lunedì 1 settembre 2008

12 - IL PESO DI UNA SCELTA

Sta calando la sera, tra un’ora la cena sarà pronta ma ritengo di avere ancora un po’ di tempo per proseguire con la mia storia, anche se il mio racconto sta per fare un consistente balzo in avanti. Mentre osservo la linea dell’orizzonte sul mare farsi di fuoco, il mio udito sopraffine coglie il tintinnio delle monete d’oro cinesi di epoca Han che Cristina sta rigirando tra le mani, tra incredulità e rassegnazione. Un ricordino che mi sono portato dietro da quell’epoca. In oriente, in meno di vent’anni, avevo dischiuso porte dentro di me che non pensavo esistessero. Porte del corpo, della mente e dello spirito. Kanoshi, Long Dao e Guan Yu erano stati le chiavi di quei cancelli e avevano liberato energie che faticavo a controllare tutte insieme. Ci sarei riuscito, con il tempo, molto tempo.
-Rimanesti in oriente?- mi chiede mia nipote.
-No, ma sarei tornato altre volte-, rispondo tornando a sedermi. –Le terre d’oriente erano l’unico luogo in cui potevo isolarmi dal mondo, per assimilare nuove capacità e fonderle insieme, portandomi a divenire un guerriero più forte.-
-Il tuo intento era sempre quello di prepararti ad affrontare lo sfregiato?-
-Si, anche quando pensavo che la cosa non mi interessasse più. In tanti secoli ci sono stati momenti in cui non ero più sicuro di nulla, di chi ero, di cosa facevo e del perché calcavo ancora la terra. Momenti in cui mi affidavo ai ricordi felici per estraniarmi dal dolore e dalla violenza.-
-Hai detto che con la morte del Dio della Guerra sentisti l’irrefrenabile sensazione che ti spingeva ad andartene. Lo facesti?-
-Si-, rispondo serio.
-Hai mai tentato di resisterle?-
-Molte volte, ma il disagio diventava così opprimente che per non cadere a terra per le convulsioni mi mettevo in viaggio immediatamente. Appena iniziavo a pensare ad una possibile destinazione la morsa si allentava e via via mi riprendevo.-
-Doveva essere davvero terribile non potere avere nessuna scelta di come vivere la propria vita.-
-Lo era ma in seguito, ripensando al momento esatto in cui ero sospinto ad andarmene da un luogo, mi accorgevo che rimanere non aveva davvero senso, visto che nulla mi legava più a quel preciso momento della mia avventura.-

Verso la metà del III secolo d.c. mi rimisi in viaggio per l’occidente. Avevo molto in testa su cui riflettere e almeno una soluzione ai miei problemi, ovvero il segreto dell’unione del guerriero e della sua arma. Come detto, è un concetto a cui non pensai per molto tempo ma sapere di aver ottenuto quella conoscenza mi dava una certa sicurezza per il futuro, almeno in quell’aspetto.
Non avevo idea di dove andare. Sapevo soltanto che sarei tornato al mondo in cui ero nato. Oltrepassai la catena della grandi montagne, che oggi chiamiamo Himalaya, passando stavolta a sud, attraverso freddi altipiani popolati perlopiù da pastori, per poi ridiscendere in deserti rocciosi, attraversati da vie carovaniere di cui non conoscevo neppure l’esistenza. Da alcuni mercanti seppi che il declino dell’impero romano continuava, un po’ per il marciume che stava crescendo nella corte imperiale e nell’amministrazione, un po’ per le tribù barbariche che si facevano sempre più spavalde ai confini nord-orientali. Già da tempo il territorio controllato da Roma era stato diviso in due domini a se stanti. Uno occidentale, con Roma capitale, e uno orientale dove il centro di comando era la città di origine ellenistica Nicomedia.
–I Cristiani poi diventano sempre di più e sempre più influenti a Roma e…-, iniziò a dirmi un carovaniere piuttosto loquace che avevo incontrato nei deserti dell’Anatolia, non molto lontano da dove un tempo sorgeva Troia.
-Cristiani?!- domandai sorpreso. –I seguaci di Cristo di Palestina? Il falegname crocifisso oltre duecento anni fa?-
-Conosci bene quella storia, vedo. Si, sono proprio loro. Roma ne è piena nonostante le persecuzioni di Diocleziano e degli imperatori che lo hanno preceduto.- Il mercante era ben disposto a condividere informazioni perché gli interessavano quelle che potevo dargli in cambio, a proposito delle terre d’oriente in cui ero vissuto negli ultimi anni. Mi invitò persino a ristorarmi nella sua tenda per parlare con più tranquillità.
-Persecuzioni? E per cosa?- domandai incredulo.
-Si dice fomentino disordini. In realtà tentano soltanto di fare proseliti in ogni modo e hanno dato all’imperatore un buon motivo per distogliere l’attenzione del popolo dai guai dell’impero. Dicono che a Roma, nel Colosseo, se ne faccia una vera mattanza di cristiani. Li mandano nell’arena con bestie feroci o li bruciano vivi legati alla croce che adorano. Nel migliore dei casi li fanno combattere contro i gladiatori, per divertire la folla.-
-Che ignobile crudeltà-, commentai scuotendo la testa.
-Alcuni lo meritano, credimi-, continuò il mercante. –Molti alti funzionari si sono convertiti e convertono a forza i loro sottoposti. Sottraggono attenzione agli affari dell’impero per i loro scopi religiosi. I cristiani stanno contribuendo attivamente allo sfascio di Roma.-

-Ma non è possibile!- esclama Cristina indignata. –Nessuna fonte storica ha mai riportato una cosa simile! Sono stati i barbari a far cadere l’impero e la corruzione che già vi serpeggiava!-
-Non ho detto che furono i cristiani a farlo cadere. Ho detto che contribuirono attivamente distraendo fondi e attenzioni per la loro causa.-
-Non è possibile!- insiste mia nipote in preda ad una sorta di isterismo religioso.
-Cristina. Ho voluto raccontare proprio a te tutta la mia storia perché ritengo tu abbia la necessaria capacità di giudizio per comprenderla. Non farti accecare dalla tua fede, nonostante sia ben riposta, e ragiona sul quadro d’insieme. La Chiesa, Cristiana prima e Cattolica poi, non avrebbe mai potuto svilupparsi e rafforzarsi tanto in fretta senza scorciatoie adottate da uomini in posizioni di comando. Le prove di ciò che dico sono nella sezione più antica degli Archivi Vaticani, accessibile solo al Papa… e a me! Sono stato io a catalogare quei documenti e sono in possesso di un sigillo papale che mi permette di accedervi quando voglio, al pari del Santo Padre.-
-Tu conosci i segreti del Vaticano?!-
-Tutti quanti, ma sono tenuto al silenzio da un giuramento di segretezza. Sono stato diverse volte a Roma negli ultimi anni e ho avuto molti colloqui privati sia con il Papa che con i suoi più stretti collaboratori.-
-Continua la tua storia, nonno. Non voglio sapere altro-, mi intima lei alzando una mano per chiudere l’argomento.

Il mercante diceva il vero a proposito delle persecuzioni. L’impero andava allo sfascio ma l’imperatore imboniva la folla con spettacoli di morte. L’unica mia consolazione era che più venivano calpestati, più diventavano forti, nelle loro idee, nella loro fede in Cristo. Tuttavia l’uomo è una bestia capace di partorire scelleratezze immonde. Mi trovavo a vagare nel cuore della Gallia quando mi imbattei nel più crudele di quei giochi di morte. Il governatore locale aveva arrestato un nutrito gruppo di cristiani, uomini, donne e bambini indistintamente. Aveva separato i piccoli dalle loro famiglie e li aveva mandati da soli a morire nell’arena, assieme ai suoi due leoni personali. Non resistetti. Quando le fiere furono liberate nel piccolo anfiteatro cittadino, scavalcai il parapetto del punto dal quale stavo assistendo alla scena e scesi in campo. Si fece silenzio. Nessuno poteva immaginare che un qualsiasi uomo entrasse nell’arena con quei leoni di propria spontanea volontà.
-Piccoli!- gridai in latino. –Dietro di me!- I venti bambini non se lo fecero ripetere e corsero a raggrupparsi dietro le mie spalle.
Richiamai a me lo spirito del leone e mi preparai ad affrontare quelle due bestie sanguinarie. Uragano era pronta a cantare la sua canzone di morte ancora una volta. Fui fortunato perché i leoni mi attaccarono uno alla volta ed ebbi il tempo di evitarne l’assalto e di calare la mia lama celtica su ognuno di loro, uccidendoli con un solo colpo.
Il governatore si alzò in piedi esterrefatto e colmo di rabbia. –Uomo!- urlò furioso. –Quei leoni erano bestie magnifiche. Mi dovrai risarcire!-
Era assurdo. Si preoccupava dei suoi “cuccioli”. Lo guardai di traverso. –Se non chiudi il becco ti ripagherò con il ferro della mia spada!- gli intimai mentre già mi voltavo per andare dai bambini.
-Insolente! Gladiatori! Fateli a pezzi!- comandò il romano.
Altre porte si aprirono e una decina di uomini armati nei modi più disparati entrarono a calcare la sabbia dell’arena. Gladiatori. Schiavi che combattevano per divertire il popolo. Per riottenere la propria libertà. Alcuni lo facevano per il gusto di uccidere.
Non fecero l’errore dei leoni e mi attaccarono tutti insieme. In confronto a me erano lenti e goffi, intralciati da quelle armature così male assortite e dalle armi che non sapevano sfruttare. Imparai una cosa in quell’arena. Indubbiamente c’erano pochi guerrieri al mondo capaci di starmi alla pari e, grazie alla mia maggiore abilità, potevo neutralizzare quegli uomini senza ucciderli.

-E rispettare la promessa fatta a Gesù, quindi-, commenta Cristina.
-Non era più la promessa a farmi desistere dall’uccidere quegli uomini, ma il significato che essa comportava. La vita va sempre e comunque rispettata, non solo in virtù di una predica. Iniziavo a sentire mia quella visione del mondo e cominciava ad essere naturale per me tenere come ultima possibilità l’uccisione di altri esseri umani.-

Combinando tecniche di spada con calci e pugni, stesi tutti i gladiatori in pochi minuti, rompendo loro molte ossa ma lasciandoli in vita. La folla aveva iniziato ad esultare per quel combattimento imprevisto ma non ci badai. Seguito dai bambini lasciai l’arena per la porta che conduceva ai sotterranei e alle prigioni. Nessuno osò fermarmi, neppure quando con un colpo di Uragano fracassai le serrature della gabbia in cui i cristiani erano rinchiusi. Stavamo per risalire la scala che portava in superficie quando i sotterranei si riempirono di soldati armati. Giunse anche il governatore. Ora che lo vedevo bene aveva un qualcosa di familiare.
-Uomo! Come hai osato ridicolizzarmi davanti alla folla? Pagherai con la vita per questo!- blaterò il romano. Non era molto alto e sembrava addirittura scomparire negli eleganti vestiti troppo grandi per lui. Immaginavo dovesse avere qualche dote particolare per essere stato messo a governare una provincia così importante, doti che non riuscivo a scorgere. In generale, sembrava davvero un uomo insignificante.
-Posso almeno sapere il nome di chi mi accusa?- domandai per prendere tempo. Dovevo valutare il da farsi attentamente. Un mio errore e i cristiani alle mie spalle sarebbero morti tutti.
-Sono Gaio Terzio Sentio, per volere del Divino Cesare, Governatore della Gallia.-
-Sentio?!- esclamai sentendomi la rabbia montare dentro. –Per caso parente del tribuno Aulo Sentio?-
-Era mio cugino. Fu ucciso in Britannia anni orsono. Lo conoscevi? Sembri giovane. Forse eri solo un bambino.-
-Ho conosciuto quel tagliagole e ti assicuro che in fatto a crudeltà non gli sei da meno. L’ho fatto a pezzi con la mia spada come si fa con un porco e se non ritiri i tuoi uomini e mi lasci passare, tu e loro seguirete la stessa sorte. Mi sono spiegato?-
-Tu non puoi essere l’assassino di mio cugino!-
-Spostati!- gli urlai contro furioso.
Per tutta risposta il governatore mi mandò contro due dei suoi uomini. Purtroppo dovevo dare l’esempio e fui costretto ad ucciderli. Lo feci nel modo più rapido e spettacolare di cui fossi capace. Con un unico fendente curvo orizzontale, rapido come una raffica di vento, tagliai ad entrambi la gola, zona non protetta da elmo e corazza, ancora prima che avessero il tempo di sguainare le loro armi. Sentio e gli altri soldati ammutolirono e si ritrassero da me e dal gruppo che proteggevo.

-Ti lasciarono passare?- mi domanda Cristina incredula.
-Certo che lo fecero. Evidentemente i soldati conoscevano l’indole di vigliacco del loro governatore. Quando lo videro arretrare per primo e farsi scudo con i loro corpi… beh, credo abbiano pensato che non valeva morire per lui e per la misera paga di soldato.-
-Non fosti perseguito?-
-No, per niente. Se avesse emesso un ordine di cattura nei miei confronti, Sentio avrebbe anche dovuto spiegare come un uomo solo fosse stato capace di andarsene liberamente dopo aver liberato sotto il suo naso un centinaio di cristiani condannati.-
-Rimanesti in Gallia?-

Vagai molto in tutto ciò che rimaneva dell’impero romano occidentale. Non avevo una meta precisa ma non m’importava molto. Mi fermavo un po’ qua e un po’ la, per giorni, mesi, qualche volta anni. Imparai, soprattutto le lingue di molti popoli, vecchi e nuovi. Gli anni passavano ma per me poco importava. Oramai mi accorgevo poco del tempo che passava, fossero anche secoli. Fui diretto testimone della caduta dell’impero d’occidente, nel 476 d.c., quando il re germanico Odoacre depose l’ultimo imperatore, un ragazzino di nome Romolo Augusto. Dopo decine d’anni sentii la familiare stretta allo stomaco che mi intimava di muovermi. Era diversa però, non mi intimava di abbandonare un luogo, ma di dirigermi verso uno in particolare. Mi sentivo sempre più una marionetta nella mani di un occulto burattinaio. Sentivo che il nord mi chiamava… nuovamente. Uragano vibrava d’impazienza, emetteva uno strano suono, come rispondesse ad un richiamo, e c’era una sola cosa che poteva fare ciò, Excalibur. Dovevo tornare in Britannia.
Mi rimisi lentamente in viaggio, senza fretta, un viaggio verso nord che durò alcuni anni. La sensazione di disagio non era troppo forte, quindi potevo indugiare. Da tempo avevo imparato ad interpretare l’intensità del dolore e capire quanto tempo mi si concedeva per raggiungere una meta o per lasciare un luogo in cui ero vissuto. Fu solo alla fine del V secolo che giunsi sulle coste a nord della Gallia, ora terra del popolo dei Franchi, nella regione chiamata Bretagna. Le navi andavano e venivano dalle grandi isole a ritmo incessante, portando uomini e merci al di qua e al di la del mare. Molte notizie giungevano dall’ormai ex provincia insulare romana. Un grande condottiero britanno di origine romana e dotato di una spada magica, aveva fermato, con la sua cavalleria pesante e pochi locali male armati, i sassoni a Badon Hill, nei pressi del Grande Muro. Per questo motivo era stato nominato Grande Re di tutta la Britannia e quella terra sembrava stesse rinascendo, dopo il caos dovuto all’abbandono di Roma. Il nome celtico del nuovo re era Arthur Pendragon, discendente del primo condottiero ad aver portato i cavalieri dell’est sull’isola, Lucius Artorius Castus. Era il mio uomo.

-Trovasti cambiata quella terra dopo tanti anni?-
-Non particolarmente. In Britannia, come nell’odierna Inghilterra, i cambiamenti sono molto lenti a venire e il tempo sembra scorrere più lento. Forse quello più evidente era che quella terra si stava cristianizzando rapidamente. Nel tempo che vagai per l’Europa senza meta, i cristiani divennero sempre più forti e numerosi. Le persecuzioni finirono e, con l’Editto di Milano, l’imperatore Costantino dichiarò il Cristianesimo religione ufficiale dell’impero.-
-Ti presentasti ad Arthur Pendragon?-
-No. Fu lui a presentarsi a me.-
-Che cosa?!-

Messo piede sul suolo britanno, il mio primo pensiero fu di dirigermi a nord, ma non per andare ad unirmi ad Arthur e ai suoi cavalieri, discendenti dei sarmati giunti dal Mar Nero. Tagliai fuori la fortezza di Dun Camlot, quella che i poeti francesi chiamarono in seguito Camelot, la reggia iniziata da Uther Pendragon e ultimata da suo figlio Arthur. Andai oltre, verso e oltre il Grande Muro, nelle terre dei Calèdoni e degli Scoti, dove un tempo avevo vissuto vegliando un cairn, un tumulo tombale di bianche pietre. Sorprendentemente trovai la casa ancora in piedi. Non solo. Era anche abitata. Il cairn era poco lontano dall’abitazione e il vederlo pulito da qualsiasi gramigna o altra impurità mi sorprese grandemente. Non indugiai lo sguardo su di esso per allentare la stretta al mio cuore. Ci sarebbe stato tempo. Ero curioso di conoscere il nuovo abitante di quella che era stata la mia casa.
Bussai e attesi per qualche istante. Sentii dei passi e poco dopo la porta di legno si dischiuse. Mi aprì un uomo anziano, con i capelli bianchi e radi e la barba lunga e incolta. Portava al collo un medaglione di bronzo con su inciso un simbolo appartenente alla cultura celtica. Il monile gli ricadeva su una tunica bianca fermata in vita da un pezzo di corda. Aveva molto di familiare e capii immediatamente chi doveva essere.
-Cosa posso fare per te straniero?- mi domandò l’uomo alzando un sopracciglio.
-Potresti farmi entrare in casa mia, tanto per cominciare, discendente di Taliesin-, gli dissi sorridendo.
-Come fai a sapere….- esclamò l’anziano druido, colmo di meraviglia, scostandosi dall’ingresso.
Riconobbi subito l’interno della casa che, con l’aiuto di Kevin il bardo, avevo costruito pietra su pietra. –Qual è il tuo nome, venerabile druido?- gli domandai per tentare di riportarlo alla realtà.
-Il mio nome è lo stesso del mio antenato, Taliesin. Molti però mi chiamano Merlin. Hai detto che questa è casa tua. Io ci vivo da quando sono nato e anche il druido mio maestro e padre…-
-Lo so, Merlin. Questa casa però apparteneva alla mia famiglia in origine. Un mio antenato la costruì con l’aiuto del grande bardo Kevin, per stare vicino alla donna che aveva immensamente amato.-
-Tu sei il Custode della Spada!- esclamò il druido meravigliato. Aveva chiuso la porta e mi aveva invitato ad accomodarmi.
-Il che cosa?- gli chiesi senza capire.
-L’allievo del grande bardo cantò una canzone prima di morire. Parlava di colui che custodiva la Spada del Potere e che l’aveva affidata ad un grande condottiero. Egli porta una spada sorella ed esse cantano quando sono vicine. Il Custode ricomparirà il giorno in cui Excalibur dovrà essere resa.-
-Non immaginavo di essere così famoso-, ironizzai, ma in realtà mi ero liberato di un peso. Avevo appena appreso qual era lo scopo del mio ritorno in Britannia. Merlin si era fatto triste.
-Che ti succede, Merlin? Qualcosa non va?-
-Il tuo ritorno significa sconfitta. A breve, Re Arthur e i suoi cavalieri affronteranno gli eserciti dei Sassoni e degli Angli, senza contare il traditore Mordred e i suoi rinnegati. Se tu sei qui, significa che lui sarà sconfitto.-
Il silenzio era rotto solo dal crepitio del fuoco. Fuori calava la sera e faceva freddo. –Se io sono qui, allora Re Arthur probabilmente morirà-, sentenziai. –Tuttavia il mio destino era proprio quello di trovarmi in questo luogo e in quest’ora. Arthur morirà, Merlin, ma questo non significa che sarà sconfitto.-
-La sua morte sarà la sconfitta. Senza il Grande Re, la Britannia ripiomberà nelle tenebre.-
-O ne rinascerà più forte, con una nuova coscienza. Ci sono molti modi di riportare la vittoria e, spesso, perdere una battaglia può portare a vincere la guerra.-
-Spero che le tue parole siano vere…-
-Khalàd. Anche io porto il nome del mio antenato-, mentii. –Ora ti chiedo di perdonarmi ma c’è una cosa che devo fare-, gli dissi alzandomi. –Non preoccuparti per la casa, Merlin. E’ tua, come lo fu di tuo padre. Ti chiedo solo ospitalità per il tempo che resterò qui.-
Uscii nuovamente all’aperto e mi diressi verso il luogo del dolore. Il cairn di Caysia sembrava ardere alla tenue luce del tramonto. I druidi lo avevano mantenuto perfettamente pulito e fiori colorati erano stati piantati attorno ad esso, come se dimorasse su un cuscino di bellezza.
-I druidi lo considerano sacro. Vi è sepolta una potente veggente che un tempo ha amato il tuo antenato-, disse Merlin che evidentemente mi aveva seguito.
-Lo so-, risposi piano con le lacrime che mi rigavano il viso. –Un amore che non morirà mai.-

-Non ti eri ancora rassegnato?- mi chiede mia nipote piuttosto insensibilmente.
-Non mi sono mai rassegnato alla perdita di nessuna delle incarnazioni di tua nonna, Cristina. Ognuna di esse si è portata via un brandello del mio cuore.-
-Cosa facesti allora? Raggiungesti Arthur sul campo di battaglia per aiutarlo o…-
-Calcai la terra di Camlann, è vero, ma solo dopo che la battaglia fu conclusa, e questo mi cambiò immensamente.-

Erano passati due giorni da quando ero giunto da Merlin e il mattino del terzo giorno, mentre facevamo colazione, udimmo un fragore di tuoni venire da sud.
-Cavalieri-, affermò serio il druido. –Il mio antico allievo Arthur viene a chiedermi consiglio per l’imminente battaglia.-
-So che è lui-, gli dissi. –La mia spada inizia a vibrare, segno che un’altra Spada Celeste si sta avvicinando.-
Uscimmo al sole del mattino e attendemmo di fronte alla casa l’arrivo del Grande Re di Britannia e del suo seguito. Comparvero all’improvviso, da dietro una collina, una decina di cavalieri in tutto ma che avrebbero potuto sbaragliare un’intera legione romana, tanto era possente il loro galoppo. Le armature lucenti ricoprivano tutto il loro corpo e pesanti armi dall’aria micidiale erano appese alle loro selle. Si fermarono proprio di fronte a noi. Riconobbi subito il re perché il suo elmo era quello su cui spiccava una corona dorata.
-Benvenuto alla mia casa, Arthur-, lo salutò Merlin seriamente.
Il re e i suoi cavalieri si tolsero tutti l’elmo e scesero da cavallo. –E’ sempre un piacere rivederti, mio vecchio maestro e amico-, rispose giovialmente un uomo alto e forte, con capelli lunghi e rossicci e un accenno di barba sul mento. La pelle del suo volto era però pallida e gli occhi incavati, la cui scintilla vitale si stava spegnendo. –Anche in un momento tanto buio.-
-Finché tu cavalchi con i tuoi nobili cavalieri il buio non potrà prevalere-, gli disse il vecchio druido abbracciandolo.
D’un tratto, Arthur si accorse che la sua spada nel fodero vibrava in modo insolito e i suoi occhi si puntarono su di me. –Posso conoscere il nome del tuo ospite, Merlin?-
-Lui è…-
-Mi presento da solo, amico mio-, anticipai il druido per evitargli inutili imbarazzi. –Io sono il discendente di colui che affidò la tua spada al tuo antenato, Lucius Artorius Castus. Mi chiamo Khalàd, re Arthur.-
-Il Custode della Spada?!- esclamò Arthur sorpreso, poi il suo volto si distese. –Se credo nelle leggende, allora il tuo arrivo è assolutamente logico.-
-Già lo dissi a Merlin, re Arthur. Non confondere la mia venuta con la certezza della tua sconfitta. Esistono molti modi di vincere sul campo di battaglia.-
-Parliamo d’altro, amici-, intervenne Merlin. –Tu e i tuoi cavalieri sarete stanchi ed affamati, Arthur. Khalàd, potresti aiutarmi a portare fuori un tavolo in modo da poter offrire ai nostri amici in armatura un po’ di ristoro?-
-Naturalmente, amico mio-, risposi senza staccare gli occhi dal re.

-Tu getti nuova luce sulla figura di re Arthur. Non solo dici che è esistito, ma avrebbe perso la battaglia di Camlann perché malato!-
-Si, era malato, ma non ho mica detto che sia stato sconfitto-, preciso a mia nipote. –Arthur morì effettivamente a Camlann, ma sconfisse le orde dei Sassoni e uccise anche il traditore Mordred.-
-Una “vittoria di Pirro”. I Sassoni e gli Angli conquistarono comunque la Britannia-, mi fa notare Cristina.
-Vero. Ma ciò che l’allievo di Merlin aveva costruito nella sua vita non andò perduto. Gli invasori fecero proprio il modo di governare di re Arthur, per quanto possibile, e su di esso costruirono le basi del futuro regno d’Inghilterra, un regno anglo-sassone. Se così non fosse stato, si sarebbero limitati a razziare l’isola e a tornarsene da dove erano venuti.-

Dopo aver imbandito la tavola per Arthur e i suoi cavalieri, io e Merlin ci sedemmo a terra assieme al sovrano, per discutere degli avvenimenti imminenti, oltre che di quelli passati. Il traditore Mordred si era unito ai Sassoni e l’unico luogo adatto a dare loro battaglia sarebbe stato la piana di Camlann. C’erano pochi progetti da fare. I sassoni erano in superiorità numerica e Arthur aveva dalla sua solo la maggior organizzazione della sua cavalleria pesante. Non immaginava quanto sarebbe stata determinante nella sconfitta degli invasori. Poco prima di mezzogiorno il re, ottenuta la benedizione di Merlin, si apprestò a ripartire.
-Posso parlarti in privato, re Arthur?- gli chiesi.
-Credo anch’io sia il caso di farlo, Khalàd-, mi rispose lui annuendo.
Ci dirigemmo verso il tumulo di Caysia, lontani da tutti. Ogni volta che mi avvicinavo al cairn venivo invaso da una profonda tristezza. Arthur, vedendomi poggiarvi sopra la mano con tanta delicatezza, non poté non notarlo.
-Tu non sei il discendente del Custode, non è vero?- mi disse il re. –Tu sei l’unico Custode della Spada, colui che diede Excalibur ad Artorius Castus. Tu sei l’uomo che amava e che era amato dalla donna che riposa qui sotto.-
Annuii senza sorprendermi più di tanto. –Come lo hai capito?-
-Un uomo che sta morendo percepisce più chiaramente il potere innaturale che lo circonda. Tu ne sei una grande fonte.-
-E’ così grave la tua malattia?- domandai fissandolo negli occhi.
-Mi resta poco da vivere, ma quel poco lo vivrò in modo magnifico.-
-Ora che sai ciò che ti attende a Camlann, non vuoi lasciare ad altri il compito e vivere in pace quel poco di tempo che ti resta?- lo provocai.
-A quale scopo? Per vedere la mia terra schiava dei Sassoni senza far nulla?- rispose Arthur fieramente. –Ho sacrificato tutto per la Britannia e se dovrò darle la mia vita per mantenerla libera, lo farò. Ne va del mio onore di re, di cavaliere e di guerriero. Quando un guerriero non ha più un corpo che lo sostenga, che gli rimane se non l’onore?-
Estrassi Uragano e la levai in aria. –Altri hanno pronunciato la parola “onore” calpestandone il significato, ma tu non sei tra questi. Le tue parole sono degne di un Grande Re, Arthur di Britannia. Estrai Excalibur e falla cantare assieme alla mia Uragano, per un’ultima volta.

-Gli rivelasti il nome della tua spada?! Perché?!- mi chiede Cristina sorpresa.
-Un uomo che muore porta con se molti segreti. Ho voluto rendergli questo omaggio perché in poche ore si era conquistato tutto il mio rispetto.-

Arthur non se lo fece ripetere due volte. Sguainò la prima spada creata dal fabbro Calhorn e la levò accanto alla mia, facendo toccare le due lame. Un possente canto di spade si levò nell’aria, un feroce avvertimento per i loro nemici. Le Spade Celesti erano vive e letali più che mai. Seppi in seguito che quel mattino, nel campo sassone, Mordred, il cavaliere traditore, era stato preso da un furioso attacco di panico. Excalibur gli aveva recapitato la sua sentenza di morte.

-Quando recuperati Excalibur?-
-Tre giorni più tardi. Avevo osservato la battaglia assieme a Merlin dall’alto di una collina. I sassoni erano più numerosi ma non poterono resistere alle cariche dei cavalieri che li falciarono come steli di grano. Solo Mordred e i suoi rinnegati offrirono una degna resistenza ma alla fine caddero anche loro, sotto i colpi di Lancelout, di Gowain, di Galahad, di Tristan e degli altri eroi che affiancarono Arthur in quella sua ultima cavalcata. L’ultimo scontro fu proprio tra il re morente e il traditore. La lancia di Mordred trafisse Arthur in pieno petto ma il Grande Re, incurante della sofferenza, calò Excalibur sul suo avversario, tagliandolo in due pezzi come tanto tempo prima io stesso avevo fatto con il crudele Aulo Sentio, l’assassino della mia Caysia.
Al calar del sole, mentre Merlin rimaneva chiuso nel suo dolore, attraversai il campo di battaglia dominato da Madama Morte e mi avvicinai ad Arthur, vegliato dai cavalieri superstiti, che stava per esalare il suo ultimo respiro.
-Ti… aspettavo… Khalàd… Ti rendo…. Excalibur…-, mi disse il re con il respiro affannoso.
-Non è mai stata mia. La tua famiglia ne ha conquistato il possesso con il sangue versato per la Britannia. La custodirò finché qualcuno non sarà degno di impugnarla nuovamente, come hanno fatto in tanti anni le famiglie dei Castus e dei Pendragon.- Presi la spada e, recitando una silenziosa preghiera a Cristo, lasciai il Grande Re Arthur abbandonare questo mondo per entrare nella leggenda. Non trovai più nessuno degno quanto lui di impugnare nuovamente Excalibur.

-Hai detto che qualcosa ti cambiò profondamente-, mi fa notare mia nipote.
-Si-, confermo serio. –Per un lungo periodo pensai di aver trovato la pace che cercavo, lontano da guerre e dal mio destino che non ammetteva scelte.-
-Cosa intendi dire?-
-Divenni monaco.-

Mentre camminavo sul campo di battaglia di Camlann, il sole rosso del tramonto colorava di cremisi ciò che non lo era già dal sangue. Guardando quei corpi mutilati, i loro volti contratti in smorfie di dolore, le articolazioni torte in modo innaturale, iniziai a pensare al motivo di quella guerra. Non ne trovavo uno che fosse plausibile. Le ricchezze che la Britannia poteva offrire non erano tali da giustificare tanta violenza da parte dei Sassoni, eppure erano venuti e avevano ucciso e distrutto. Per cosa? Per un po’ di selvaggina? Per qualche sacco di cereali? Per del bestiame? La vita umana valeva davvero così poco? Non volevo crederlo e più ci pensavo, meno sentivo il canto delle spade che portavo addosso, sostituito dal ricordo delle parole che Gesù mi disse prima che lo lasciassi, a Gerusalemme. “Le più grandi ricchezze del mondo non valgono tutte insieme la vita di un solo uomo, sia esso giovane o vecchio”.
Finalmente abbandonai il campo di battaglia e mi inoltrai nelle colline. Non tornai da Merlin. In verità non lo salutai nemmeno. Volevo solo liberarmi di Excalibur, e magari anche di Uragano. Una strana repulsione mi aveva conquistato, per tutto ciò che la mia spada rappresentava. Quella notte nascosi la spada di re Arthur al mondo, per sempre, e mi diressi verso sud. Ero stato davvero tentato di abbandonare anche la mia spada celtica ma all’ultimo istante mi sono reso conto di ciò che stavo facendo. Uragano racchiudeva in se il mio passato, il mio presente e il mio futuro.
Vagai per il sud della Britannia come un fantasma, dormendo all’aperto, al freddo e sotto la pioggia, mangiando ciò che la terra offriva. Come detto, il mio corpo immortale smaltiva alle svelte le malattie ma non ne era immune. Non ci volle molto perché cadessi preda di una violenta febbre che mi lasciò svenuto sul sentiero che stavo percorrendo. Quando mi svegliai ero al riparo sotto un tetto e tutto intorno a me aleggiava il puzzo della lana bagnata. Ero in un ovile. Accanto a me vidi un uomo vestito di una tunica marrone tutta lacera e sporca. Appesa al collo aveva una piccola croce di legno e portava i capelli tagliati alla maniera dei monaci, una nuova tipologia di fedeli cristiani che si stava diffondendo rapidamente in tutta l’Europa. Era magro ed esile e mi riuscì subito difficile credere che mi avesse trascinato fin li da solo.
-Ti sei ripreso in fretta-, mi disse in un latino stentato e dal forte accento. Non era britanno. –Quando ti ho trovato eri più morto che vivo.-
-Ci vuole ben altro che la febbre per uccidermi-, gli dissi ironicamente. Ero completamente senza forze. –Ti ringrazio per avermi raccolto. Il mio nome è Khalàd di Uruk.-
-Un luogo che non ho mai sentito. Immagino si trovi al di la del grande mare del sud a giudicare dal colore della tua pelle. Io sono Antino da Grelòn, un piccolo villaggio della Bretagna, dove assieme ad altri fratelli stiamo fondando un piccolo monastero.-
-Professate la parola di Cristo a quanto vedo.-
-Lui è il nostro Salvatore. Qualcuno ti ha già parlato di Lui?- mi domandò.
-So molto su Gesù di Nazareth-, ammisi. –Sei lontano da casa, Antino. Cosa ci fai in Britannia?-
-Purtroppo la parola non basta a diffondere e tramandare gli insegnamenti di Nostro Signore, e ne io ne i miei fratelli sappiamo leggere e scrivere. Avevamo sentito dire che in questa terra si trovano ancora uomini di conoscenza di formazione romana. Mi sono accollato il compito di trovarne qualcuno e invitarlo a trasferirsi nel nostro monastero, per insegnare e per dare vita ad una tradizione scritta della nostra piccola comunità.-

-Capitasti proprio al momento giusto-, mi fa notare Cristina. –Non è che qualcuno dall’alto abbia organizzato quell’incontro?-
-E’ probabile-, ammisi sorridendo. –Evidentemente neppure Gesù amava lasciare troppe cose al caso.-
-Ti offristi di aiutare Antino?-
-Naturalmente. Era un’occasione unica per tornare a dedicarmi alla cultura e lasciarmi la guerra alle spalle. Dopo aver allestito la Grande Biblioteca di Alessandria mi ero convinto che quella fosse la mia vera vocazione, non la battaglia per la quale sembrava fossi stato forgiato, esattamente come la mia spada.-
-Diciamo che riuscivi bene in entrambe le cose-, sentenzia lei con un’alzata di spalle.
-Purtroppo si.-

-Sono io l’uomo che cerchi, Antino-, dissi al mio soccorritore levandomi a sedere. –Parlo e scrivo in molte lingue e di molte terre, non solo in latino. Se me lo permetti, vorrei ringraziarti per avermi soccorso dando buon fine alla tua ricerca.-
-E’ il Signore che ci ha fatto incontrare, Khalàd. Non sai quanto le tue parole mi rendano felice. Partiremo appena starai meglio. Questo clima così umido non fa troppo bene neppure a me.-
Iniziò in questo modo un periodo di forte introspezione del mio intero essere. Volevo abbandonare la vita del combattente per dedicarmi solamente allo studio, come già avevo fatto in Egitto. Dentro di me sapevo che si trattava solo di un sogno, di un’utopia. Le forze del cielo che controllavano il mio destino non mi avrebbero mai permesso di deviare per troppo tempo dalla via che avevano scelto per me. Volevo pensare però di poterlo fare, di dimenticare la mia spada, le battaglie, anche lo sfregiato. Mentre camminavo al fianco di Antino e rimuginavo su tutto ciò, mi tornavano continuamente in mente le parole di Kevin il bardo. “Devi decidere cosa sei, Khalàd. O sei un guerriero o non lo sei. Non puoi stare nel mezzo”. Parole sagge e un giusto dilemma che però mi rifiutavo continuamente di risolvere.
Giungemmo a Grelòn, in Bretagna, dopo un paio di settimane di viaggio. Dopo la caduta dell’impero, quella terra era caduta sotto il dominio dei Franchi, un popolo culturalmente più evoluto degli atri gruppi barbarici che erano arrivati dall’est per demolire ciò che restava di Roma. Avevano una struttura sociale più articolata di altri popoli e si stavano cristianizzando in fretta. Sotto il loro dominio, i monasteri e le altre istituzioni cristiane fiorirono in tutta l’odierna Francia e in seguito anche nel nord delle terre germaniche.
Grelòn era un piccolo villaggio di contadini, dove Antino aveva invitato altri suoi fratelli per aiutare la popolazione in difficoltà. Alcuni di loro possedevano delle conoscenze di erboristeria e medicina naturale che alleviarono le sofferenze dei poveri contadini, sempre soggetti ad ogni sorta di malanno. Col tempo sentirono il bisogno di avere una loro casa, un punto di riferimento, ed iniziarono a costruire da soli una piccola chiesa, un luogo dove i fedeli di Cristo potessero pregare il loro Salvatore. Quando io giunsi in quel villaggio, i monaci confratelli di Andino, una decina in tutto, avevano iniziato la costruzione di una vera e propria casa, attigua alla chiesa. Non ero mai stato un gran costruttore ma mi accorsi subito che, con la povertà dei materiali che avevano a disposizione, le strutture avrebbero ceduto molto presto.
Fui presentato agli altri monaci e tutti furono lieti del fatto che avevo accolto il loro invito ad aiutarli. Non persi tempo e mi misi subito al lavoro, proprio per cercare di dimenticare il prima possibile la mia vita di guerriero.

-Fu allora che ti facesti monaco?- mi chiede Cristina un po’ dubbiosa sulla cosa.
-No. Solo alcuni anni più tardi, quando il piccolo monastero fu completato e il vescovo inviato da Roma venne a benedirlo-, rispondo perso nei ricordi. Un periodo della mia vita che posso tuttora definire felice anche se per ciò che “non ho fatto” talvolta mi torco le mani per il rimorso.
-La Chiesa era già così potente all’inizio del VI secolo?-
-Lo era eccome. Un vero principato ma, come ti ho detto, era più un’organizzazione politica che religiosa.-

Ero stato ingaggiato come uomo di cultura ma fu subito chiaro che prima di mettermi a scrivere dovevo costruirmi uno scrittoio e, soprattutto, un posto dove alloggiarlo. Rispolverando le mie nozioni di architettura, spiegai ai monaci cosa dovevamo fare e perché. Abbattemmo alcuni elementi in pietra che avevano costruito e rinforzammo i muri e le colonne portanti dei due edifici con legno essiccato e ferro recuperato in vari modi. Rese le strutture solide, ricostruimmo i muri e posammo lo scheletro per i tetti. Anche i contadini del villaggio ci aiutarono e, ben presto, la chiesa e la casa furono abitabili. Fu davvero un giorno felice quello in cui il monaco più anziano, Fratello Martèn, poté celebrare la prima messa nella piccola e rudimentale chiesa. Tutto il villaggio era presente e in quella semplicità sentii dopo secoli il vero spirito d’amore che Gesù predicava in vita. Non avrei mai più abbandonato quel luogo di pace, qualsiasi cosa fosse accaduta.
Negli anni a venire divisi il mio tempo tra l’alfabetizzazione dei monaci e degli abitanti di Grelòn e la costruzione di altri edifici attigui ai due principali. Fu così che il futuro monastero fu dotato di un forno per cuocere il pane, di una stalla, di una foresteria per dare riparo ai pellegrini e di altre strutture minori.
-Girano molti briganti di questi tempi, Khalàd-, mi disse un giorno Fratello Martèn. –Tu sei un guerriero…-
-Io ero un guerriero, Fratello Martèn. Ora sono solo un uomo di conoscenza che cerca la pace. Sto valutando seriamente l’idea di prendere il saio ed entrare nella vostra confraternita.-
-Nulla ci farebbe più felici, Khalàd. Ancora non capisco come tu non sembri invecchiare neppure di un giorno.-
-Tu credi nei miracoli, Fratello Martèn?- gli domandai.
-Non crederei in Cristo se non credessi nei miracoli.-
-Allora consideralo un miracolo. Per volontà del cielo io invecchio molto più lentamente delle altre persone. Non chiedere la mia età, non potresti capire.-
-Come desideri, amico mio-, rispose il monaco. –Non ho motivo di dubitare delle tue parole. Tuttavia il problema rimane. Girano molti briganti per le nostre campagne e, seppure sia poco ciò che abbiamo, quel poco potrebbe attirarli.-
-Hai ragione-, concordai guardando gli edifici del piccolo monastero. –Servirebbero….- Mi venne in mente Troia. –Delle mura! Costruiremo un alto muro tutto intorno al monastero!-
-Potrebbe essere la soluzione ideale. So che altre comunità di monaci lo hanno fatto.-
-Ci vorrà del tempo ma ce la faremo.-
-E quando il muro sarà ultimato, se lo vorrai, celebreremo la tua ordinazione a monaco alla presenza del vescovo di Roma.-
-Il vescovo?!- chiesi stupefatto.
-Si. Ogni comunità monastica, prima o poi, deve essere riconosciuta dalla Chiesa di Roma e il monastero benedetto da un suo alto rappresentante.-
-Se questo è il volere di Cristo, allora così sia-, affermai sempre più convinto della mia decisione.
La costruzione del muro richiese quasi tre anni, viste le nostre poche risorse, ma un bel giorno d’estate l’ultima pietra fu posata e io venni ordinato monaco. Da Roma arrivò, con gli sfarzi di un principe, il vescovo Sistiano. Un uomo insignificante che si limitò a benedire la nostra nuova casa e a dire due parole ai monaci e ai contadini. C’era un netto contrasto tra la Chiesa di Roma, potente ed opulenta, e la semplice fede professata dai miei nuovi amici con il saio, molto più vicina al vero pensiero di Gesù. Ero l’unico al mondo ancora in vita che avrebbe potuto confermare ciò ma me ne guardai bene dal farlo. Finché gli ecclesiastici non predicavano odio, guerra e intolleranza, potevano pensare ciò che volevano del mio antico amico, tanto ero sicuro che a lui non importasse molto.
Presi i voti richiesti dall’ordine dei monaci a cui Antino e Martèn appartenevano e divenni Fratello Khalàd, anche se presto iniziarono a chiamarmi “Fratello Nero” o “Monaco Nero”, per via del colore della mia pelle. Inizialmente il mio compito all’interno della comunità fu quello di insegnare a leggere e a scrivere a tutti coloro che lo desideravano. Le mie enormi conoscenze e capacità, tuttavia, risultavano utili in molti modi e in molti compiti. Mi venne così in mente di redarre dei manuali contenenti il grande sapere che avevo accumulato in tanti secoli. Fu un lavoro lungo e faticoso che mi occupò per molti anni. Attorno a me la gente nasceva e moriva ma io non me ne curavo. Non ci si abitua mai a veder morire gli amici ma io avevo sviluppato una sorta di indifferenza. Avevo imparato a dirmi che ciò faceva parte del naturale corso della vita. Di quello “naturale”, appunto. Io ero un caso a parte.
Passarono così quasi centocinquant’anni, in cui mi dedicai a trascrivere il mio sapere e a raccogliere quello di altri, creando una piccola ma preziosa biblioteca all’interno del monastero. Il rudimentale insediamento monastico era stato con il tempo ampliato e rinforzato. I timori che un tempo Fratello Martèl aveva espresso a riguardo dei briganti si erano rivelati fondati. Eravamo spesso stati attaccati da bande di predoni in cerca di facili bottini, ma alcune mie astuzie di guerra avevano evitato spargimenti di sangue e avevano preservato quel poco che avevamo.

-Astuzie di guerra? Ma non avevi abbandonato la vita del guerriero?-
-Certo, ma un guerriero, per fortuna, non sa solo spargere sangue. Sa anche proteggere ciò che gli sta a cuore e, in quegli anni, il monastero e gli abitanti di Grelòn mi stavano davvero a cuore.-
-Cosa facesti?-

Oltre a rinforzare le mura del monastero, con l’aiuto della gente del villaggio avevo realizzato all’interno di esso alcune stanze segrete dove nascondere le nostre provviste e noi stessi. Ogni volta che i banditi venivano avvistati in zona, ci ritiravamo tutti in quelle stanze lasciando il villaggio e il monastero deserti, in modo che pensassero che fossero stati già razziati.
-Perché non vuoi accettare la carica di abate, Fratello Khalàd?- mi disse un giorno uno dei confratelli anziani, un uomo che avevo visto nascere e crescere in seno alla chiesa. –Tu più di tutti la meriteresti. Sei un miracolo vivente di Cristo e potresti garantire una lunga e stabile guida per questa comunità.-
-Come già dissi ad altri che mi fecero questa proposta, non è destino che io sia il vostro abate. Sento che non sono la persona giusta per ricoprire quella carica, a differenza di te, amico mio.-
-Continuerai dunque ad occuparti della biblioteca?-
-No. I fratelli che mi affiancano finora possono farlo al mio posto. In tanti anni ho raccolto e sperimentato molti rimedi naturali e molte cure che possono alleviare le sofferenze degli abitanti di Grelòn e dei villaggi vicini. Mi dedicherò alla medicina. Nostro Signore soltanto sa quanto ce ne sia bisogno.-
-Sentendo le tue parole, mi convinco sempre di più che tu sei un dono del cielo per questa terra, Fratello Khalàd.-

-Che ne avevi fatto di Uragano?- mi domanda Cristina dopo aver armeggiato un po’ con il registratore digitale.
-La tenevo avvolta in un panno oleato in una cassa sotto al mio letto, nella mia cella. Per tutto il tempo in cui sono stato a Grelòn non l’ho mai toccata.-
-Davvero ti piaceva quella vita?-
-La adoravo. Svegliarsi all’alba e pregare Cristo per poi mettersi al lavoro per tutto il girono, senza pensieri di guerra o di politica. Andare a letto la sera stanco ma felice perché consapevole di aver reso il mondo migliore, nel mio piccolo. Che altro potevo desiderare di più?-
-Una donna forse?- ipotizza lei maliziosamente. La mia occhiataccia le intima di sorvolare.

Passai quasi due secoli a coltivare erbe medicinali, a farne infusi e pozioni e a viaggiare per le campagne della Bretagna a curare i contadini e le loro famiglie. Talvolta anche i ricchi possidenti mi mandavano a chiamare e io accorrevo anche al loro capezzale perché Gesù mi aveva insegnato che nella sofferenza tutti gli uomini sono uguali. Anche se non era nostra usanza, da questi signorotti mi facevo pagare e versavo il guadagno alla cassa del monastero per acquistare beni di prima necessità per noi e per i più poveri. Il mio stratagemma delle stanze nascoste continuava a funzionare alla perfezione contro i briganti. Subimmo in quegli anni numerosi assalti ma riuscimmo sempre ad avvistarli in tempo… tranne una volta.
Correva l’anno del Signore 772 d.c. ed era una bellissima giornata di fine estate. Il regno dei Franchi era governato da Pipino il Breve che, anziano, presto avrebbe lasciato il potere ad uno dei suoi figli. Erano Carlomanno, il più giovane, e Carlo, il maggiore, anche se quest’ultimo non rientrava molto nelle grazie del padre a causa della sua vita troppo spensierata.
Avvistammo la compagnia di briganti in armi troppo tardi. Non si sa come ma nessuno li aveva visti arrivare e nessuno aveva dato l’allarme. Ci affrettammo ad aprire le porte del monastero per fare entrare i contadini e le loro famiglie che stavano correndo verso di noi per mettersi al riparo. Stavamo per richiuderle quando il primo gruppo dei briganti comparve sulla strada.
-Chiudiamo le porte, fratelli!- gridai agli altri monaci. –Le mura sono solide! Non entreranno!-
Con tutta la forza che avevamo chiudemmo in fretta le grandi porte di legno e, mentre le puntellavamo con i nostri corpi, alcuni giovani monaci armeggiavano con la pesante trave che serviva per bloccarle. –Fate in fretta!- intimai ai ragazzi. Ci stavano mettendo troppo tempo e oramai sentivamo gli zoccoli dei cavalli dei briganti dall’altra parte delle ante di legno. Zoccoli che si abbatterono sulle porte prima che fossero sbarrate. Venimmo sbalzati via e i predoni entrarono. Erano oltre una trentina ed erano tutti armati di spade, lance e archi. Iniziò un fuggi fuggi generale e il mio primo pensiero fu quello di mettere in salvo più persone possibile. Agguantai alcuni bambini che correvano soli per il cortile del monastero, in mezzo alla confusione generale, e li trascinai verso l’abitazione dei monaci. Tutt’intorno si levavano grida di battaglia e di dolore. Iniziai a vedere schizzi di sangue volare in aria e gente che cadeva. Scavalcai di corsa il corpo dell’abate, morto a causa di una terribile ferita alla gola. Trascinai i tre bambini nello stretto corridoio del dormitorio e li feci entrare nella mia cella.
-Restate qui e non muovetevi-, intimai loro. –Io tornerò presto con altre persone. Mentre uscivo, con la coda dell’occhio vidi la cassa di legno impolverata in cui era custodita la mia spada celtica. Non mi passò neppure per la mente di prenderla e mi precipitai nuovamente fuori.
I briganti avevano incendiato il fienile e le tettoie di legno del cortile e il fumo nero si alzava a coprire il sole. Il terreno era disseminato di cadaveri. Uomini, donne e bambini erano stati massacrati indistintamente ma la carneficina non era ancora finita. Alcuni giovani contadini stavano cercando di resistere come potevano per difendere le loro famiglie. In un angolo, nascosta dietro un barile, trovai una bambina di neppure cinque anni che tremava di paura. Era tutta sporca e aveva un graffio sulla fronte che però non sanguinava più.
-Vieni con me, piccola-, le dissi. –Ti porto in salvo.-
Non potei mantenere la promessa perché uno degli assalitori mi trafisse con la sua spada alle spalle, uccidendo la bambina. Caddi a terra in lacrime, straziato dal dolore per quella piccola vita che era stata così brutalmente spenta. Il dolore fisico del mio corpo neppure lo sentivo. Il brigante estrasse con un solo colpo la spada dalla mia schiena, strappandomi un sussulto. Guardai in volto la piccola. I suoi occhi erano già spenti. Strinsi quel piccolo corpicino con tutta la forza che avevo, come se potessi donarle un po’ della mia infinita vita. Singhiozzavo come un bambino e non mi accorgevo che i predoni iniziavano a ritirarsi. Avevano caricato sui loro cavalli tutti i sacchi di granaglie che avevamo nel magazzino e stavano portando fuori dal recinto i nostri pochi animali. Non passò molto tempo che nell’aria l’unico rumore rimasto fosse il crepitio del fuoco che divorava ciò che non era di pietra. Mi alzai a fatica. La mia ferita, naturalmente, era già guarita. Corsi a fatica, con il respiro affannoso, verso le celle del dormitorio. Il fumo nero e oleoso mi riempiva i polmoni e mi faceva tossire in continuazione, ma questo non bastava a fermarmi. Le porte delle celle erano tutte aperte, segno che erano state rovistate. Mi prese una morsa al cuore. Tutto era silenzio e una tremenda paura mi fece accelerare l’andatura. Giunto alla mia cella, lo spettacolo che mi si parò davanti era raccapricciante. I bambini erano tutti morti, colpiti dalle spade dei briganti. Uno degli assalitori era ancora nella cella, morto, con Uragano piantata nel petto. Il bambino più grande, probabilmente prima di morire, era riuscito a prendere la spada e ad usarla per difendersi. Non era bastato per salvargli la vita ma fu sufficiente per tormentare la mia anima fin nel profondo.
L’urlo di disperazione che lanciai fu sicuramente udibile in tutto il circondario, tanto ero frustrato. Un quesito mi tormentava. Se avessi impugnato la mia spada celtica ancora un volta, avrei potuto evitare tutto ciò? Avevo scelto di non essere più un guerriero e di seguire la via di Cristo e preservare la vita. Non lo avrei forse fatto meglio combattendo come sapevo fare?
Rimasi li a fissare quei piccoli cadaveri come fossi morto anch’io. Credetti di avere delle allucinazioni perché mi sembrò di sentire nell’aria il suono di un’arpa. Era sicuramente lo spirito di Kevin il bardo, che mi ricordava in modo crudele la scelta che ancora mi rifiutavo di fare.

-Ma tu avevi scelto. Avevi scelto di non essere più un guerriero-, mi fa notare Cristina.
-No. Non avevo ancora fatto nessuna scelta, in verità. Altrimenti non mi sarei torturato nel rimorso per non aver preso Uragano per difendere quella gente.-
-Un monaco non lo avrebbe fatto.-
-Io però sapevo combattere e avrei potuto salvarli tutti-, le rispondo torcendomi con forza le mani, come faccio sempre ripensando a quell’episodio.

Come inebetito e con lo sguardo vacuo, mi alzai in piedi e presi tra le braccia uno dei corpicini e lo portai fuori all’aperto. Lo portai fuori dalle mura del monastero, sul lato nord, dove c’era il nostro piccolo cimitero, e lo adagiai sull’erba. Tornai dentro e recuperai il corpo di un altro bambino e lo portai fuori, accanto al primo. E poi un altro ancora, e ancora. A metà pomeriggio avevo radunato sull’erba del cimitero i corpi di tutti gli abitanti di Grelòn morti e dei miei amici monaci. Iniziai a scavare delle fosse e continuai a farlo per tutta la notte, al lume di una torcia. Il mattino seguente, all’alba, il mio triste compito era terminato e passai il giorno intero a pregare per le anime di quei poveri sventurati… e per la mia. Invocavo il perdono, non di Gesù, ma della forza celeste che governava la mia vita. Il perdono per aver chiuso gli occhi ed aver abbandonato la via che era stata tracciata davanti a me, la via che mi avrebbe permesso di evitare quel massacro di innocenti.
Avevo trovato anche il tempo di ammassare i corpi dei pochi briganti morti al centro del cortile del monastero, e avevo dato loro fuoco. Nella mia nuova concezione di giusto e sbagliato non meritavano una sepoltura cristiana.
Verso il tramonto, mentre stavo ancora inginocchiato sulle tombe dei miei amici, mi giunse all’orecchio un rumore di ruote. Era una carrozza che viaggiava sulla strada poco lontana e portava le insegne della Chiesa di Roma. Si fermò proprio in corrispondenza del monastero devastato.
Ne scesero due uomini. Uno era un anziano monaco dalla veste bianca, completamente calvo, al cui collo era appesa una catenella d’argento che sorreggeva una croce fatta dello stesso materiale. L’altro uomo era alto, dal fisico robusto, sui quarant’anni, con folti capelli corvini e occhi neri come la notte. Era un ecclesiastico di rango, visto l’abbigliamento sfarzoso e la croce d’oro che risaltava sul suo petto. Mentre venivano verso di me, però, non vidi nei suoi occhi l’arroganza che aveva avuto il vescovo Sistiano.
-Cosa è capitato qui, fratello?- mi domandò il monaco calvo, mentre l’altro osservava gravemente il monastero devastato dal quale si levava ancora del fumo.
-Briganti-, riuscii solo a dire alzandomi in piedi a fatica. Le gambe mi facevano male per la lunga immobilità. –Sono l’unico superstite… purtroppo.-
-Purtroppo?- esclamò l’alto prelato puntando i suoi occhi neri su di me.
-Avrei potuto fare di più per salvare questa gente-, dissi piano.
-Se Cristo ti ha voluto salvare, un motivo deve esserci. Qual è il tuo nome?-
-Mi chiamo Khalàd di Uruk, ed ero il bibliotecario e il medico di questa piccola comunità.-
-Un segno del destino, signore-, esclamò sorpreso il monaco in bianco guardando il suo padrone.
-Così parrebbe, Egisto-, rispose l’altro.
-Fratello Khalàd. Sei al cospetto del vescovo Adriano, che sta viaggiando per le terre dei Franchi prima di recarsi a Roma dove sarà eletto Papa.-
-Vi auguro salute e un pontificato sereno, eccellenza-, mi limitai a dire.
-Sembri un uomo pratico, monaco Khalàd. Dimmi, mi accompagneresti nel mio viaggio e poi a Roma?-
-A quale scopo, se posso chiederlo, eccellenza?-
-Alla mia cerchia di aiutanti manca proprio uno scrivano. Conosci molte lingue?-
-Tutte quelle dell’Europa e anche molte delle terre straniere.-
-Eccellente. Accetti di accompagnarmi?-
-Non ho motivo di rifiutare, eccellenza-, risposi con un sospiro. –Qui il mio compito è terminato.-
-Allora vai a ripulirti e a raccogliere le tue cose. Fratello Egisto ti darà una veste nuova, come la sua. Sembri un uomo che ha visto molte cose. Sarà interessante ascoltare le tue storie durante il viaggio.-
-Come vostra eccellenza desidera.-
Naturalmente, il vescovo Adriano fu molto sorpreso quando mi vide tornare dal convento unicamente con una spada, il mio unico avere, ma non fece commenti. Rivestito di bianco, iniziai la mia avventura assieme ad uno degli uomini più carismatici che la storia ricordi, il futuro Papa Adriano I.

-Non fu il papa che riconobbe Carlo Magno come re dei Franchi?-
-Proprio lui. Un vero genio politico e un abile mediatore. Peccato sia morto prima di vedere la nascita del grande impero carolingio, il futuro Sacro Romano Impero.-
-Se non ricordo male, il suo successore, Leone III, non gli fu da meno-, mi fa notare mia nipote.
-Assolutamente. Leone fu allievo proprio di Papa Adriano e da lui ha acquisito molte doti e insegnamenti.-
-Cosa puoi mostrarmi di quegli anni, nonno?-
-Una cosa di poco valore, ma di grande significato-, le rispondo porgendole l’oggetto sul palmo della mia mano. –Il ricordo del mio più grande fallimento come uomo.-
Cristina prende in mano con delicatezza l’antica e semplice croce di legno che avevo portato al collo al monastero di Grelòn. Macchie scure la decoravano. Il sangue della piccola bambina che non ero stato in grado di proteggere.

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