aiuto, Santità-, risposi con un inchino.

-Davvero fece come gli avevi suggerito?-
-Ma certo. Ne lui ne Leone avevano un’idea migliore. Carlo Magno era troppo potente e influente. Non sapevamo ancora della sua ambizione di diventare imperatore ma riuscimmo a mettergli il freno. Il rischio che, prima o poi, rivendicasse il controllo anche sullo Stato della Chiesa era reale.-
-Com’era lui? Era davvero analfabeta?- mi chiede la mia bambina, evidentemente interessata ad un po’ di “gossip medioevale”.
-Lo era davvero, ma questo non fu mai un vero problema. Talvolta, anzi, si rivelò un grande vantaggio. Molti suoi avversari, per il fatto che non sapeva leggere e scrivere, facevano il terribile errore di considerarlo anche stupido. Carlo non era uno stupido e posso dire che fu davvero il grande sovrano che la Storia ricorda.-

Il re dei Franchi e il suo seguito rallentarono di proposito la loro avanzata verso la Basilica Costantiniana. Evidentemente anche lui aveva fatto i suoi piani per l’imminente confronto politico e, probabilmente, voleva irritare un po’ il Papa per renderlo più vulnerabile. Adriano fu invece paziente. Conosceva bene il suo alleato, soprattutto le sue bizzarrie. Attorniato dai suoi consiglieri ufficiali, un gruppo di anziani cardinali che costituivano il governo dello stato papale, attese immobile l’arrivo dell’ospite in cima alla gradinata che portava all’ingresso della basilica. Io e Leone avevamo avuto il compito di mischiarci ai dignitari di corte e cogliere i loro commenti, le loro lamentele e quant’altro potesse indicare un eventuale schieramento pro o contro il Papa. Da dove mi trovavo, in mezzo ad un gruppo di rampolli di nobili casate romane, potevo vedere il corteo dei Franchi giungere ai piedi della scalinata e ivi fermarsi.
Re Carlo era un uomo piuttosto tarchiato, con le spalle larghe e la testa leggermente sproporzionata rispetto al resto del corpo. Solo la corona e gli abiti regali lo facevano risaltare all’interno del corteo, altrimenti avrebbe davvero potuto sembrare un uomo comune, e questo mi preoccupò. Sembrava un uomo insignificante, proprio come Leone. Temetti che il re dei Franchi fosse fin troppo simile al mio amico. Nel corteo vidi finalmente i famosi Paladini, gli eroi che affiancavano re Carlo in ogni impresa. Riconobbi subito il biondo Orlando, che cavalcava a fianco del sovrano e che sfoggiava con orgoglio l’elsa riccamente decorata della sua spada, Durlindana. L’arroganza del suo sguardo non mi piacque fin da subito e mi ritrovai perfidamente a pensare a quanto sarebbe stato divertente vedere la sua nobile lama scontrarsi con Uragano.

-Tu, naturalmente, non fosti presente al colloquio tra il Papa e Carlo Magno-, suppone Cristina con l’aria un po’ delusa.
-No, ma ascoltai un colloquio molto più interessante. Captai per caso una conversazione bisbigliata tra alcuni dignitari della corte. La parola “Bisanzio” mi mise in allarme. I rapporti tra la Chiesa Romana e il potentato di Bisanzio, impersonato dall’imperatrice Irene, erano da sempre molto tesi. Il fatto che il nome della capitale d’oriente fosse sussurrato da alti rappresentanti della corte papale non era un buon segno. Mi ricordai che avevo una risorsa unica per ascoltare quella conversazione e richiamai a me lo spirito del lupo, una cosa che non facevo da secoli. Pensavo di non riuscirci più ma con mio sommo piacere fui investito subito dall’affinità spirituale con quel nobile animale. Le parole dei dignitari mi divennero chiare all’istante.
-Guarda come si pavoneggia, ora che arriva da vincitore-, disse uno di loro riferendosi a re Carlo. –Quel povero analfabeta è stato davvero fortunato e ora avrà molte pretese. Il Papa cederà sicuramente.-
-Speriamo di no. La corte di Bisanzio si irriterebbe molto se il porco franco dovesse accumulare ancora potere-, rispose un altro.
-Limitiamoci a riferire cosa accade, poi saranno i nostri amici d’oriente a dirci come muoverci-, esclamò un terzo.
-E’ pericoloso, Alderigo. Se ci chiedessero di interferire con gli affari del Papa…-
-Basta! Non lo faranno, non preoccupatevi. Sanno bene che per mettere le mani su Roma devono prima togliere dai giochi i Franchi. La proposta di un’alleanza strategica tra l’imperatrice e re Carlo è già in fase avanzata.-
Avevo sentito abbastanza quindi mi allontanai. Anche se li vedevo di spalle avevo capito chi erano i tre cospiratori. Il più anziano era Alderigo di Riverosse, un ricco possidente che discendeva da una delle famiglie più aristocratiche di Roma. Si diceva persino che il suo casato fosse legato ad una delle famiglie imperiali che avevano governato su Roma nei tempi antichi. Gli altri due erano degli arricchiti introdotti a corte dallo stesso Alderigo. Germano degli Acquaroli e un hispanico, Fernando di Burgos, un influente ex mercante che aveva affari, talvolta poco puliti, sia con i cristiani che con i mori che occupavano gran parte della sua terra natale.

-Ma non erano il Papa e i cardinali a prendere tutte le decisioni sul governo di Roma e dei suoi possedimenti? A cosa serviva una “corte papale”?- mi chiede Cristina, non comprendendo chiaramente l’articolata organizzazione dello stato pontificio di quell’epoca.
-Una buona domanda a cui si possono dare molte risposte-, inizio a spiegarle. –Effettivamente era il pontefice a prendere tutte le decisioni, consigliato solo dai cardinali della sua stretta cerchia. Tuttavia, gli stessi cardinali provenivano da gruppi familiari molto influenti e avevano introdotto i loro parenti più rappresentativi nel cerchio dei consiglieri del Papa. Un pratica non disdegnata dai pontefici perché questi consiglieri “non ecclesiastici” amministravano a loro volta potere e denaro. Si creava così una complessa catena di relazioni che portava ad una certa stabilità politica del Papato. In pratica, se si doveva prendere una decisione importante sul governo dello Stato della Chiesa, veniva studiata una proposta di massima dall’autorità ecclesiastica che poi era sottoposta all’esame dei consiglieri esterni al clero. Questi, essendo più legati ad interessi terreni che spirituali, la valutavano e suggerivano gli eventuali cambiamenti da apportare. Trovato un certo livello di compromesso, il Papa ratificava il decreto e questo diveniva legge pontificia.-
-Una sorta di scambio di favori, insomma.-
-Chiamiamolo pure così. Era un sistema che, se da un lato non guardava molto all’interesse della povera gente, dall’altro garantiva una base economica solida per il mantenimento dello stato romano. Al Papato non è mai mancato il denaro. Quello che gli mancava erano le spade, ed ecco perché era così importante avere un alleato così forte come Carlo Magno.-
-L’arte del compromesso è davvero antica-, commenta disgustata mia nipote.
-Non hai idea quanto-, le rispondo ridendo.

I colloqui privati tra re Carlo e Papa Adriano andarono avanti fino a sera, quindi non potei riferire ciò che avevo sentito. Ne parlai a Leone e anche lui si preoccupò molto. Era una brava persona e, a differenza di me, oltre che il rispetto per il nostro comune superiore, aveva un sincero desiderio di preservare l’integrità della Chiesa.
-Dobbiamo riferire tutto a Sua Santità, amico mio-, disse il frate piuttosto agitato. –E’ un fatto gravissimo quello di cui sei venuto a conoscenza.-
-Calma, fratello Leone. Il Papa ora è a colloquio con il re e non possiamo disturbarlo. Ad ogni modo abbiamo un po’ di tempo. Se davvero Bisanzio vuole mettere le mani su Roma dovranno prima togliere dallo scacchiere re Carlo e non sarà cosa facile. Piuttosto, dobbiamo scoprire quanti dignitari della corte sono coinvolti. Solo allora potremo decidere il da farsi-, suggerii, anche per tentare di calmarlo.
-Si. Forse hai ragione. Mi sono fatto prendere dall’ansia, fratello. E’ solo che un fatto così grave…-, disse il mio amico stringendo i pugni.
-Parliamone a Sua Santità, poi si vedrà.-
Naturalmente, Papa Adriano andò su tutte le furie quando seppe ciò che avevo scoperto e la temperanza propria di un ecclesiastico fu accantonata per un po’.
-Sapevo che tramavano qualcosa ma non immaginavo che il loro tradimento fosse così grande!- disse il capo della Chiesa furibondo. Era tarda sera e la cena con il re e i colloqui privati erano terminati da poco più di un’ora. Lo studio di Adriano era semibuio ma la fioca luce di poche candele bastava per illuminare il suo volto rosso per la rabbia.-
-Dobbiamo fare qualcosa, Santità-, disse Leone. –Non possiamo permettere che il complotto vada avanti.-
-No davvero, mio fedele Leone-, concordò il pontefice. –Solo non so cosa. Servono prove e, come mi avete detto, si tratta solo di un progetto, per adesso-, concluse un po’ sconsolato il Papa sedendosi.
-Dimenticate per qualche momento la congiura-, intervenni. –Sono troppo indiscreto se vi chiedo come sono andati i colloqui con re Carlo?-
-Per nulla, Callisto. Il tuo suggerimento si è rivelato davvero utile. Da tutta questa faccenda il Papato otterrà solo le briciole, pochi possedimenti nel centro dell’Italia. In compenso però, ho raggiunto con il re dei Franchi un accordo di massima per stipulare nuovi concordati. Si impegnarà a muovere ogni suo passo esclusivamente con il consenso di Roma.-
-Molto bene. In questo modo, quando l’imperatrice Irene di Bisanzio farà la sua mossa, Voi lo verrete a sapere e potremo prendere le adeguate contromisure.-
-Credi sia opportuno riferire al re della faccenda?- mi chiese Leone.
-Non è necessario. Sapere è potere, ed è meglio non dare a re Carlo informazioni che potrebbero portarlo a qualche azione sconsiderata.-
-E con i congiurati come la mettiamo? Sappiamo di Alderigo e degli altri due-, disse Adriano corrucciato. –Saranno i soli?-
-Questo starà a noi scoprirlo. Cominceremo ad indagare su coloro che Vi si oppongono, anche sui cardinali. Non potete fidarvi di nessuno-, suggerii.
-E quando avremo la lista completa? Che faremo?-
-Nulla. Attenderemo che facciano la loro mossa e, se si faranno troppo intraprendenti, vuoteremo il sacco con re Carlo e in qualche modo glieli consegneremo.-
-Non è un atteggiamento molto cristiano, però-, mi fece notare Leone. –Uomini di Chiesa non si comportano in questo modo.-
-Fratello Callisto ha ragione, mio fedele Leone-, convenne il Papa. –Loro non si faranno scrupoli per colpirmi. Io non posso essere da meno. Anche in questo caso, sarà il compromesso tra la nostra parte terrena e quella spirituale a prevalere. Chiederemo perdono a Dio nell’eventualità in cui dovessimo uscire per un po’ dalla rettitudine, ma abbiamo il sacro dovere di salvare la Chiesa da questa infida minaccia.-
Fu così che io e Leone, oltre che assistenti del Papa, diventammo segretamente anche le sue spie. Leone, come detto, aveva dalla sua un aspetto molto comune. Riusciva ad avvicinare tutti i cardinali sospetti e a carpire i loro pensieri e le loro conversazioni. Io mi occupai dei dignitari che non facevano parte del clero. Utilizzai le mie affinità animali per sgusciare negli angoli più nascosti dei palazzi e delle chiese e ascoltare le conversazioni più indiscrete.
Passammo anni dedicandoci a quell’attività segreta ma alla fine riuscimmo a scoprire tutti i congiurati. Oltre ai tre che avevano dato il via alla nostra ricerca, altri quattro se ne aggiunsero, tra cui due insospettabili cardinali di alto rango. Era l’anno 795 d.c. e, purtroppo, fu anche l’anno in cui Papa Adriano I morì, proprio la notte di Natale. Re Carlo era lontano e non poté essere presente ai riti funebri, anche perché una parte dei cardinali, tra cui i traditori, avevano una gran fretta di seppellire il defunto pontefice e di eleggerne subito un altro. Adriano, a modo suo, era stato un rivoluzionario e alle caste di potere i rivoluzionari piacevano poco. Non ci fu accordo sul nome del nuovo Papa e così, come la tradizione di quel tempo voleva, venne aperta la lettera testamentaria del vecchio Papa, in cui era scritto il nome di colui che egli aveva in gradimento come successore.

-Immagino che sia stata una grande sorpresa per tutti quando lessero quel nome-, commenta Cristina divertita.
-Davvero, ma più ancora fu sorpreso il diretto interessato. Leone non immaginava che Papa Adriano lo avesse in così alta considerazione.-
-I cardinali accettarono quella candidatura senza discutere?-
-La esaminarono, solo il tempo strettamente necessario per decidere che un Papa fantoccio poteva essere loro più utile di uno forte come era stato Adriano.-

Dovetti sorreggere Leone quando il suo nome venne annunciato all’assemblea dei cardinali e dei dignitari della corte papale. Essendo una fase pubblica del cerimoniale, noi due potemmo essere presenti.
-Non… è… possibile…-, biascicò il piccolo frate quando si rese conto di ciò che stava accadendo.
-E’ possibile, invece. Personalmente credo che il nostro buon Adriano abbia fatto la scelta più giusta, oltre che la più coraggiosa. Alla Chiesa serve un uomo forte come lo era lui, Vostra Santità-, lo apostrofai serenamente.
Questi sono i fatti che portarono un semplice frate a salire al soglio pontificio con il nome di Leone III. Disgraziatamente per coloro che avevano pensato di aver appoggiato l’elezione di un pezzo di burro, Leone mise subito in chiaro che a comandare era lui. Sbrigati i cerimoniali del caso, il suo primo atto fu di nominare me come suo segretario personale, nonostante molti cardinali anziani gli proposero un uomo di loro fiducia, uno che lo controllasse in ogni momento della giornata, per intenderci. In secondo luogo riequilibrò i piatti della bilancia. La fazione di ecclesiastici e dignitari che si opponeva al vecchio pontefice era andata in maggioranza, quindi si era fatta più pericolosa. Avevamo passato gli ultimi anni a stilare liste di congiurati e frequentatori poco affidabili della corte. Non dovemmo fare altro che sfoltire un po’ quella marmaglia. Leone spedì alcuni dei prelati a lui ostili in missione, in terre remote ai confini dei domini influenzati dalla Chiesa romana. e bandì letteralmente alcuni dei dignitari meno importanti dalla corte. In questo modo riportò le opposte fazioni in parità.

-Perché semplicemente non si liberò dei suoi oppositori? Magari mandandoli lontano da Roma?-
-Era la sua idea iniziale ma lo dissuasi io dal farlo.-
-Per quale motivo?- mi chiede mia nipote senza capire.
-Era meglio sapere in ogni momento dove si trovassero i nemici più pericolosi. Per dirla in breve, era più facile sorvegliarli li a corte che non in qualche sperduto angolo di mondo.-
-Davvero astuto-, si complimenta lei. –Ma mi sembra improbabile che nessuno si sia accorto dello scopo di quelle manovre.-

Era chiaro che i nostri intenti non potessero passare inosservati. Leone era un uomo diretto e usava poche cautele quando doveva far eseguire un editto papale. I cospiratori decisero di agire. Sapevamo che erano rimasti in contatto con Bisanzio per molti anni. Il tentativo di allontanare Carlo dal Papato era miseramente fallito perché l’imperatrice Irene aveva sottovalutato l’intelligenza del re franco. Colei che regnava in oriente si era offerta di sposare Carlo e di farlo quindi diventare imperatore. Questa mossa aveva il doppio scopo di mettere le mani sull’occidente, su Roma, e di legittimare con un forte matrimonio il suo diritto a governare. Carlo non abboccò. Lui voleva si essere imperatore, ma dell’occidente, e non amava dividere il potere. Rifiutò. Con garbo, ma rifiutò. Immaginai che a Bisanzio non si fossero arresi e che preparassero qualche altra offensiva. Purtroppo lo scoprii troppo tardi e non fui in grado di evitare il primo attentato al Papa che la Storia ricordi.
Una sera, dopo il pasto, mi stavo affrettando a raggiungere Leone nel suo studio, per stilare il programma del giorno seguente e per aggiornarlo sui movimenti di Alderigo e di altre conoscenze poco affidabili. Arrivai appena in tempo per vedere i quattro uomini vestiti di nero che lo avevano aggredito, estrarre dei lunghi pugnali e levarli su di lui. Ci trovavamo in uno dei giardini interni della residenza papale e il luogo era deserto. Leone era già a terra tutto pesto e sanguinante.
-Fermatevi!- intimai loro mettendomi a correre, nonostante la lunga veste bianca mi limitasse i movimenti.
Quando li vidi voltarsi verso di me sorridendo, pronti ad eliminare il piccolo contrattempo che rappresentavo per loro, in me scattò qualcosa. I miei muscoli si tesero e la mia mente si concentrò sugli avversari, tornando affilata come una lama, come lo era stata un tempo. Secoli di inattività sembravano non aver intaccato le mie capacità combattive e questo fu, forse, la salvezza del Papato di Roma.
-Uccidiamolo!-, esclamò uno dei sicari. –Non lasciamo testimoni!-
-Stolti-, dissi loro a bassa voce con un mezzo sorriso. Anche se non ero armato non mi preoccupai. I quattro mi attaccarono uno alla volta, in rapida successione. Mi fu facile abbatterli tutti, evitando i loro fendenti e colpendoli nei loro punti deboli con precisi colpi da ninja. L’Atemi Jutsu che Hidai Kanoshi mi aveva trasmesso era ancora ben vivo dentro di me. Non li uccisi, naturalmente, ma li lasciai svenuti a terra e mi precipitai da Leone. Uno di loro era riuscito a ferirmi ad un braccio ma la ferita era già guarita, lasciandomi soltanto la veste lacerata e sporca di sangue.
-Come stai, amico mio?- gli chiesi senza troppe formalità.
-Potrei stare… meglio-, mi rispose un po’ ironicamente. Era ridotto male. Lo aiutai ad alzarsi prendendolo sotto braccio. Stavo per chiamare le guardie di palazzo quando altri sicari spuntarono in fondo al corridoio semibuio. La mia vista di falco me li mostrò prima che loro potessero vedere noi e feci in tempo a nascondermi assieme al Papa.
-Questo posto non è più sicuro per noi, Leone. Ci hanno presi di sorpresa e non sappiamo di chi ci possiamo fidare. Dobbiamo andare via e trovare un rifugio adatto, fuori da Roma.-
-Ho la testa che mi scoppia… Callisto. Mi rimetto… nelle tue mani… e in quelle di Nostro Signore.-
-La mia stanza non è lontana. Indosseremo delle vesti che non siano bianche, così daremo meno nell’occhio e potremo uscire dalla residenza con meno difficoltà-, gli annunciai. Temevo svenisse da un momento all’altro.
Lo trascinai nella mia semplice stanza e lo adagiai sul letto. Gli pulii alla meglio le ferite che ancora sanguinavano e lo spogliai. Era semicosciente ma riuscii lo stesso a farmi aiutare a mettergli un vecchio saio marrone che avevo usato per passare inosservato durante gli anni, mentre tenevo d’occhio i congiurati fuori dei palazzi pontifici. Terminato quel compito mi fermai ad osservare il piccolo Leone, inerme sul letto. Quell’uomo era stato scelto da Gesù per essere la guida dei suoi fedeli. Non ero sicuro che la Chiesa di cui mi ero trovato a far parte, la Chiesa ricca e opulenta, corrotta e politicamente schierata, fosse l’istituzione amorosa che il mio antico amico aveva in mente di fondare quando era in vita. Tuttavia, di una cosa ero sicuro. Leone era un uomo giusto e non meritava di essere abbandonato nelle mani di gente senza scrupoli, gente che si faceva scudo della croce solo per giustificare le proprie nefandezze. Il Papa aveva bisogno di protezione e solo io potevo dargliela. Non avrei potuto farlo come fratello Callisto. Dovevo farlo come Khalàd, il guerriero.

-Allora tornasti ad essere un combattente-, commenta Cristina quasi sollevata. Ho avuto fin dall’inizio il sospetto che non approvasse la mia scelta di prendere l’abito talare.
-Proprio così. Era il momento cruciale. Finalmente scelsi definitivamente cosa essere.-
-Non ti ci vedo proprio in abito da prete. Scusa, nonno-, mi confida sorridendo.

Mi tolsi l’abito e lo deposi su una seggiola. Dalla cassa dei vestiti presi dei calzoni e una casacca di lana e li indossai. Erano abiti che avevo comprato negli anni, per usarli come travestimento. Non avrei mai immaginato che mi sarebbero serviti per tornare ad essere me stesso, perché quella era la verità. Dentro di me sapevo di non essere mai stato veramente un uomo di Chiesa. Il monastero era stato un rifugio temporaneo per darmi il tempo di riflettere e fare la tanto agoniata scelta.
Fermai la casacca in vita con una cintura e indossai un paio di stivali al ginocchio. Leone osservava impassibile la mia trasformazione. Ebbe però un sussulto quando mi vide inginocchiarmi per tirare fuori da sotto il letto una cassetta piena di polvere ed aprirla. Nel momento stesso in cui vi posai gli occhi, udii il canto di Uragano nella mia mente, come se io fossi un’altra Spada Celeste disposta a cantare con lei. Ammisi, quasi con un misto di gioia e rammarico, che se avessi potuto farlo lo avrei fatto. Infilai la mia spada celtica alla cintura e sollevai il pontefice dal letto. Mi assicurai che non ci fosse nessuno in giro ed uscimmo dalla stanza. Volevo raggiungere il cortile di servizio, dove sapevo c’erano dei cavalli e dei carretti che avrebbero potuto fare al caso nostro. La via più breve passava per la cappella privata del Papa. Quando l’attraversammo e vidi il crocifisso appeso sopra l’altare, sentii il bisogno di fermarmi un attimo. Deposi Leone su una panca e mi voltai verso il piccolo altare. Mi inginocchiai e levai gli occhi all’immagine di Cristo.
-Gesù. Perdonami se ora o in futuro non potrò essere degno della fiducia che hai riposto in me. Ho tentato di fuggire da ciò che un destino beffardo aveva stabilito per me e ho fallito. Non posso essere quello che non sono. Se mi volterai le spalle lo capirò ma, ti supplico, non permettere che un uomo giusto come Leone venga sacrificato in nome del potere e del denaro. Sostienimi nel mio compito. E’ il tuo vecchio… vecchio… amico Khalàd di Uruk che te lo chiede.-
Non so dire se si trattò di un miracolo o della mia immaginazione, ma per un attimo vidi il crocifisso illuminarsi di una luce d’orata e seppi che Cristo era ancora al mio fianco. Rinfrancato, mi rialzai e andai a recuperare il mio amico Leone.
-Adriano… mi aveva detto che… eri un uomo speciale. Che dentro di te… dormiva un guerriero…-
-Lui aveva visto la mia anima tormentata quando mi accolse al suo servizio. Le diede conforto dal dolore ma sapeva che fuggivo da un destino che non avevo scelto. Sapeva anche che un giorno avrei dovuto farci i conti e quel giorno è arrivato. Ho fatto una scelta, Leone. La scelta di tornare ad essere me stesso e di salvare il Papato di Roma da te rappresentato, nonostante io non sappia se esso lo merita davvero.-
-Una cosa…noto con piacere… che non hai perso… la fede… in Cristo.-
Solo uno stalliere sorvegliava il cortile di servizio e le stalle. Lo stordii con un colpo al collo e portai il piccolo pontefice nella stalla. Adagiai Leone su un carretto sul quale avevo sparpagliato un po’di paglia pulita e lo coprii con una vecchia coperta e attaccai. Appeso ad un chiodo del muro trovai un mantello logoro ma ancora buono e me lo buttai sulle spalle. C’era luna calante ma il fioco bagliore non ci tradì, cosicché, attaccato il mezzo ad un bun cavallo, riuscimmo ad uscire dal perimetro dei palazzi pontifici senza dare nell’occhio.

-Dove lo volevi portare, nonno?-
-Dall’unico amico che un Papa come Leone potesse avere. Da re Carlo, a nord-, rispondo ricordando gli eventi di quei giorni.
-Da soli? Su un carretto di legno e con il Papa in quelle condizioni?-
-Non c’era scelta. Se volevo rimetterlo sul trono di Roma avevo bisogno dell’appoggio di Carlo Magno. Speravo di incontrarlo prima di arrivare tanto a nord, alla sua reggia.-
-E fu un desiderio esaudito?-
-Purtroppo no.-

Il viaggio fu duro e molto faticoso, specie per il povero Papa. Avevo curato alla meglio le sue ferite ma tutto quel movimento ne rallentava la guarigione. Nei giorni che seguirono, mentre ci dirigevamo a nord, attraverso i valichi nelle montagne, venne colto più volte dalla febbre e da stati di incoscienza. Una volta temetti davvero di averlo perso. Ma non era solo la sua mente ad essere forte. Nonostante un fisico così esile, Papa Leone era un uomo forte anche all’esterno e sopravvisse ai molti giorni di fuga. Speravo solo di trovare presto dei messi reali che potessero darci aiuto. Temevo che i sicari fossero al nostro inseguimento perché ero sicuro che avessero cercato le nostre tracce. Non potevano lasciarci vivi. Eravamo testimoni del fallito attentato.
I miei timori si materializzarono un pomeriggio dell’ottavo giorno di fuga. Avevamo appena attraversato un valico di montagna e stavamo scendendo verso la terra dei Franchi quando, in un piccolo altopiano, ci trovammo accerchiati da otto uomini a cavallo con il volto coperto. Erano tutti armati di spade. Inconsciamente, prevedendo lo scontro, iniziai ad assorbire l’energia della luce del sole, come avevo imparato a fare in Britannia, a caricarmi per la battaglia.
-Sei sfuggente, monaco, ma portare una spada non salverà te o l’omuncolo che ti trascini appresso- disse uno di loro fermandosi a poca distanza da noi. Avevo già sentito quella voce, da qualche parte, ma non riuscivo a ricordare dove e quando.
-Sono un uomo pieno di risorse e ti sconsiglio di scoprirne altre perché periresti.-
-Sei solo un monaco. Non hai l’addestramento necessario per battere me o qualcuno dei miei uomini-, mi derise lo sconosciuto. Gli avevo intravisto gli occhi e anche quelli mi sembravano familiari.
-Io ti ho avvertito-, gli risposi con indifferenza e questo lo irritò, proprio come volevo. –Voi sicari sapete solo colpire alle spalle. Non avete nessun onore-, lo provocai volontariamente.
L’uomo esplose e si strappò il cappuccio di tela che gli nascondeva il volto. I biondi capelli volarono al vento e due occhi azzurri colmi di rabbia scintillarono alla luce del giorno. Rimasi molto sorpreso nel riconoscerlo. –Io sono un nobile cavaliere, monaco! Ne so molto più di te sull’onore!-
-Orlando?!- esclamai. –Ti davano per morto a Roncisvalle, nelle terre dei Baschi!-
-Dio mi ha salvato, nonostante proprio il mio migliore amico e re mi abbia abbandonato!- ringhiò il redivivo paladino franco. Ero nella retroguardia dell’esercito di Carlo quando i baschi ci attaccarono, perché lui si era dimostrato debole! Preferiva parlamentare con loro anziché sottometterli e dominarli! I suoi possedimenti si sarebbero estesi ancora ma lui ha desistito, per rispettare i dettami di uomini deboli quanto lui, quanto quello che ti porti ferito appresso!-
-E così ti sei unito ai cospiratori contro il Papa. Davvero onorevole per un cavaliere-, lo sbeffeggiai scendendo dal carro. Volevo avere i piedi ben piantati per terra se dovevo affrontare uomini a cavallo.
-E’ stato per caso che mi sono avvicinato a loro. Un cardinale, di passaggio con la sua scorta, mi ha raccolto ferito e mi ha portato a Roma dove sono stato curato. Mi ha rivelato tutte le debolezze degli uomini che governavano la Santa Chiesa e allora ho capito, monaco. Ho capito perché il mio re era diventato così remissivo!- Era in preda ad un chiaro delirio. –Ma ora questa effimera influenza finirà perché uccidendo Leone sradicherò le assurde idee del suo maestro Adriano!-
-Stolto!- tuonai estraendo Uragano. –Se vi riuscissi non faresti altro che consegnare Roma e l’Europa a Irene di Bisanzio! Ovviamente non torcerai neppure un capello a Sua Santità.-
Un cenno bastò per far scattare i suoi sette compagni che mi assalirono al galoppo, con le spade pronta a colpire. Furono proprio i Franchi ad introdurre in Europa le sella da cavalleria con le staffe, un formidabile strumento che permetteva di sommare la forza del cavallo a quella del cavaliere, proprio nel momento in cui questi colpiva con la spada o la lancia. Peccato che non abbiano studiato anche un modo per proteggere i punti deboli dei cavalli. Schivai ogni attacco con rapidità e, dopo il colpo a vuoto del cavaliere, io ferivo con la spada una delle gambe posteriori del cavallo, in modo da azzopparlo senza ucciderlo. In quel momento mi sentivo più magnanimo verso quegli innocenti animali che con i loro padroni. Ottenni il risultato sperato e li feci scendere tutti a terra, il mio terreno prediletto. Non erano degli stupidi perché non mi sottovalutarono dopo quello che avevo fatto alle loro cavalcature. Erano restii ad attaccarmi anche se quella, vista la loro superiorità numerica, era la mossa più logica da fare. Decisi di sorprenderli e li attaccai io. Ricordai gli insegnamenti del maestro Long Dao quando mi spiegò la tattica per affrontare da solo più uomini. “Attacca prima quello che non vedi, poi il più aggressivo, infine il più debole.” Aggredii proprio quello che mi era scivolato alle spalle e lo trafissi con un preciso affondo alla gola. Mi voltai rapidamente perché il più aggressivo di loro si era fatto coraggio e mi stava per calare la sua spada sul cranio. Parai il colpo e risposi con un fendente al petto. Lo ferii ma non lo uccisi e me lo ritrovai addosso nuovamente. Schivai il suo affondo con una giravolta e piantai, senza neppure guardare, la mia spada celtica nel suo ventre, facendolo accasciare. Mi concentrai infine sul più debole di tutti, un uomo esile che stava tremando dalla paura dopo quello che avevo fatto ai suoi due compagni. Non era una bella cosa infierire proprio su di lui ma serviva un esempio della mia ferocia. Non lo uccisi ma lo ferii gravemente ad una gamba e lo colpii ripetutamente con il piatto della lama. I quattro sicari rimasti fermarono i loro attacchi e arretrarono impauriti.
-Vogliamo finirla e batterci?- domandai ad Orlando, che per tutto lo scontro non mi aveva tolto gli occhi di dosso. Aveva studiato la mia tecnica. Povero sciocco, pensai. Non bastano pochi minuti per comprendere tremila anni di addestramento alla guerra e al combattimento.
-Durlindana!- gridò il franco scendendo da cavallo ed estraendo la spada. –Testimonia ancora una volta il potere di Cristo!-

-Dovrai ammettere che aveva una profonda fede-, mi fa notare mia nipote riferendosi al paladino franco.
-Fede-, dissi sdegnato. –Invocando Gesù, un uomo indegno come lui, non fece altro che farmi arrabbiare per davvero.-

Gli andai incontro infuriato. Non amavo che si invocasse Cristo per scopi meschini come il suo. Mi attaccò per primo, dall’alto verso basso, con la sua famosa spada. Non cercai di deviare il fendente ma risposi con un altro colpo, con tutta la forza che avevo, facendo scontrare le due lame. Com’era prevedibile, la gloriosa Durlindana fu spezzata in due dalla terribile Uragano. Questo bastò a far desistere il paladino caduto dal suo desiderio di continuare lo scontro. Fissava con occhi vacui il moncone della sua spada e blaterava parole senza senso. Avevo deciso di risparmiarlo ma lui evidentemente non era d’accordo. Tentò di pugnalarmi alle spalle, da vero sicario. Evidentemente non aveva ancora capito con chi aveva a che fare. Con l’ennesima giravolta gli fui alle spalle, con il colpo carico. La sua testa volò in cielo e ricadde parecchi metri lontana dal corpo. I sicari superstiti, alla vista della fine del loro capo, se la squagliarono a gambe levate.
-Un uomo… davvero terribile… protetto da Cristo…- riuscì a dire Leone alzandosi a sedere sul carretto. –Non si era mai visto… un guerriero come te… Callisto.-
-E mai se ne vedranno altri, spero. Essere come me non è una benedizione di Nostro Signore ma una maledizione di qualche divinità in vena di scherzi-, risposi sarcastico mente guardavo alcuni graffi sulla mano che guarivano all’istante.
-Ricordi il motto… di Papa Adriano?- mi chiese d’un tratto.
-“Il confine tra cielo e terra è spesso molto indistinto”-, recitai, ricordando la frase prediletta del vecchio Papa.
-Esatto. Gli strumenti di… Cristo possono essere… davvero inusuali… Riflettici ancora su e… vedrai che il tuo operato non ti sembrerà… più così sbagliato.-
Era un ragionamento degno di Adriano, di un uomo giusto. Leone era conscio che per risolvere certe situazioni bisognava scendere i gradini degli altari e porsi allo stesso livello dei comuni mortali.
Incontrammo i messi di re Carlo poco dopo. Sembrava che qualcosa fosse accaduto a Roma e il sovrano, venuto a sapere che il Papa era fuggito, aveva immaginato che si sarebbe diretto a nord e aveva messo in allerta tutti gli ufficiali del suo esercito perché lo intercettassero.
-Il re Vi aspetta, Santità-, disse l’ufficiale a capo del drappello che ci era venuto incontro. –Vi scorteremo noi alla sua residenza.-
-Grazie, soldato… Mi rimetto nelle mani vostre… e di Dio-, disse Leone disteso sul piano del carretto.
Il viaggio non durò molto perché il re si trovava in una delle residenze più a sud del regno dei Franchi, forse proprio nella speranza di soccorrere il Papa.
-E’ un miracolo che siate riusciti ad arrivare fino a qui- esclamò re Carlo venendoci incontro, mentre ancora varcavamo il cancello d’ingresso della piccola reggia.
-Dio era con noi, Maestà-, gli dissi fermando il cavallo che trainava il carro. Il povero animale avrebbe avuto finalmente il meritato riposo.
Il re mi guardò bene in faccia, poi spalancò gli occhi, riconoscendomi. –Ma tu sei il segretario personale di Sua Santità! E porti una spada!-
-Non sono più un monaco, re Carlo. Più tardi c’è un fatto che vi devo raccontare e che vi riguarda. Ora però pensiamo al nostro amico prelato.-
-Naturalmente-, esclamò il franco riprendendosi. Accorse personalmente ad aiutarmi a tirare giù Leone dal mezzo di fortuna su cui lo avevo fatto viaggiare. Le ferite sanguinavano ancora ma almeno non si erano infettate e la febbre non lo assaliva più da due giorni.
Il re, sinceramente preoccupato, rimase a sorvegliare il ricovero del pontefice fino a quando questi, con bende nuove e pulite, non si addormentò per riposare. Poi venne a cercarmi.
-Ricordo che eravate consigliere anche di Papa Adriano….-, iniziò il re, fermandosi però al mio nome.
-Callisto. Callisto Uruchese, maestà-, risposi utilizzando il mio nuovo nome. –L’ufficiale che ci ha trovati mi ha detto che a Roma è scoppiato uno scandalo. Che è successo?-
-Evidentemente i congiurati dovevano giustificare la fuga del pontefice, quindi hanno messo in giro la voce che il Papa si dedicasse più ai piaceri della carne che non a quelli dell’anima. Ho ricevuto proprio stamattina una lettera che mi invita al pubblico processo che si terrà fra qualche giorno, con o senza pontefice presente.-
-Traditori!- inveii. –Che prove potremmo mai portare per dimostrare l’innocenza di Leone?-
-Vedremo il da farsi quando saremo a Roma.-
-Far ritornare il Papa a Roma?! Mai! Lo uccideranno!-
-Non preoccuparti, Callisto. Sarà ben protetto. E poi ci serve che sia lì per scagionarlo. Un mio studioso mi ha detto che, probabilmente, negli archivi che tu stesso hai catalogato può esserci la soluzione al problema e bisogna consultarli.-
Gli archivi. Iniziai a ripercorrere con la mente ogni istante della loro creazione, riga dopo riga, parola dopo parola, finché non trovai ciò che cercavo. –La Storia del Papato!- esclamai euforico. –Un caso simile si è già verificato in passato e il pontefice ne è uscito pulito!-
-E in che modo?- mi chiese il re guardandomi dritto in viso.
-Essere papi ha i suoi vantaggi. E’ sufficiente che Leone presti solenne giuramento di non aver commesso ciò di cui lo si accusa. Questo farà cadere tutte le accuse e non potrà essere confutato perché il giuramento dovrà essere pronunciato sui Vangeli.-
-Eccellente, e già che siamo li è il caso di fare anche un po’ di pulizia. Tu sai i nomi di tutti i traditori?-
-Naturalmente-, risposi sorridendo. –Siamo stati proprio io e fratello Leone a identificarli su ordine di Papa Adriano. Vi stilerò una lista completa. Ora, però, c’è una cosa che dovete sapere.-

-Gli parlasti di Orlando?-
-Si. Non era mia intenzione distruggere il ricordo che aveva di lui, ma re Carlo doveva conoscere il pensiero che serpeggiava tra alcuni dei suoi uomini più fidati e porvi rimedio. Fu molto addolorato nel venire a conoscenza di ciò che era successo e quando lo lasciai mi sembrò piangesse.-
-Da quello che mi dici meritò in pieno il nome “Magno”-, commenta Cristina lasciandosi accarezzare i piedi dalle onde.
-Lo era davvero.-
-Come andò a Roma? Come fece re Carlo a togliere di mezzo i cospiratori?-
-Seppi che, con varie accuse di tradimento, li fece incarcerare tutti e poi giustiziare alcuni. Non come traditori del Papato ma come traditori del regno dei Franchi, visto che lo Stato della Chiesa aveva delegato a loro l’amministrazione militare e la custodia dell’ordine costituito.-
-Tu non c’eri?-
-No. Dopo che ebbi consegnato il Papa a Calro Magno seppi che era venuto per me il tempo di partire. Il nord mi attraeva nuovamente ma non era la Britannia a chiamarmi. Era una terra vicina ad essa, un’altra isola che mi invocava, con la voce di cento bardi e mi attirava a se avvolgendomi in un vento verde e fresco a cui non potevo resistere.-
-L’Irlanda-, conclude mia nipote, continuando distrattamente a guardarsi i piedi nudi immersi nell’acqua del mare.
-Si. L’Irlanda di Brian Boru.-

lunedì 1 settembre 2008

BENTORNATI!

Eccomi, come promesso, a riprendere a postare i capitoli de "Il Guerriero". Le vacanze sono finite e si torna al lavoro. Spero che il rientro non sia stato troppo traumatico e che abbiate passato dei bei momenti in questa estate all'insegna del risparmio. Oltre al nuovo capitolo, vi do un piccolo antipasto sullo sviluppo del blog. Entro fine anno sarà on line il nuovo sito dove trasferirò tutto il mio lavoro e dove potrete continuare a leggere le avventure di Khalàd... e non solo. La principale novità è che, per continuare a leggere i miei scritti, sarà necessaria una registrazione gratuita. Questo al fine di avere qualche dato in più sull'afflusso di visitatori al mio sito e sul numero di lettori che mi seguono con costanza. E' prematuro fornire altri dettagli ma spero di potervi mostrare presto un'anteprima. Nel frattempo vi auguro buona lettura e vi lascio al nuovo capitolo del mio romanzo.

12 - IL PESO DI UNA SCELTA

Sta calando la sera, tra un’ora la cena sarà pronta ma ritengo di avere ancora un po’ di tempo per proseguire con la mia storia, anche se il mio racconto sta per fare un consistente balzo in avanti. Mentre osservo la linea dell’orizzonte sul mare farsi di fuoco, il mio udito sopraffine coglie il tintinnio delle monete d’oro cinesi di epoca Han che Cristina sta rigirando tra le mani, tra incredulità e rassegnazione. Un ricordino che mi sono portato dietro da quell’epoca. In oriente, in meno di vent’anni, avevo dischiuso porte dentro di me che non pensavo esistessero. Porte del corpo, della mente e dello spirito. Kanoshi, Long Dao e Guan Yu erano stati le chiavi di quei cancelli e avevano liberato energie che faticavo a controllare tutte insieme. Ci sarei riuscito, con il tempo, molto tempo.
-Rimanesti in oriente?- mi chiede mia nipote.
-No, ma sarei tornato altre volte-, rispondo tornando a sedermi. –Le terre d’oriente erano l’unico luogo in cui potevo isolarmi dal mondo, per assimilare nuove capacità e fonderle insieme, portandomi a divenire un guerriero più forte.-
-Il tuo intento era sempre quello di prepararti ad affrontare lo sfregiato?-
-Si, anche quando pensavo che la cosa non mi interessasse più. In tanti secoli ci sono stati momenti in cui non ero più sicuro di nulla, di chi ero, di cosa facevo e del perché calcavo ancora la terra. Momenti in cui mi affidavo ai ricordi felici per estraniarmi dal dolore e dalla violenza.-
-Hai detto che con la morte del Dio della Guerra sentisti l’irrefrenabile sensazione che ti spingeva ad andartene. Lo facesti?-
-Si-, rispondo serio.
-Hai mai tentato di resisterle?-
-Molte volte, ma il disagio diventava così opprimente che per non cadere a terra per le convulsioni mi mettevo in viaggio immediatamente. Appena iniziavo a pensare ad una possibile destinazione la morsa si allentava e via via mi riprendevo.-
-Doveva essere davvero terribile non potere avere nessuna scelta di come vivere la propria vita.-
-Lo era ma in seguito, ripensando al momento esatto in cui ero sospinto ad andarmene da un luogo, mi accorgevo che rimanere non aveva davvero senso, visto che nulla mi legava più a quel preciso momento della mia avventura.-

Verso la metà del III secolo d.c. mi rimisi in viaggio per l’occidente. Avevo molto in testa su cui riflettere e almeno una soluzione ai miei problemi, ovvero il segreto dell’unione del guerriero e della sua arma. Come detto, è un concetto a cui non pensai per molto tempo ma sapere di aver ottenuto quella conoscenza mi dava una certa sicurezza per il futuro, almeno in quell’aspetto.
Non avevo idea di dove andare. Sapevo soltanto che sarei tornato al mondo in cui ero nato. Oltrepassai la catena della grandi montagne, che oggi chiamiamo Himalaya, passando stavolta a sud, attraverso freddi altipiani popolati perlopiù da pastori, per poi ridiscendere in deserti rocciosi, attraversati da vie carovaniere di cui non conoscevo neppure l’esistenza. Da alcuni mercanti seppi che il declino dell’impero romano continuava, un po’ per il marciume che stava crescendo nella corte imperiale e nell’amministrazione, un po’ per le tribù barbariche che si facevano sempre più spavalde ai confini nord-orientali. Già da tempo il territorio controllato da Roma era stato diviso in due domini a se stanti. Uno occidentale, con Roma capitale, e uno orientale dove il centro di comando era la città di origine ellenistica Nicomedia.
–I Cristiani poi diventano sempre di più e sempre più influenti a Roma e…-, iniziò a dirmi un carovaniere piuttosto loquace che avevo incontrato nei deserti dell’Anatolia, non molto lontano da dove un tempo sorgeva Troia.
-Cristiani?!- domandai sorpreso. –I seguaci di Cristo di Palestina? Il falegname crocifisso oltre duecento anni fa?-
-Conosci bene quella storia, vedo. Si, sono proprio loro. Roma ne è piena nonostante le persecuzioni di Diocleziano e degli imperatori che lo hanno preceduto.- Il mercante era ben disposto a condividere informazioni perché gli interessavano quelle che potevo dargli in cambio, a proposito delle terre d’oriente in cui ero vissuto negli ultimi anni. Mi invitò persino a ristorarmi nella sua tenda per parlare con più tranquillità.
-Persecuzioni? E per cosa?- domandai incredulo.
-Si dice fomentino disordini. In realtà tentano soltanto di fare proseliti in ogni modo e hanno dato all’imperatore un buon motivo per distogliere l’attenzione del popolo dai guai dell’impero. Dicono che a Roma, nel Colosseo, se ne faccia una vera mattanza di cristiani. Li mandano nell’arena con bestie feroci o li bruciano vivi legati alla croce che adorano. Nel migliore dei casi li fanno combattere contro i gladiatori, per divertire la folla.-
-Che ignobile crudeltà-, commentai scuotendo la testa.
-Alcuni lo meritano, credimi-, continuò il mercante. –Molti alti funzionari si sono convertiti e convertono a forza i loro sottoposti. Sottraggono attenzione agli affari dell’impero per i loro scopi religiosi. I cristiani stanno contribuendo attivamente allo sfascio di Roma.-

-Ma non è possibile!- esclama Cristina indignata. –Nessuna fonte storica ha mai riportato una cosa simile! Sono stati i barbari a far cadere l’impero e la corruzione che già vi serpeggiava!-
-Non ho detto che furono i cristiani a farlo cadere. Ho detto che contribuirono attivamente distraendo fondi e attenzioni per la loro causa.-
-Non è possibile!- insiste mia nipote in preda ad una sorta di isterismo religioso.
-Cristina. Ho voluto raccontare proprio a te tutta la mia storia perché ritengo tu abbia la necessaria capacità di giudizio per comprenderla. Non farti accecare dalla tua fede, nonostante sia ben riposta, e ragiona sul quadro d’insieme. La Chiesa, Cristiana prima e Cattolica poi, non avrebbe mai potuto svilupparsi e rafforzarsi tanto in fretta senza scorciatoie adottate da uomini in posizioni di comando. Le prove di ciò che dico sono nella sezione più antica degli Archivi Vaticani, accessibile solo al Papa… e a me! Sono stato io a catalogare quei documenti e sono in possesso di un sigillo papale che mi permette di accedervi quando voglio, al pari del Santo Padre.-
-Tu conosci i segreti del Vaticano?!-
-Tutti quanti, ma sono tenuto al silenzio da un giuramento di segretezza. Sono stato diverse volte a Roma negli ultimi anni e ho avuto molti colloqui privati sia con il Papa che con i suoi più stretti collaboratori.-
-Continua la tua storia, nonno. Non voglio sapere altro-, mi intima lei alzando una mano per chiudere l’argomento.

Il mercante diceva il vero a proposito delle persecuzioni. L’impero andava allo sfascio ma l’imperatore imboniva la folla con spettacoli di morte. L’unica mia consolazione era che più venivano calpestati, più diventavano forti, nelle loro idee, nella loro fede in Cristo. Tuttavia l’uomo è una bestia capace di partorire scelleratezze immonde. Mi trovavo a vagare nel cuore della Gallia quando mi imbattei nel più crudele di quei giochi di morte. Il governatore locale aveva arrestato un nutrito gruppo di cristiani, uomini, donne e bambini indistintamente. Aveva separato i piccoli dalle loro famiglie e li aveva mandati da soli a morire nell’arena, assieme ai suoi due leoni personali. Non resistetti. Quando le fiere furono liberate nel piccolo anfiteatro cittadino, scavalcai il parapetto del punto dal quale stavo assistendo alla scena e scesi in campo. Si fece silenzio. Nessuno poteva immaginare che un qualsiasi uomo entrasse nell’arena con quei leoni di propria spontanea volontà.
-Piccoli!- gridai in latino. –Dietro di me!- I venti bambini non se lo fecero ripetere e corsero a raggrupparsi dietro le mie spalle.
Richiamai a me lo spirito del leone e mi preparai ad affrontare quelle due bestie sanguinarie. Uragano era pronta a cantare la sua canzone di morte ancora una volta. Fui fortunato perché i leoni mi attaccarono uno alla volta ed ebbi il tempo di evitarne l’assalto e di calare la mia lama celtica su ognuno di loro, uccidendoli con un solo colpo.
Il governatore si alzò in piedi esterrefatto e colmo di rabbia. –Uomo!- urlò furioso. –Quei leoni erano bestie magnifiche. Mi dovrai risarcire!-
Era assurdo. Si preoccupava dei suoi “cuccioli”. Lo guardai di traverso. –Se non chiudi il becco ti ripagherò con il ferro della mia spada!- gli intimai mentre già mi voltavo per andare dai bambini.
-Insolente! Gladiatori! Fateli a pezzi!- comandò il romano.
Altre porte si aprirono e una decina di uomini armati nei modi più disparati entrarono a calcare la sabbia dell’arena. Gladiatori. Schiavi che combattevano per divertire il popolo. Per riottenere la propria libertà. Alcuni lo facevano per il gusto di uccidere.
Non fecero l’errore dei leoni e mi attaccarono tutti insieme. In confronto a me erano lenti e goffi, intralciati da quelle armature così male assortite e dalle armi che non sapevano sfruttare. Imparai una cosa in quell’arena. Indubbiamente c’erano pochi guerrieri al mondo capaci di starmi alla pari e, grazie alla mia maggiore abilità, potevo neutralizzare quegli uomini senza ucciderli.

-E rispettare la promessa fatta a Gesù, quindi-, commenta Cristina.
-Non era più la promessa a farmi desistere dall’uccidere quegli uomini, ma il significato che essa comportava. La vita va sempre e comunque rispettata, non solo in virtù di una predica. Iniziavo a sentire mia quella visione del mondo e cominciava ad essere naturale per me tenere come ultima possibilità l’uccisione di altri esseri umani.-

Combinando tecniche di spada con calci e pugni, stesi tutti i gladiatori in pochi minuti, rompendo loro molte ossa ma lasciandoli in vita. La folla aveva iniziato ad esultare per quel combattimento imprevisto ma non ci badai. Seguito dai bambini lasciai l’arena per la porta che conduceva ai sotterranei e alle prigioni. Nessuno osò fermarmi, neppure quando con un colpo di Uragano fracassai le serrature della gabbia in cui i cristiani erano rinchiusi. Stavamo per risalire la scala che portava in superficie quando i sotterranei si riempirono di soldati armati. Giunse anche il governatore. Ora che lo vedevo bene aveva un qualcosa di familiare.
-Uomo! Come hai osato ridicolizzarmi davanti alla folla? Pagherai con la vita per questo!- blaterò il romano. Non era molto alto e sembrava addirittura scomparire negli eleganti vestiti troppo grandi per lui. Immaginavo dovesse avere qualche dote particolare per essere stato messo a governare una provincia così importante, doti che non riuscivo a scorgere. In generale, sembrava davvero un uomo insignificante.
-Posso almeno sapere il nome di chi mi accusa?- domandai per prendere tempo. Dovevo valutare il da farsi attentamente. Un mio errore e i cristiani alle mie spalle sarebbero morti tutti.
-Sono Gaio Terzio Sentio, per volere del Divino Cesare, Governatore della Gallia.-
-Sentio?!- esclamai sentendomi la rabbia montare dentro. –Per caso parente del tribuno Aulo Sentio?-
-Era mio cugino. Fu ucciso in Britannia anni orsono. Lo conoscevi? Sembri giovane. Forse eri solo un bambino.-
-Ho conosciuto quel tagliagole e ti assicuro che in fatto a crudeltà non gli sei da meno. L’ho fatto a pezzi con la mia spada come si fa con un porco e se non ritiri i tuoi uomini e mi lasci passare, tu e loro seguirete la stessa sorte. Mi sono spiegato?-
-Tu non puoi essere l’assassino di mio cugino!-
-Spostati!- gli urlai contro furioso.
Per tutta risposta il governatore mi mandò contro due dei suoi uomini. Purtroppo dovevo dare l’esempio e fui costretto ad ucciderli. Lo feci nel modo più rapido e spettacolare di cui fossi capace. Con un unico fendente curvo orizzontale, rapido come una raffica di vento, tagliai ad entrambi la gola, zona non protetta da elmo e corazza, ancora prima che avessero il tempo di sguainare le loro armi. Sentio e gli altri soldati ammutolirono e si ritrassero da me e dal gruppo che proteggevo.

-Ti lasciarono passare?- mi domanda Cristina incredula.
-Certo che lo fecero. Evidentemente i soldati conoscevano l’indole di vigliacco del loro governatore. Quando lo videro arretrare per primo e farsi scudo con i loro corpi… beh, credo abbiano pensato che non valeva morire per lui e per la misera paga di soldato.-
-Non fosti perseguito?-
-No, per niente. Se avesse emesso un ordine di cattura nei miei confronti, Sentio avrebbe anche dovuto spiegare come un uomo solo fosse stato capace di andarsene liberamente dopo aver liberato sotto il suo naso un centinaio di cristiani condannati.-
-Rimanesti in Gallia?-

Vagai molto in tutto ciò che rimaneva dell’impero romano occidentale. Non avevo una meta precisa ma non m’importava molto. Mi fermavo un po’ qua e un po’ la, per giorni, mesi, qualche volta anni. Imparai, soprattutto le lingue di molti popoli, vecchi e nuovi. Gli anni passavano ma per me poco importava. Oramai mi accorgevo poco del tempo che passava, fossero anche secoli. Fui diretto testimone della caduta dell’impero d’occidente, nel 476 d.c., quando il re germanico Odoacre depose l’ultimo imperatore, un ragazzino di nome Romolo Augusto. Dopo decine d’anni sentii la familiare stretta allo stomaco che mi intimava di muovermi. Era diversa però, non mi intimava di abbandonare un luogo, ma di dirigermi verso uno in particolare. Mi sentivo sempre più una marionetta nella mani di un occulto burattinaio. Sentivo che il nord mi chiamava… nuovamente. Uragano vibrava d’impazienza, emetteva uno strano suono, come rispondesse ad un richiamo, e c’era una sola cosa che poteva fare ciò, Excalibur. Dovevo tornare in Britannia.
Mi rimisi lentamente in viaggio, senza fretta, un viaggio verso nord che durò alcuni anni. La sensazione di disagio non era troppo forte, quindi potevo indugiare. Da tempo avevo imparato ad interpretare l’intensità del dolore e capire quanto tempo mi si concedeva per raggiungere una meta o per lasciare un luogo in cui ero vissuto. Fu solo alla fine del V secolo che giunsi sulle coste a nord della Gallia, ora terra del popolo dei Franchi, nella regione chiamata Bretagna. Le navi andavano e venivano dalle grandi isole a ritmo incessante, portando uomini e merci al di qua e al di la del mare. Molte notizie giungevano dall’ormai ex provincia insulare romana. Un grande condottiero britanno di origine romana e dotato di una spada magica, aveva fermato, con la sua cavalleria pesante e pochi locali male armati, i sassoni a Badon Hill, nei pressi del Grande Muro. Per questo motivo era stato nominato Grande Re di tutta la Britannia e quella terra sembrava stesse rinascendo, dopo il caos dovuto all’abbandono di Roma. Il nome celtico del nuovo re era Arthur Pendragon, discendente del primo condottiero ad aver portato i cavalieri dell’est sull’isola, Lucius Artorius Castus. Era il mio uomo.

-Trovasti cambiata quella terra dopo tanti anni?-
-Non particolarmente. In Britannia, come nell’odierna Inghilterra, i cambiamenti sono molto lenti a venire e il tempo sembra scorrere più lento. Forse quello più evidente era che quella terra si stava cristianizzando rapidamente. Nel tempo che vagai per l’Europa senza meta, i cristiani divennero sempre più forti e numerosi. Le persecuzioni finirono e, con l’Editto di Milano, l’imperatore Costantino dichiarò il Cristianesimo religione ufficiale dell’impero.-
-Ti presentasti ad Arthur Pendragon?-
-No. Fu lui a presentarsi a me.-
-Che cosa?!-

Messo piede sul suolo britanno, il mio primo pensiero fu di dirigermi a nord, ma non per andare ad unirmi ad Arthur e ai suoi cavalieri, discendenti dei sarmati giunti dal Mar Nero. Tagliai fuori la fortezza di Dun Camlot, quella che i poeti francesi chiamarono in seguito Camelot, la reggia iniziata da Uther Pendragon e ultimata da suo figlio Arthur. Andai oltre, verso e oltre il Grande Muro, nelle terre dei Calèdoni e degli Scoti, dove un tempo avevo vissuto vegliando un cairn, un tumulo tombale di bianche pietre. Sorprendentemente trovai la casa ancora in piedi. Non solo. Era anche abitata. Il cairn era poco lontano dall’abitazione e il vederlo pulito da qualsiasi gramigna o altra impurità mi sorprese grandemente. Non indugiai lo sguardo su di esso per allentare la stretta al mio cuore. Ci sarebbe stato tempo. Ero curioso di conoscere il nuovo abitante di quella che era stata la mia casa.
Bussai e attesi per qualche istante. Sentii dei passi e poco dopo la porta di legno si dischiuse. Mi aprì un uomo anziano, con i capelli bianchi e radi e la barba lunga e incolta. Portava al collo un medaglione di bronzo con su inciso un simbolo appartenente alla cultura celtica. Il monile gli ricadeva su una tunica bianca fermata in vita da un pezzo di corda. Aveva molto di familiare e capii immediatamente chi doveva essere.
-Cosa posso fare per te straniero?- mi domandò l’uomo alzando un sopracciglio.
-Potresti farmi entrare in casa mia, tanto per cominciare, discendente di Taliesin-, gli dissi sorridendo.
-Come fai a sapere….- esclamò l’anziano druido, colmo di meraviglia, scostandosi dall’ingresso.
Riconobbi subito l’interno della casa che, con l’aiuto di Kevin il bardo, avevo costruito pietra su pietra. –Qual è il tuo nome, venerabile druido?- gli domandai per tentare di riportarlo alla realtà.
-Il mio nome è lo stesso del mio antenato, Taliesin. Molti però mi chiamano Merlin. Hai detto che questa è casa tua. Io ci vivo da quando sono nato e anche il druido mio maestro e padre…-
-Lo so, Merlin. Questa casa però apparteneva alla mia famiglia in origine. Un mio antenato la costruì con l’aiuto del grande bardo Kevin, per stare vicino alla donna che aveva immensamente amato.-
-Tu sei il Custode della Spada!- esclamò il druido meravigliato. Aveva chiuso la porta e mi aveva invitato ad accomodarmi.
-Il che cosa?- gli chiesi senza capire.
-L’allievo del grande bardo cantò una canzone prima di morire. Parlava di colui che custodiva la Spada del Potere e che l’aveva affidata ad un grande condottiero. Egli porta una spada sorella ed esse cantano quando sono vicine. Il Custode ricomparirà il giorno in cui Excalibur dovrà essere resa.-
-Non immaginavo di essere così famoso-, ironizzai, ma in realtà mi ero liberato di un peso. Avevo appena appreso qual era lo scopo del mio ritorno in Britannia. Merlin si era fatto triste.
-Che ti succede, Merlin? Qualcosa non va?-
-Il tuo ritorno significa sconfitta. A breve, Re Arthur e i suoi cavalieri affronteranno gli eserciti dei Sassoni e degli Angli, senza contare il traditore Mordred e i suoi rinnegati. Se tu sei qui, significa che lui sarà sconfitto.-
Il silenzio era rotto solo dal crepitio del fuoco. Fuori calava la sera e faceva freddo. –Se io sono qui, allora Re Arthur probabilmente morirà-, sentenziai. –Tuttavia il mio destino era proprio quello di trovarmi in questo luogo e in quest’ora. Arthur morirà, Merlin, ma questo non significa che sarà sconfitto.-
-La sua morte sarà la sconfitta. Senza il Grande Re, la Britannia ripiomberà nelle tenebre.-
-O ne rinascerà più forte, con una nuova coscienza. Ci sono molti modi di riportare la vittoria e, spesso, perdere una battaglia può portare a vincere la guerra.-
-Spero che le tue parole siano vere…-
-Khalàd. Anche io porto il nome del mio antenato-, mentii. –Ora ti chiedo di perdonarmi ma c’è una cosa che devo fare-, gli dissi alzandomi. –Non preoccuparti per la casa, Merlin. E’ tua, come lo fu di tuo padre. Ti chiedo solo ospitalità per il tempo che resterò qui.-
Uscii nuovamente all’aperto e mi diressi verso il luogo del dolore. Il cairn di Caysia sembrava ardere alla tenue luce del tramonto. I druidi lo avevano mantenuto perfettamente pulito e fiori colorati erano stati piantati attorno ad esso, come se dimorasse su un cuscino di bellezza.
-I druidi lo considerano sacro. Vi è sepolta una potente veggente che un tempo ha amato il tuo antenato-, disse Merlin che evidentemente mi aveva seguito.
-Lo so-, risposi piano con le lacrime che mi rigavano il viso. –Un amore che non morirà mai.-

-Non ti eri ancora rassegnato?- mi chiede mia nipote piuttosto insensibilmente.
-Non mi sono mai rassegnato alla perdita di nessuna delle incarnazioni di tua nonna, Cristina. Ognuna di esse si è portata via un brandello del mio cuore.-
-Cosa facesti allora? Raggiungesti Arthur sul campo di battaglia per aiutarlo o…-
-Calcai la terra di Camlann, è vero, ma solo dopo che la battaglia fu conclusa, e questo mi cambiò immensamente.-

Erano passati due giorni da quando ero giunto da Merlin e il mattino del terzo giorno, mentre facevamo colazione, udimmo un fragore di tuoni venire da sud.
-Cavalieri-, affermò serio il druido. –Il mio antico allievo Arthur viene a chiedermi consiglio per l’imminente battaglia.-
-So che è lui-, gli dissi. –La mia spada inizia a vibrare, segno che un’altra Spada Celeste si sta avvicinando.-
Uscimmo al sole del mattino e attendemmo di fronte alla casa l’arrivo del Grande Re di Britannia e del suo seguito. Comparvero all’improvviso, da dietro una collina, una decina di cavalieri in tutto ma che avrebbero potuto sbaragliare un’intera legione romana, tanto era possente il loro galoppo. Le armature lucenti ricoprivano tutto il loro corpo e pesanti armi dall’aria micidiale erano appese alle loro selle. Si fermarono proprio di fronte a noi. Riconobbi subito il re perché il suo elmo era quello su cui spiccava una corona dorata.
-Benvenuto alla mia casa, Arthur-, lo salutò Merlin seriamente.
Il re e i suoi cavalieri si tolsero tutti l’elmo e scesero da cavallo. –E’ sempre un piacere rivederti, mio vecchio maestro e amico-, rispose giovialmente un uomo alto e forte, con capelli lunghi e rossicci e un accenno di barba sul mento. La pelle del suo volto era però pallida e gli occhi incavati, la cui scintilla vitale si stava spegnendo. –Anche in un momento tanto buio.-
-Finché tu cavalchi con i tuoi nobili cavalieri il buio non potrà prevalere-, gli disse il vecchio druido abbracciandolo.
D’un tratto, Arthur si accorse che la sua spada nel fodero vibrava in modo insolito e i suoi occhi si puntarono su di me. –Posso conoscere il nome del tuo ospite, Merlin?-
-Lui è…-
-Mi presento da solo, amico mio-, anticipai il druido per evitargli inutili imbarazzi. –Io sono il discendente di colui che affidò la tua spada al tuo antenato, Lucius Artorius Castus. Mi chiamo Khalàd, re Arthur.-
-Il Custode della Spada?!- esclamò Arthur sorpreso, poi il suo volto si distese. –Se credo nelle leggende, allora il tuo arrivo è assolutamente logico.-
-Già lo dissi a Merlin, re Arthur. Non confondere la mia venuta con la certezza della tua sconfitta. Esistono molti modi di vincere sul campo di battaglia.-
-Parliamo d’altro, amici-, intervenne Merlin. –Tu e i tuoi cavalieri sarete stanchi ed affamati, Arthur. Khalàd, potresti aiutarmi a portare fuori un tavolo in modo da poter offrire ai nostri amici in armatura un po’ di ristoro?-
-Naturalmente, amico mio-, risposi senza staccare gli occhi dal re.

-Tu getti nuova luce sulla figura di re Arthur. Non solo dici che è esistito, ma avrebbe perso la battaglia di Camlann perché malato!-
-Si, era malato, ma non ho mica detto che sia stato sconfitto-, preciso a mia nipote. –Arthur morì effettivamente a Camlann, ma sconfisse le orde dei Sassoni e uccise anche il traditore Mordred.-
-Una “vittoria di Pirro”. I Sassoni e gli Angli conquistarono comunque la Britannia-, mi fa notare Cristina.
-Vero. Ma ciò che l’allievo di Merlin aveva costruito nella sua vita non andò perduto. Gli invasori fecero proprio il modo di governare di re Arthur, per quanto possibile, e su di esso costruirono le basi del futuro regno d’Inghilterra, un regno anglo-sassone. Se così non fosse stato, si sarebbero limitati a razziare l’isola e a tornarsene da dove erano venuti.-

Dopo aver imbandito la tavola per Arthur e i suoi cavalieri, io e Merlin ci sedemmo a terra assieme al sovrano, per discutere degli avvenimenti imminenti, oltre che di quelli passati. Il traditore Mordred si era unito ai Sassoni e l’unico luogo adatto a dare loro battaglia sarebbe stato la piana di Camlann. C’erano pochi progetti da fare. I sassoni erano in superiorità numerica e Arthur aveva dalla sua solo la maggior organizzazione della sua cavalleria pesante. Non immaginava quanto sarebbe stata determinante nella sconfitta degli invasori. Poco prima di mezzogiorno il re, ottenuta la benedizione di Merlin, si apprestò a ripartire.
-Posso parlarti in privato, re Arthur?- gli chiesi.
-Credo anch’io sia il caso di farlo, Khalàd-, mi rispose lui annuendo.
Ci dirigemmo verso il tumulo di Caysia, lontani da tutti. Ogni volta che mi avvicinavo al cairn venivo invaso da una profonda tristezza. Arthur, vedendomi poggiarvi sopra la mano con tanta delicatezza, non poté non notarlo.
-Tu non sei il discendente del Custode, non è vero?- mi disse il re. –Tu sei l’unico Custode della Spada, colui che diede Excalibur ad Artorius Castus. Tu sei l’uomo che amava e che era amato dalla donna che riposa qui sotto.-
Annuii senza sorprendermi più di tanto. –Come lo hai capito?-
-Un uomo che sta morendo percepisce più chiaramente il potere innaturale che lo circonda. Tu ne sei una grande fonte.-
-E’ così grave la tua malattia?- domandai fissandolo negli occhi.
-Mi resta poco da vivere, ma quel poco lo vivrò in modo magnifico.-
-Ora che sai ciò che ti attende a Camlann, non vuoi lasciare ad altri il compito e vivere in pace quel poco di tempo che ti resta?- lo provocai.
-A quale scopo? Per vedere la mia terra schiava dei Sassoni senza far nulla?- rispose Arthur fieramente. –Ho sacrificato tutto per la Britannia e se dovrò darle la mia vita per mantenerla libera, lo farò. Ne va del mio onore di re, di cavaliere e di guerriero. Quando un guerriero non ha più un corpo che lo sostenga, che gli rimane se non l’onore?-
Estrassi Uragano e la levai in aria. –Altri hanno pronunciato la parola “onore” calpestandone il significato, ma tu non sei tra questi. Le tue parole sono degne di un Grande Re, Arthur di Britannia. Estrai Excalibur e falla cantare assieme alla mia Uragano, per un’ultima volta.

-Gli rivelasti il nome della tua spada?! Perché?!- mi chiede Cristina sorpresa.
-Un uomo che muore porta con se molti segreti. Ho voluto rendergli questo omaggio perché in poche ore si era conquistato tutto il mio rispetto.-

Arthur non se lo fece ripetere due volte. Sguainò la prima spada creata dal fabbro Calhorn e la levò accanto alla mia, facendo toccare le due lame. Un possente canto di spade si levò nell’aria, un feroce avvertimento per i loro nemici. Le Spade Celesti erano vive e letali più che mai. Seppi in seguito che quel mattino, nel campo sassone, Mordred, il cavaliere traditore, era stato preso da un furioso attacco di panico. Excalibur gli aveva recapitato la sua sentenza di morte.

-Quando recuperati Excalibur?-
-Tre giorni più tardi. Avevo osservato la battaglia assieme a Merlin dall’alto di una collina. I sassoni erano più numerosi ma non poterono resistere alle cariche dei cavalieri che li falciarono come steli di grano. Solo Mordred e i suoi rinnegati offrirono una degna resistenza ma alla fine caddero anche loro, sotto i colpi di Lancelout, di Gowain, di Galahad, di Tristan e degli altri eroi che affiancarono Arthur in quella sua ultima cavalcata. L’ultimo scontro fu proprio tra il re morente e il traditore. La lancia di Mordred trafisse Arthur in pieno petto ma il Grande Re, incurante della sofferenza, calò Excalibur sul suo avversario, tagliandolo in due pezzi come tanto tempo prima io stesso avevo fatto con il crudele Aulo Sentio, l’assassino della mia Caysia.
Al calar del sole, mentre Merlin rimaneva chiuso nel suo dolore, attraversai il campo di battaglia dominato da Madama Morte e mi avvicinai ad Arthur, vegliato dai cavalieri superstiti, che stava per esalare il suo ultimo respiro.
-Ti… aspettavo… Khalàd… Ti rendo…. Excalibur…-, mi disse il re con il respiro affannoso.
-Non è mai stata mia. La tua famiglia ne ha conquistato il possesso con il sangue versato per la Britannia. La custodirò finché qualcuno non sarà degno di impugnarla nuovamente, come hanno fatto in tanti anni le famiglie dei Castus e dei Pendragon.- Presi la spada e, recitando una silenziosa preghiera a Cristo, lasciai il Grande Re Arthur abbandonare questo mondo per entrare nella leggenda. Non trovai più nessuno degno quanto lui di impugnare nuovamente Excalibur.

-Hai detto che qualcosa ti cambiò profondamente-, mi fa notare mia nipote.
-Si-, confermo serio. –Per un lungo periodo pensai di aver trovato la pace che cercavo, lontano da guerre e dal mio destino che non ammetteva scelte.-
-Cosa intendi dire?-
-Divenni monaco.-

Mentre camminavo sul campo di battaglia di Camlann, il sole rosso del tramonto colorava di cremisi ciò che non lo era già dal sangue. Guardando quei corpi mutilati, i loro volti contratti in smorfie di dolore, le articolazioni torte in modo innaturale, iniziai a pensare al motivo di quella guerra. Non ne trovavo uno che fosse plausibile. Le ricchezze che la Britannia poteva offrire non erano tali da giustificare tanta violenza da parte dei Sassoni, eppure erano venuti e avevano ucciso e distrutto. Per cosa? Per un po’ di selvaggina? Per qualche sacco di cereali? Per del bestiame? La vita umana valeva davvero così poco? Non volevo crederlo e più ci pensavo, meno sentivo il canto delle spade che portavo addosso, sostituito dal ricordo delle parole che Gesù mi disse prima che lo lasciassi, a Gerusalemme. “Le più grandi ricchezze del mondo non valgono tutte insieme la vita di un solo uomo, sia esso giovane o vecchio”.
Finalmente abbandonai il campo di battaglia e mi inoltrai nelle colline. Non tornai da Merlin. In verità non lo salutai nemmeno. Volevo solo liberarmi di Excalibur, e magari anche di Uragano. Una strana repulsione mi aveva conquistato, per tutto ciò che la mia spada rappresentava. Quella notte nascosi la spada di re Arthur al mondo, per sempre, e mi diressi verso sud. Ero stato davvero tentato di abbandonare anche la mia spada celtica ma all’ultimo istante mi sono reso conto di ciò che stavo facendo. Uragano racchiudeva in se il mio passato, il mio presente e il mio futuro.
Vagai per il sud della Britannia come un fantasma, dormendo all’aperto, al freddo e sotto la pioggia, mangiando ciò che la terra offriva. Come detto, il mio corpo immortale smaltiva alle svelte le malattie ma non ne era immune. Non ci volle molto perché cadessi preda di una violenta febbre che mi lasciò svenuto sul sentiero che stavo percorrendo. Quando mi svegliai ero al riparo sotto un tetto e tutto intorno a me aleggiava il puzzo della lana bagnata. Ero in un ovile. Accanto a me vidi un uomo vestito di una tunica marrone tutta lacera e sporca. Appesa al collo aveva una piccola croce di legno e portava i capelli tagliati alla maniera dei monaci, una nuova tipologia di fedeli cristiani che si stava diffondendo rapidamente in tutta l’Europa. Era magro ed esile e mi riuscì subito difficile credere che mi avesse trascinato fin li da solo.
-Ti sei ripreso in fretta-, mi disse in un latino stentato e dal forte accento. Non era britanno. –Quando ti ho trovato eri più morto che vivo.-
-Ci vuole ben altro che la febbre per uccidermi-, gli dissi ironicamente. Ero completamente senza forze. –Ti ringrazio per avermi raccolto. Il mio nome è Khalàd di Uruk.-
-Un luogo che non ho mai sentito. Immagino si trovi al di la del grande mare del sud a giudicare dal colore della tua pelle. Io sono Antino da Grelòn, un piccolo villaggio della Bretagna, dove assieme ad altri fratelli stiamo fondando un piccolo monastero.-
-Professate la parola di Cristo a quanto vedo.-
-Lui è il nostro Salvatore. Qualcuno ti ha già parlato di Lui?- mi domandò.
-So molto su Gesù di Nazareth-, ammisi. –Sei lontano da casa, Antino. Cosa ci fai in Britannia?-
-Purtroppo la parola non basta a diffondere e tramandare gli insegnamenti di Nostro Signore, e ne io ne i miei fratelli sappiamo leggere e scrivere. Avevamo sentito dire che in questa terra si trovano ancora uomini di conoscenza di formazione romana. Mi sono accollato il compito di trovarne qualcuno e invitarlo a trasferirsi nel nostro monastero, per insegnare e per dare vita ad una tradizione scritta della nostra piccola comunità.-

-Capitasti proprio al momento giusto-, mi fa notare Cristina. –Non è che qualcuno dall’alto abbia organizzato quell’incontro?-
-E’ probabile-, ammisi sorridendo. –Evidentemente neppure Gesù amava lasciare troppe cose al caso.-
-Ti offristi di aiutare Antino?-
-Naturalmente. Era un’occasione unica per tornare a dedicarmi alla cultura e lasciarmi la guerra alle spalle. Dopo aver allestito la Grande Biblioteca di Alessandria mi ero convinto che quella fosse la mia vera vocazione, non la battaglia per la quale sembrava fossi stato forgiato, esattamente come la mia spada.-
-Diciamo che riuscivi bene in entrambe le cose-, sentenzia lei con un’alzata di spalle.
-Purtroppo si.-

-Sono io l’uomo che cerchi, Antino-, dissi al mio soccorritore levandomi a sedere. –Parlo e scrivo in molte lingue e di molte terre, non solo in latino. Se me lo permetti, vorrei ringraziarti per avermi soccorso dando buon fine alla tua ricerca.-
-E’ il Signore che ci ha fatto incontrare, Khalàd. Non sai quanto le tue parole mi rendano felice. Partiremo appena starai meglio. Questo clima così umido non fa troppo bene neppure a me.-
Iniziò in questo modo un periodo di forte introspezione del mio intero essere. Volevo abbandonare la vita del combattente per dedicarmi solamente allo studio, come già avevo fatto in Egitto. Dentro di me sapevo che si trattava solo di un sogno, di un’utopia. Le forze del cielo che controllavano il mio destino non mi avrebbero mai permesso di deviare per troppo tempo dalla via che avevano scelto per me. Volevo pensare però di poterlo fare, di dimenticare la mia spada, le battaglie, anche lo sfregiato. Mentre camminavo al fianco di Antino e rimuginavo su tutto ciò, mi tornavano continuamente in mente le parole di Kevin il bardo. “Devi decidere cosa sei, Khalàd. O sei un guerriero o non lo sei. Non puoi stare nel mezzo”. Parole sagge e un giusto dilemma che però mi rifiutavo continuamente di risolvere.
Giungemmo a Grelòn, in Bretagna, dopo un paio di settimane di viaggio. Dopo la caduta dell’impero, quella terra era caduta sotto il dominio dei Franchi, un popolo culturalmente più evoluto degli atri gruppi barbarici che erano arrivati dall’est per demolire ciò che restava di Roma. Avevano una struttura sociale più articolata di altri popoli e si stavano cristianizzando in fretta. Sotto il loro dominio, i monasteri e le altre istituzioni cristiane fiorirono in tutta l’odierna Francia e in seguito anche nel nord delle terre germaniche.
Grelòn era un piccolo villaggio di contadini, dove Antino aveva invitato altri suoi fratelli per aiutare la popolazione in difficoltà. Alcuni di loro possedevano delle conoscenze di erboristeria e medicina naturale che alleviarono le sofferenze dei poveri contadini, sempre soggetti ad ogni sorta di malanno. Col tempo sentirono il bisogno di avere una loro casa, un punto di riferimento, ed iniziarono a costruire da soli una piccola chiesa, un luogo dove i fedeli di Cristo potessero pregare il loro Salvatore. Quando io giunsi in quel villaggio, i monaci confratelli di Andino, una decina in tutto, avevano iniziato la costruzione di una vera e propria casa, attigua alla chiesa. Non ero mai stato un gran costruttore ma mi accorsi subito che, con la povertà dei materiali che avevano a disposizione, le strutture avrebbero ceduto molto presto.
Fui presentato agli altri monaci e tutti furono lieti del fatto che avevo accolto il loro invito ad aiutarli. Non persi tempo e mi misi subito al lavoro, proprio per cercare di dimenticare il prima possibile la mia vita di guerriero.

-Fu allora che ti facesti monaco?- mi chiede Cristina un po’ dubbiosa sulla cosa.
-No. Solo alcuni anni più tardi, quando il piccolo monastero fu completato e il vescovo inviato da Roma venne a benedirlo-, rispondo perso nei ricordi. Un periodo della mia vita che posso tuttora definire felice anche se per ciò che “non ho fatto” talvolta mi torco le mani per il rimorso.
-La Chiesa era già così potente all’inizio del VI secolo?-
-Lo era eccome. Un vero principato ma, come ti ho detto, era più un’organizzazione politica che religiosa.-

Ero stato ingaggiato come uomo di cultura ma fu subito chiaro che prima di mettermi a scrivere dovevo costruirmi uno scrittoio e, soprattutto, un posto dove alloggiarlo. Rispolverando le mie nozioni di architettura, spiegai ai monaci cosa dovevamo fare e perché. Abbattemmo alcuni elementi in pietra che avevano costruito e rinforzammo i muri e le colonne portanti dei due edifici con legno essiccato e ferro recuperato in vari modi. Rese le strutture solide, ricostruimmo i muri e posammo lo scheletro per i tetti. Anche i contadini del villaggio ci aiutarono e, ben presto, la chiesa e la casa furono abitabili. Fu davvero un giorno felice quello in cui il monaco più anziano, Fratello Martèn, poté celebrare la prima messa nella piccola e rudimentale chiesa. Tutto il villaggio era presente e in quella semplicità sentii dopo secoli il vero spirito d’amore che Gesù predicava in vita. Non avrei mai più abbandonato quel luogo di pace, qualsiasi cosa fosse accaduta.
Negli anni a venire divisi il mio tempo tra l’alfabetizzazione dei monaci e degli abitanti di Grelòn e la costruzione di altri edifici attigui ai due principali. Fu così che il futuro monastero fu dotato di un forno per cuocere il pane, di una stalla, di una foresteria per dare riparo ai pellegrini e di altre strutture minori.
-Girano molti briganti di questi tempi, Khalàd-, mi disse un giorno Fratello Martèn. –Tu sei un guerriero…-
-Io ero un guerriero, Fratello Martèn. Ora sono solo un uomo di conoscenza che cerca la pace. Sto valutando seriamente l’idea di prendere il saio ed entrare nella vostra confraternita.-
-Nulla ci farebbe più felici, Khalàd. Ancora non capisco come tu non sembri invecchiare neppure di un giorno.-
-Tu credi nei miracoli, Fratello Martèn?- gli domandai.
-Non crederei in Cristo se non credessi nei miracoli.-
-Allora consideralo un miracolo. Per volontà del cielo io invecchio molto più lentamente delle altre persone. Non chiedere la mia età, non potresti capire.-
-Come desideri, amico mio-, rispose il monaco. –Non ho motivo di dubitare delle tue parole. Tuttavia il problema rimane. Girano molti briganti per le nostre campagne e, seppure sia poco ciò che abbiamo, quel poco potrebbe attirarli.-
-Hai ragione-, concordai guardando gli edifici del piccolo monastero. –Servirebbero….- Mi venne in mente Troia. –Delle mura! Costruiremo un alto muro tutto intorno al monastero!-
-Potrebbe essere la soluzione ideale. So che altre comunità di monaci lo hanno fatto.-
-Ci vorrà del tempo ma ce la faremo.-
-E quando il muro sarà ultimato, se lo vorrai, celebreremo la tua ordinazione a monaco alla presenza del vescovo di Roma.-
-Il vescovo?!- chiesi stupefatto.
-Si. Ogni comunità monastica, prima o poi, deve essere riconosciuta dalla Chiesa di Roma e il monastero benedetto da un suo alto rappresentante.-
-Se questo è il volere di Cristo, allora così sia-, affermai sempre più convinto della mia decisione.
La costruzione del muro richiese quasi tre anni, viste le nostre poche risorse, ma un bel giorno d’estate l’ultima pietra fu posata e io venni ordinato monaco. Da Roma arrivò, con gli sfarzi di un principe, il vescovo Sistiano. Un uomo insignificante che si limitò a benedire la nostra nuova casa e a dire due parole ai monaci e ai contadini. C’era un netto contrasto tra la Chiesa di Roma, potente ed opulenta, e la semplice fede professata dai miei nuovi amici con il saio, molto più vicina al vero pensiero di Gesù. Ero l’unico al mondo ancora in vita che avrebbe potuto confermare ciò ma me ne guardai bene dal farlo. Finché gli ecclesiastici non predicavano odio, guerra e intolleranza, potevano pensare ciò che volevano del mio antico amico, tanto ero sicuro che a lui non importasse molto.
Presi i voti richiesti dall’ordine dei monaci a cui Antino e Martèn appartenevano e divenni Fratello Khalàd, anche se presto iniziarono a chiamarmi “Fratello Nero” o “Monaco Nero”, per via del colore della mia pelle. Inizialmente il mio compito all’interno della comunità fu quello di insegnare a leggere e a scrivere a tutti coloro che lo desideravano. Le mie enormi conoscenze e capacità, tuttavia, risultavano utili in molti modi e in molti compiti. Mi venne così in mente di redarre dei manuali contenenti il grande sapere che avevo accumulato in tanti secoli. Fu un lavoro lungo e faticoso che mi occupò per molti anni. Attorno a me la gente nasceva e moriva ma io non me ne curavo. Non ci si abitua mai a veder morire gli amici ma io avevo sviluppato una sorta di indifferenza. Avevo imparato a dirmi che ciò faceva parte del naturale corso della vita. Di quello “naturale”, appunto. Io ero un caso a parte.
Passarono così quasi centocinquant’anni, in cui mi dedicai a trascrivere il mio sapere e a raccogliere quello di altri, creando una piccola ma preziosa biblioteca all’interno del monastero. Il rudimentale insediamento monastico era stato con il tempo ampliato e rinforzato. I timori che un tempo Fratello Martèl aveva espresso a riguardo dei briganti si erano rivelati fondati. Eravamo spesso stati attaccati da bande di predoni in cerca di facili bottini, ma alcune mie astuzie di guerra avevano evitato spargimenti di sangue e avevano preservato quel poco che avevamo.

-Astuzie di guerra? Ma non avevi abbandonato la vita del guerriero?-
-Certo, ma un guerriero, per fortuna, non sa solo spargere sangue. Sa anche proteggere ciò che gli sta a cuore e, in quegli anni, il monastero e gli abitanti di Grelòn mi stavano davvero a cuore.-
-Cosa facesti?-

Oltre a rinforzare le mura del monastero, con l’aiuto della gente del villaggio avevo realizzato all’interno di esso alcune stanze segrete dove nascondere le nostre provviste e noi stessi. Ogni volta che i banditi venivano avvistati in zona, ci ritiravamo tutti in quelle stanze lasciando il villaggio e il monastero deserti, in modo che pensassero che fossero stati già razziati.
-Perché non vuoi accettare la carica di abate, Fratello Khalàd?- mi disse un giorno uno dei confratelli anziani, un uomo che avevo visto nascere e crescere in seno alla chiesa. –Tu più di tutti la meriteresti. Sei un miracolo vivente di Cristo e potresti garantire una lunga e stabile guida per questa comunità.-
-Come già dissi ad altri che mi fecero questa proposta, non è destino che io sia il vostro abate. Sento che non sono la persona giusta per ricoprire quella carica, a differenza di te, amico mio.-
-Continuerai dunque ad occuparti della biblioteca?-
-No. I fratelli che mi affiancano finora possono farlo al mio posto. In tanti anni ho raccolto e sperimentato molti rimedi naturali e molte cure che possono alleviare le sofferenze degli abitanti di Grelòn e dei villaggi vicini. Mi dedicherò alla medicina. Nostro Signore soltanto sa quanto ce ne sia bisogno.-
-Sentendo le tue parole, mi convinco sempre di più che tu sei un dono del cielo per questa terra, Fratello Khalàd.-

-Che ne avevi fatto di Uragano?- mi domanda Cristina dopo aver armeggiato un po’ con il registratore digitale.
-La tenevo avvolta in un panno oleato in una cassa sotto al mio letto, nella mia cella. Per tutto il tempo in cui sono stato a Grelòn non l’ho mai toccata.-
-Davvero ti piaceva quella vita?-
-La adoravo. Svegliarsi all’alba e pregare Cristo per poi mettersi al lavoro per tutto il girono, senza pensieri di guerra o di politica. Andare a letto la sera stanco ma felice perché consapevole di aver reso il mondo migliore, nel mio piccolo. Che altro potevo desiderare di più?-
-Una donna forse?- ipotizza lei maliziosamente. La mia occhiataccia le intima di sorvolare.

Passai quasi due secoli a coltivare erbe medicinali, a farne infusi e pozioni e a viaggiare per le campagne della Bretagna a curare i contadini e le loro famiglie. Talvolta anche i ricchi possidenti mi mandavano a chiamare e io accorrevo anche al loro capezzale perché Gesù mi aveva insegnato che nella sofferenza tutti gli uomini sono uguali. Anche se non era nostra usanza, da questi signorotti mi facevo pagare e versavo il guadagno alla cassa del monastero per acquistare beni di prima necessità per noi e per i più poveri. Il mio stratagemma delle stanze nascoste continuava a funzionare alla perfezione contro i briganti. Subimmo in quegli anni numerosi assalti ma riuscimmo sempre ad avvistarli in tempo… tranne una volta.
Correva l’anno del Signore 772 d.c. ed era una bellissima giornata di fine estate. Il regno dei Franchi era governato da Pipino il Breve che, anziano, presto avrebbe lasciato il potere ad uno dei suoi figli. Erano Carlomanno, il più giovane, e Carlo, il maggiore, anche se quest’ultimo non rientrava molto nelle grazie del padre a causa della sua vita troppo spensierata.
Avvistammo la compagnia di briganti in armi troppo tardi. Non si sa come ma nessuno li aveva visti arrivare e nessuno aveva dato l’allarme. Ci affrettammo ad aprire le porte del monastero per fare entrare i contadini e le loro famiglie che stavano correndo verso di noi per mettersi al riparo. Stavamo per richiuderle quando il primo gruppo dei briganti comparve sulla strada.
-Chiudiamo le porte, fratelli!- gridai agli altri monaci. –Le mura sono solide! Non entreranno!-
Con tutta la forza che avevamo chiudemmo in fretta le grandi porte di legno e, mentre le puntellavamo con i nostri corpi, alcuni giovani monaci armeggiavano con la pesante trave che serviva per bloccarle. –Fate in fretta!- intimai ai ragazzi. Ci stavano mettendo troppo tempo e oramai sentivamo gli zoccoli dei cavalli dei briganti dall’altra parte delle ante di legno. Zoccoli che si abbatterono sulle porte prima che fossero sbarrate. Venimmo sbalzati via e i predoni entrarono. Erano oltre una trentina ed erano tutti armati di spade, lance e archi. Iniziò un fuggi fuggi generale e il mio primo pensiero fu quello di mettere in salvo più persone possibile. Agguantai alcuni bambini che correvano soli per il cortile del monastero, in mezzo alla confusione generale, e li trascinai verso l’abitazione dei monaci. Tutt’intorno si levavano grida di battaglia e di dolore. Iniziai a vedere schizzi di sangue volare in aria e gente che cadeva. Scavalcai di corsa il corpo dell’abate, morto a causa di una terribile ferita alla gola. Trascinai i tre bambini nello stretto corridoio del dormitorio e li feci entrare nella mia cella.
-Restate qui e non muovetevi-, intimai loro. –Io tornerò presto con altre persone. Mentre uscivo, con la coda dell’occhio vidi la cassa di legno impolverata in cui era custodita la mia spada celtica. Non mi passò neppure per la mente di prenderla e mi precipitai nuovamente fuori.
I briganti avevano incendiato il fienile e le tettoie di legno del cortile e il fumo nero si alzava a coprire il sole. Il terreno era disseminato di cadaveri. Uomini, donne e bambini erano stati massacrati indistintamente ma la carneficina non era ancora finita. Alcuni giovani contadini stavano cercando di resistere come potevano per difendere le loro famiglie. In un angolo, nascosta dietro un barile, trovai una bambina di neppure cinque anni che tremava di paura. Era tutta sporca e aveva un graffio sulla fronte che però non sanguinava più.
-Vieni con me, piccola-, le dissi. –Ti porto in salvo.-
Non potei mantenere la promessa perché uno degli assalitori mi trafisse con la sua spada alle spalle, uccidendo la bambina. Caddi a terra in lacrime, straziato dal dolore per quella piccola vita che era stata così brutalmente spenta. Il dolore fisico del mio corpo neppure lo sentivo. Il brigante estrasse con un solo colpo la spada dalla mia schiena, strappandomi un sussulto. Guardai in volto la piccola. I suoi occhi erano già spenti. Strinsi quel piccolo corpicino con tutta la forza che avevo, come se potessi donarle un po’ della mia infinita vita. Singhiozzavo come un bambino e non mi accorgevo che i predoni iniziavano a ritirarsi. Avevano caricato sui loro cavalli tutti i sacchi di granaglie che avevamo nel magazzino e stavano portando fuori dal recinto i nostri pochi animali. Non passò molto tempo che nell’aria l’unico rumore rimasto fosse il crepitio del fuoco che divorava ciò che non era di pietra. Mi alzai a fatica. La mia ferita, naturalmente, era già guarita. Corsi a fatica, con il respiro affannoso, verso le celle del dormitorio. Il fumo nero e oleoso mi riempiva i polmoni e mi faceva tossire in continuazione, ma questo non bastava a fermarmi. Le porte delle celle erano tutte aperte, segno che erano state rovistate. Mi prese una morsa al cuore. Tutto era silenzio e una tremenda paura mi fece accelerare l’andatura. Giunto alla mia cella, lo spettacolo che mi si parò davanti era raccapricciante. I bambini erano tutti morti, colpiti dalle spade dei briganti. Uno degli assalitori era ancora nella cella, morto, con Uragano piantata nel petto. Il bambino più grande, probabilmente prima di morire, era riuscito a prendere la spada e ad usarla per difendersi. Non era bastato per salvargli la vita ma fu sufficiente per tormentare la mia anima fin nel profondo.
L’urlo di disperazione che lanciai fu sicuramente udibile in tutto il circondario, tanto ero frustrato. Un quesito mi tormentava. Se avessi impugnato la mia spada celtica ancora un volta, avrei potuto evitare tutto ciò? Avevo scelto di non essere più un guerriero e di seguire la via di Cristo e preservare la vita. Non lo avrei forse fatto meglio combattendo come sapevo fare?
Rimasi li a fissare quei piccoli cadaveri come fossi morto anch’io. Credetti di avere delle allucinazioni perché mi sembrò di sentire nell’aria il suono di un’arpa. Era sicuramente lo spirito di Kevin il bardo, che mi ricordava in modo crudele la scelta che ancora mi rifiutavo di fare.

-Ma tu avevi scelto. Avevi scelto di non essere più un guerriero-, mi fa notare Cristina.
-No. Non avevo ancora fatto nessuna scelta, in verità. Altrimenti non mi sarei torturato nel rimorso per non aver preso Uragano per difendere quella gente.-
-Un monaco non lo avrebbe fatto.-
-Io però sapevo combattere e avrei potuto salvarli tutti-, le rispondo torcendomi con forza le mani, come faccio sempre ripensando a quell’episodio.

Come inebetito e con lo sguardo vacuo, mi alzai in piedi e presi tra le braccia uno dei corpicini e lo portai fuori all’aperto. Lo portai fuori dalle mura del monastero, sul lato nord, dove c’era il nostro piccolo cimitero, e lo adagiai sull’erba. Tornai dentro e recuperai il corpo di un altro bambino e lo portai fuori, accanto al primo. E poi un altro ancora, e ancora. A metà pomeriggio avevo radunato sull’erba del cimitero i corpi di tutti gli abitanti di Grelòn morti e dei miei amici monaci. Iniziai a scavare delle fosse e continuai a farlo per tutta la notte, al lume di una torcia. Il mattino seguente, all’alba, il mio triste compito era terminato e passai il giorno intero a pregare per le anime di quei poveri sventurati… e per la mia. Invocavo il perdono, non di Gesù, ma della forza celeste che governava la mia vita. Il perdono per aver chiuso gli occhi ed aver abbandonato la via che era stata tracciata davanti a me, la via che mi avrebbe permesso di evitare quel massacro di innocenti.
Avevo trovato anche il tempo di ammassare i corpi dei pochi briganti morti al centro del cortile del monastero, e avevo dato loro fuoco. Nella mia nuova concezione di giusto e sbagliato non meritavano una sepoltura cristiana.
Verso il tramonto, mentre stavo ancora inginocchiato sulle tombe dei miei amici, mi giunse all’orecchio un rumore di ruote. Era una carrozza che viaggiava sulla strada poco lontana e portava le insegne della Chiesa di Roma. Si fermò proprio in corrispondenza del monastero devastato.
Ne scesero due uomini. Uno era un anziano monaco dalla veste bianca, completamente calvo, al cui collo era appesa una catenella d’argento che sorreggeva una croce fatta dello stesso materiale. L’altro uomo era alto, dal fisico robusto, sui quarant’anni, con folti capelli corvini e occhi neri come la notte. Era un ecclesiastico di rango, visto l’abbigliamento sfarzoso e la croce d’oro che risaltava sul suo petto. Mentre venivano verso di me, però, non vidi nei suoi occhi l’arroganza che aveva avuto il vescovo Sistiano.
-Cosa è capitato qui, fratello?- mi domandò il monaco calvo, mentre l’altro osservava gravemente il monastero devastato dal quale si levava ancora del fumo.
-Briganti-, riuscii solo a dire alzandomi in piedi a fatica. Le gambe mi facevano male per la lunga immobilità. –Sono l’unico superstite… purtroppo.-
-Purtroppo?- esclamò l’alto prelato puntando i suoi occhi neri su di me.
-Avrei potuto fare di più per salvare questa gente-, dissi piano.
-Se Cristo ti ha voluto salvare, un motivo deve esserci. Qual è il tuo nome?-
-Mi chiamo Khalàd di Uruk, ed ero il bibliotecario e il medico di questa piccola comunità.-
-Un segno del destino, signore-, esclamò sorpreso il monaco in bianco guardando il suo padrone.
-Così parrebbe, Egisto-, rispose l’altro.
-Fratello Khalàd. Sei al cospetto del vescovo Adriano, che sta viaggiando per le terre dei Franchi prima di recarsi a Roma dove sarà eletto Papa.-
-Vi auguro salute e un pontificato sereno, eccellenza-, mi limitai a dire.
-Sembri un uomo pratico, monaco Khalàd. Dimmi, mi accompagneresti nel mio viaggio e poi a Roma?-
-A quale scopo, se posso chiederlo, eccellenza?-
-Alla mia cerchia di aiutanti manca proprio uno scrivano. Conosci molte lingue?-
-Tutte quelle dell’Europa e anche molte delle terre straniere.-
-Eccellente. Accetti di accompagnarmi?-
-Non ho motivo di rifiutare, eccellenza-, risposi con un sospiro. –Qui il mio compito è terminato.-
-Allora vai a ripulirti e a raccogliere le tue cose. Fratello Egisto ti darà una veste nuova, come la sua. Sembri un uomo che ha visto molte cose. Sarà interessante ascoltare le tue storie durante il viaggio.-
-Come vostra eccellenza desidera.-
Naturalmente, il vescovo Adriano fu molto sorpreso quando mi vide tornare dal convento unicamente con una spada, il mio unico avere, ma non fece commenti. Rivestito di bianco, iniziai la mia avventura assieme ad uno degli uomini più carismatici che la storia ricordi, il futuro Papa Adriano I.

-Non fu il papa che riconobbe Carlo Magno come re dei Franchi?-
-Proprio lui. Un vero genio politico e un abile mediatore. Peccato sia morto prima di vedere la nascita del grande impero carolingio, il futuro Sacro Romano Impero.-
-Se non ricordo male, il suo successore, Leone III, non gli fu da meno-, mi fa notare mia nipote.
-Assolutamente. Leone fu allievo proprio di Papa Adriano e da lui ha acquisito molte doti e insegnamenti.-
-Cosa puoi mostrarmi di quegli anni, nonno?-
-Una cosa di poco valore, ma di grande significato-, le rispondo porgendole l’oggetto sul palmo della mia mano. –Il ricordo del mio più grande fallimento come uomo.-
Cristina prende in mano con delicatezza l’antica e semplice croce di legno che avevo portato al collo al monastero di Grelòn. Macchie scure la decoravano. Il sangue della piccola bambina che non ero stato in grado di proteggere.