lunedì 21 luglio 2008

10 - LE VIE DELL'ONORE

-Ci sono delle cose che non capisco, nonno-, afferma Cristina mentre riprendiamo la nostra discussione. –Hai detto che quando tentavi di rivelare il tuo segreto, la gente ti prendeva per pazzo, ma Caysia non lo ha fatto, e neppure Kevin, Gesù e il primo Tolomeo, a quanto dici.-
-Devi considerare il contesto della mia affermazione. Nel mondo antico me la sono sempre cavata con la storia dell’invecchiamento rallentato e, considerando che erano tempi in cui per gli Dei tutto era possibile, riuscii a farmi credere, anche se non dissi mai la verità sul mio conto. Caysia e Cassandra furono un caso a parte perché le nostre anime erano legate e quindi loro potevano vedere la verità per quella che era, anche grazie al dono della veggenza. Anche Kevin usò un potere simile. I druidi lo chiamavano la “Vista”, la capacità di scorgere cose che dovevano essere e di rivelare quelle nascoste. Tolomeo, in realtà, non mi ha mai creduto fino in fondo. Mi riteneva più invulnerabile che immortale perché nella sua concezione delle cose, come tutti coloro che vissero nel mondo antico, solo gli Dei erano immortali e io non ero una divinità. Infine Gesù. Anche lui, ovviamente, mi credette per quanto riguardava la capacità di guarigione. Per l’altro aspetto… non lo so. Non sono mai riuscito a capire bene cosa pensasse quell’uomo.-
-Ne parli come di un comune conoscente-, dice mia nipote sconvolta. –Era il Cristo!-
-Dobbiamo riprendere questa discussione teologica?- le domando con un mezzo sorriso.
-Meglio di no-, mi risponde alzando la mano per fermarmi. –Impazzirei cercando di seguire i tuoi ragionamenti. Piuttosto, spiegami come mai non mi hai raccontato nel dettaglio la tua storia con Lucius Artorius Castus, il condottiero a cui affidasti Excalibur.-
-Perché non successe nulla di particolarmente interessante, a parte la consegna della spada. Vedi, Cristina, io non ti sto raccontando la Storia del mondo, ti sto raccontando la mia storia. Ho fatto parte di molti eventi importanti, altri ne ho influenzati, altri ancora li ho visti accadere da spettatore, oppure ero da tutt’altra parte.-
-Capisco. E dove te ne andasti dopo aver dato a Castus la spada?-
-Presi la via dell’oriente.-

Come mi era capitato altre volte, sapevo di dover partire ma non dove andare. In queste occasioni, avere un seppur piccolo punto di riferimento si rivelò importante per me. Per prima cosa, quindi, tornai a Tiro, al mio deposito segreto, e vi lasciai la ciotola che mi aveva dato Giuseppe di Arimatea e i torques d’oro. Fino all’ultimo momento ero stato tentato di tenere addosso il mio ma poi pensai che un oggetto di tal valore poteva attirare troppo l’attenzione, se ostentato in pubblico, e io non gradivo esserne al centro. Rimasi qualche giorno per raccogliere un po’ di informazioni su quella parte di mondo. Dopo quasi duecento anni di Britannia, il caldo secco del medioriente era un toccasana per me. Mi faceva sentire a casa, per quanto potessi sentirmi a casa in un qualsiasi luogo.
L’impero romano scricchiolava e da più parti si vociferava che le selvagge tribù dell’est, in arrivo dalle terre oltre le montagne e le steppe ghiacciate, avessero messo gli occhi sulle terre confinanti del grande dominio, le meno presidiate. Il trono imperiale aveva cambiato in pochi anni diversi occupanti. Alla fine del II secolo d.c. cadde la dinastia degli Antonini che ebbe il suo massimo momento di gloria con Marco Aurelio, l’imperatore guerriero e filosofo. Gli era succeduto il figlio Commodo, un incapace appassionato di feste e combattimenti nell’arena. Si dice sia stato strangolato da un gladiatore mentre partecipava ad uno dei sanguinari eventi che tanto amava. Agli Antonini seguì la dinastia dei Severi, i cui imperatori si riproponevano di riportare Roma allo splendore passato. La via del declino era però già iniziata e, salvo qualche caso isolato, gli imperatori che succedettero a Commodo trascinarono l’impero fino alla sua caduta.
-L’impero è un luogo poco salutare per chi cerca di rifarsi una vita-, mi dicevano i tiriani quando chiedevo loro dove fosse il miglior posto per stabilirsi e lavorare. –Se cerchi lavoro, però, ci sono molte carovane in partenza per luoghi molto lontani e pericolosi. Se sai menare le mani e la spada non farai fatica a trovare un impiego.- Si finiva sempre a quello, pensai.
Andai nel quartiere dei mercanti alla ricerca di un carovaniere che fosse disposto ad assumermi. Mi meravigliai non poco di trovare ancora in piena attività il mio vecchio magazzino di conserve e birra. Tutti gli altri depositi avevano cambiato padrone e utilizzo da quando avevo lasciato Tiro, ma quello che avevo allestito io, per vendere i frutti della mia fabbrica, era ancora la.
Un odore pungente mi attirò verso il banco di un mercante piuttosto anziano che esponeva ceste cariche di erbe secche, polveri multicolori e sacchi contenenti bacche e altri prodotti di cui non conoscevo il nome.
-Ti interessano le mie spezie, straniero?- mi domandò l’uomo vedendo la mia attenzione posarsi sulle sue mercanzie.
-Non avevo mai visto spezie come queste-, commentai avvicinando il volto ad un sacchetto pieno di foglie secche nere, per annusarne meglio il profumo. Era un odore dolciastro, oleoso, che non avevo mai sentito. Non era sgradevole, solo molto insolito.
-E mai più ne vedrai. Provengono dall’oriente, da terre molto lontane e insidiose perché abitate da quelli che, chi ci è stato, definisce i migliori guerrieri del mondo.-
Drizzai subito le orecchie. –Cosa?! Del mondo?!-
-Certo, straniero. Del mondo. Non so come si chiamino quei luoghi ma, se ti interessa, mio fratello sta per partire per andare li. Puoi chiedere a lui.-
-E’ un carovaniere? Sto cercando ingaggio come guardia. Ho fatto questo lavoro molte volte e sono esperto.-
-Sei fortunato, straniero. Mio fratello Emerat sta proprio cercando uomini. Nessuno è disposto a seguirlo così lontano ed è costretto ad assoldare gente di quelle terre per viaggiare sicuro.-
-Dove lo trovo?- chiesi al vecchio mercante.
-Dietro questo fabbricato ci sono i suoi carri, ma attento. E’ sempre attorniato dagli uomini dell’oriente e sono combattenti fortissimi. Potrebbero crearti guai. Li riconoscerai perché hanno tutti gli occhi a mandorla.-
-Grazie dell’informazione, mercante-, gli dissi lanciandogli una moneta d’argento che prese al volo e si rigirò avidamente tra le mani.
Trovai i carri esattamente dove mi aveva detto e trovai anche gli uomini che li difendevano. Erano tre, di bassa statura e vestivano strani abiti che sembravano vesti per donne. Avevano capelli neri e lunghi come i miei che portavano raccolti in elaborate acconciature sulla testa. Tutto si sarebbe potuto dire di loro, tranne che fossero guerrieri. Invece, tutti e tre erano armati con strane, sottili e lunghe spade ricurve che portavano infilate alla fascia che tratteneva la veste in vita.
-Sto cercando il vostro padrone-, dissi ai tre che avevano già messo mano alla spada al solo vedermi.
-Perché cerchi?- mi chiese uno parlando a stento la mia lingua.
-La cosa non ti riguarda, uomo. Lo cerco e basta.-
-Buono, Okoa-, disse una voce da dentro un carro. –Ci penso io.- Uscì un uomo un po’ più giovane del mercante che mi aveva indirizzo li e venne verso di me. –Che vuoi da me, straniero?-
-Tuo fratello mi ha detto di venire da te per un lavoro. Sono una guardia carovaniera di esperienza.-
-Sei un po’ giovane per averne tanta-, mi fa notare l’uomo accigliandosi.
-Ho cominciato presto-, fu la mia risposta evasiva.
-Ad ogni modo noi partiamo domani per una terra molto lontana. Il viaggio sarà lungo e faticoso e staremo via molti mesi. Te la senti?- mi chiese il carovaniere.
-Non sarei qui altrimenti.-
-Bene. Questi sono Okoa, Kamui e Haitaro. Provengono dalla terra che chiamano “Sole Nascente” ed è proprio li che stiamo andando. Durante il viaggio ti insegneranno un po’ della loro lingua e gli usi del loro paese, per poterti muovere laggiù senza creare guai.-
-Non mi chiedi neppure delle referenze?- gli chiesi sorpreso.
-Non ne ho bisogno. Se sei un malintenzionato i miei tre amici ti ammazzeranno e ti lasceranno sulla strada e il problema sarà risolto. Ora vieni che parliamo della paga.-
I tre orientali, dopo essersi rilassai, mi guardarono inespressivi e fecero un inchino verso di me.
-Non badarci-, esclamò Emerat divertito. Quelli si inchinano a chiunque. E’ il loro modo di salutare e portare rispetto.- La cosa si faceva interessante e non vedevo l’ora di conoscerli meglio. Se davvero erano i guerrieri più forti del mondo…
Quando il mercante disse che il viaggio sarebbe stato lungo e faticoso non scherzava affatto perché sembrò non finire mai. Attraversammo la terra dei sarmati a nord e poi a est, verso le lande ghiacciate e le montagne più alte che avessi mai visto. Oltre a noi quattro guardie e al mercante Emerat, c’erano altri uomini che guidavano i carri e accudivano le bestie. Al nostro arrivo dall’altra parte del mondo, come lo definii una volta, ne avevamo perso la metà. I tre orientali si rivelarono più amichevoli di quanto immaginassi. Rotto il primo momento di diffidenza e silenzio si dimostrarono persone di buona compagnia e ben disposti ad insegnare e ad imparare. Non mi ci volle molto, come al solito, per apprendere i rudimenti della loro lingua ma più di tutto mi affascinava la loro cultura, il loro modo di intendere la vita. Si definivano “bushi”, chiamati più generalmente “samurai”, guerrieri servitori. Il loro status era rappresentato dalla spada che portavano al fianco, la “katana”, una lama solo in apparenza debole ma dal taglio micidiale e dalla resistenza fuori dal comune. Quando gliela mostrai, guardarono con poca ammirazione la celtica Uragano, ma quando feci loro vedere che poteva tagliare una roccia in due senza perdere il filo, i loro occhi si spalancarono e si dimostrarono subito molto interessati.
-Come mai vi siete messi a fare questo mestiere? E così lontano da casa per giunta-, chiesi una sera ad Haitaro.
-Per chi come noi non appartiene ad una famiglia prestigiosa la vita è dura. Nel nostro paese siamo considerati samurai di basso livello, nonostante la nostra abilità nel combattimento sia grande. Abbiamo quindi scelto di viaggiare e di non avere un padrone.-
-Un padrone?- domandai perplesso.
-Un samurai è un guerriero nato per seguire una via morale e le cause dei grandi uomini-, mi spiegò Okoa versandosi in una tazza di bronzo una bevanda calda, un infuso, che chiamavano tè. –Se un samurai non segue nessun signore viene quasi disprezzato ma, a parer nostro, non tutte le cause sono degne di essere abbracciate.-

-Ricordo che c’è una parola che definiva i samurai senza padrone-, mi dice Cristina accarezzandosi il mento per ricordare. –Mi pare che fossero chiamati “ronin”.-
-Esatto, Cristina. Non sapevo t’intendessi di cultura giapponese-, rispondo sorpreso.
-Sono molte le cose che non sai di me, nonno. Non frequento la palestra del centro per fare aerobica. Sono cintura marrone di Karate.-
-Non immaginavo ci fosse un’altra guerriera in famiglia-, la schernisco. Per tutta risposta mi fa una smorfia bambinesca, una di quelle che mi piacciono tanto.

Li vidi spesso allenarsi tra loro e, fin dalla prima volta, rimasi affascinato dall’eleganza dei movimenti e dalla precisione dei colpi che si scambiavano. Studiai attentamente la loro tecnica di spada e assimilai molte tecniche nuove. Non tutte si adattavano alla mia arma ma con pazienza e allenamento avrei sicuramente migliorato il mio stile personale. Ciò che mi sorprese di più fu, però, la loro abilità nel combattimento senza armi, a mani nude. Pugni e calci venivano portati con potenza sorprendente e anche bloccaggi e parate erano mosse assolutamente perfette, frutto di anni di duro allenamento. Chiamavano quell’arte “bujutsu” e Okoa mi spiegò che era l’arte marziale dei samurai. La perfezione era il loro fine ultimo, in qualsiasi cosa facessero.
Vedendo il mio morboso interesse per i loro allenamenti, Kamui, il più taciturno dei tre, mi invitò ad unirmi a loro.
-Se vuoi posso insegnarti qualche tecnica, visto che ci osservi con tanta attenzione-, mi disse l’uomo.
-Ne sarei onorato, Kamui. Non ho mai visto combattere in quel modo senza la spada. Conosco la lotta greco-romana ma il vostro bujutsu è davvero strabiliante.-
Fu così che, per tutto il resto del viaggio, i tre orientali, a turno, mi insegnarono alcune delle loro tecniche di lotta a mani nude. Mentre insegnavano, inoltre, mi spiegavano la filosofia e la storia dietro alla figura del samurai, per il quale l’onore era tutto. Condividevo ideali così nobili e mi domandavo se il loro paese fosse davvero la terra della rettitudine e della perfezione, dove i guerrieri si portavano il dovuto rispetto e dove la gente coltivava lo spirito al pari del proprio corpo.
Giungemmo nella terra dei Kinn, il dominio chiamato “Celeste Impero”, ma non ci fermammo quasi mai per timore di essere aggrediti dai briganti. Il nostro carico era di poco valore ma era comunque un carico e andava protetto.
-Un tempo, molti secoli fa, il popolo del Sole Nascente apparteneva alla razza Kinn, da cui si staccò per andare a vivere nelle isole che ora sono la nostra patria-, mi spiegò Haitaro, il più acculturato dei tre. –Nell’apparente isolamento, la nostra cultura si è sviluppata molto più rapidamente di quella Kinn e così ci siamo trasformati in una razza superiore, superiore a tutte le altre presenti in questa parte di mondo.-
Era un’affermazione arrogante ma non ci badai. Non conoscevo ancora il suo popolo per decidere se avesse ragione oppure no.
Attraversammo regioni aride dove il sole spaccava la terra di giorno e il gelo la raffreddava di notte. Nei pochi abitati che attraversavamo, gli abitanti ci guardavano passare senza interesse, evidentemente abituati alle carovane in transito. Giungemmo infine al mare, in un piccolo porto da dove alcune navi, poco più che chiatte, salpavano per la terra dei samurai. Caricate le nostre merci salimmo sulla nave del capitano che solitamente traghettava il mio datore di lavoro e facemmo vela verso l’oriente più estremo. Una brutta sorpresa, tuttavia, ci aspettava appena toccata terra, tre giorni dopo. Appena la notizia del nostro arrivo si sparse per la piccola cittadina portuale in cui attraccammo, sul molo comparvero una decina di uomini armati di spada. Uno di essi mostrò una tavoletta di legno nero con su impresso un simbolo, un ideogramma, un segno di scrittura simile per significato ai geroglifici egiziani. L’uomo si presentò come un ufficiale imperiale al servizio del governatore di quella regione. Cercava i tre ronin che viaggiavano con me.
-Se non volete la confisca delle merci e l’arresto immediato, consegnateci questi tre fuggiaschi-, parlò al mercante l’ufficiale imperiale in tono minaccioso, indicando i tre samurai che subito misero mano alle spade. –Sono tre assassini! Hanno ucciso un parente del governatore!-
-Lui e i suoi amici ci hanno sfidato! Hanno avuto quello che si meritavano!- esclamò Okoa indignato per l’accusa.
-Silenzio!-, gli intimò il capo delle guardie. –Nonostante siate ronin vi verrà concesso di commettere il rito del suicidio e di togliervi la vita, ma dovete arrendervi subito!-
-Questi uomini scortano solo le mie merci, signore-, disse Emerat. –Non mi appartengono. Fate di loro ciò che volete. A me non interessa.-
Meravigliato, stavo per farmi avanti ma la forte mano del mercante mi prese per un braccio stringendo forte. Fece un impercettibile segno di diniego con la testa. Mi calmai e rimasi a guardare. Una gran folla si era radunata nei pressi del molo. Tutti volevano vedere ciò che accadeva.
-Non ci avrai vivi!- urlò Kamui estraendo la sua katana. –Non abbiamo fatto niente!- Partì all’attacco, seguito dai suoi due compagni e un istante dopo le guardie samurai gli andarono incontro. Non ci volle molto perché li accerchiassero.
-Lasciami andare ad aiutarli-, supplicai il mercante.
-No. Sarà quel che sarà. Se interveniamo, non potrò più mettere piede qui e sarò rovinato. Io non chiedo nulla agli uomini che assumo ma di contro non rischio la mia attività per loro. Queste sono le mie regole e ti consiglio di startene buono anche tu. Non ne vale la pena. E’ una questione tra samurai e se ci intromettiamo sarà considerata un’offesa perché ci ritengono inferiori, indegni di batterci con loro.-
-Che stupidaggine!-, esclamai adirato.
-Qui funziona così. Adeguati. L’onore su tutto.-
Okoa, Kamui e Haitaro, dopo aver tentato qualche mossa a sorpresa e aver ferito alcuni dei loro avversari, capirono che era impossibile vincere quello scontro e abbassarono le armi, porgendole poi alle guardie in segno di resa.
-Ora assisterai a qualcosa che non vedrai in nessun altro luogo-, mi avvisò il mercante serio. –Peccato. Erano ottime guardie.-
-Erano?!- Mi fece segno di tacere.
Deposte le armi, i tre ronin si inginocchiarono e le guardie si fecero indietro. Ad un cenno dell’ufficiale, tre di loro vennero avanti e si posizionarono con le spade sguainate al fianco dei tre prigionieri che, nel frattempo, avevano estratto i loro lunghi coltelli e si erano denudati il ventre. Prima che potessi comprendere cosa stava succedendo, i tre si piantarono i coltelli nella pancia e un attimo dopo venne loro mozzata la testa dalle guardie.
-Ma è…-, iniziai, ma non sapevo esattamente cosa dire.
-Un samurai che viene sconfitto è disonorato e può lavare via l’onta solo suicidandosi, facendo “hara kiri”, come lo chiamano qui.-
-Pensavo di iniziare a comprendere un po’ la loro cultura, la loro filosofia. In verità non so nulla di loro.-
-E’ impossibile comprenderli. L’oriente è troppo complesso per noi. Accettiamolo per quello che è e cerchiamo di non offenderli. Sono molto suscettibili a riguardo.-
-Che faremo ora?-
-Procederemo con la nostra missione. Venderemo il carico e compreremo spezie da riportare a Tiro. Hai alcuni giorni liberi. Se non ti ripresenti parto senza di te. Eccoti la paga pattuita per la prima metà del viaggio-, mi disse il tiriano consegnandomi un sacchetto di tela tintinnante. Era pieno di pezzi d’argento.
Attendemmo che il molo fosse libero poi scaricammo il carico. Gli inservienti dell’ufficiale imperiale avevano portato via i cadaveri dei miei tre compagni. Ora di loro rimanevano solo delle macchie di sangue sullo scuro legno del molo. I tre ronin mi avevano parlato di onore ma quella, a mio avviso, era stata pura e semplice vendetta. Forse, la terra del Sole Nascente non era così diversa dal resto del mondo, eppure volevo rimanere e conoscerla meglio. Sapevo già che non sarei tornato da Emerat perché era mia intenzione visitare quei luoghi e apprenderne la cultura. Se davvero li vivevano i migliori guerrieri del mondo, io dovevo assolutamente incontrarli. Non sapendo dove andare, non sapendo leggere le poche indicazioni ai crocevia delle strade e parlando a malapena la lingua, presi la prima strada che trovai e la seguii. Sembrava dovesse portare ad un villaggio, o ad una città.

-Il Giappone di quei secoli non era ancora il paese socialmente evoluto che sarebbe divenuto nel tardo Medioevo, nel periodo dei grandi shogunati-, mi fa notare Cristina.
-Non ancora ma, come aveva detto Haitaro, la società e la cultura giapponese si svilupparono in fretta. Io giunsi li tra due periodi fondamentali della Storia di quella terra, il periodo “Yayoi” e quello “Kutun”, famoso per l’edificazione dei grandi tumuli funerari.-
-Che cosa cercavi esattamente in Giappone?-
-Mi posi la stessa domanda poco prima di arrivarci. Ero partito con quella carovana solo con l’intenzione di visitare un luogo lontano dove non ero mai stato, ma dopo aver parlato con i tre samurai capii che forse li avrei trovato la via del guerriero perfetto. Stavo, in definitiva, scegliendo cosa essere, come aveva detto Kevin il bardo. Sarei stato un guerriero e avrei cercato, in ogni modo possibile, di diventare più forte e completo.-
-Vi riuscisti nel Sol Levante?-
-No. Ma vi trovai nuovi e importanti insegnamenti.-

Ero arrivato nel Sole Nascente il mattino presto e avevo camminato solitario per quasi tutto il giorno. A metà del pomeriggio giunsi in un villaggio di contadini. Era povero ma piuttosto esteso e contava anche un piccolo mercato. La gente mi guardava incuriosita. Evidentemente, anche se erano abituati a veder passare i mercanti occidentali, non avevano mai visto un viandante solo come me e dalla pelle scura. Stavo per chiedere se c’era un locanda, o un altro luogo dove ottenere ospitalità per la notte, quando mi accorsi di un fatto curioso. Un gruppetto di uomini armati, samurai forse, stava seguendo con insistenza un uomo che teneva per mano un bambinetto di cinque o sei anni al massimo. L’uomo era più alto della media degli abitanti di quel luogo e indossava una specie di tunica di tela marrone che non gli arrivava neppure alle ginocchia. Ai piedi indossava, come molti dei contadini che avevo intorno, delle calzature piuttosto insolite, una suola di paglia intrecciata che si allacciava al piede attraverso dei sottili cordini. Le braccia erano seminude e contavano, se così si può dire, i ricami di diverse cicatrici, come pure lo era la faccia. Lasciai perdere la mia intenzione di pernottare e istintivamente seguii anch’io la strana scena. L’uomo si era accorto di essere seguito ma lo nascondeva bene. Seguii l’insolito gruppo fuori del villaggio, nel folto di un boschetto di alberi che nascondevano alla vista l’abitato. A quel punto, gli inseguitori, che non avevano fatto più nulla per tentare di nascondersi, sguainarono le spade e circondarono i due viandanti. Lo sconosciuto era armato solo di un lungo coltello e aveva spinto il bambino, probabilmente suo figlio vista la somiglianza, contro il tronco di un albero, per impedire che fosse preso alle spalle.
-Pensavi che non ti avessimo riconosciuto? Noi samurai sappiamo distinguere quelli come te quando li vediamo-, esclamò minaccioso uno dei dieci aggressori. Mi stupii scoprendo che erano proprio dei samurai. In dieci contro uno e con un bambino di mezzo. Era un atteggiamento molto lontano da quello descrittomi dai tre ronin con cui avevo viaggiato.
L’uomo non disse nulla ma d’improvviso sollevò con la punta del piede un po’ di terra secca e fogliame, scagliandoli contro uno degli aggressori. Con una velocità impressionante, seguì la nuvola di polvere e fu addosso al samurai prima ancora che questo capisse cosa gli stesse succedendo. Gli piantò il coltello sotto il mento e senza neppure lasciarla cadere afferrò la katana del morente. Ora gli altri samurai erano più guardinghi e l’uomo con le cicatrici ne approfittò. Con movimenti rapidi e secchi abbatté altri tre uomini, combinando la potenza della katana con la maneggevolezza e la velocità del coltello. Altri tre gli furono addosso impegnandolo in una serie di attacchi e parate estenuanti. Il bambino, intanto, era rimasto addossato all’albero ma ora si stava muovendo perché gli altri tre guerrieri avanzavano verso di lui. Era spaventato a morte.
-Uccidiamolo ora!- gridò uno dei tre ai compagni. –Così non ne crescerà un altro di quei bastardi!-
-Izumo!- gridò suo padre accorgendosi del pericolo.
Non potei più stare a guardare. Con gli spiriti animali che mi dominavano, saltai fuori dal mio nascondiglio e sguainai Uragano. Mi parai tra il bambino e i suoi assalitori, pronto a combattere. Adottai la stessa tecnica del padre del bambino. Approfittai del loro sgomento per assalirli per primo. Il canto di morte della mia spada non tardò a farsi sentire e quello che aveva istigato i compagni ad uccidere il bambino cadde a terra morto, tagliato in due. Rimanevano in tutto quattro samurai in un rapporto accettabile di due a uno. Ancora una volta quegli uomini si fecero sorprendere e in pochi minuti rimanemmo solo io, l’uomo con le cicatrici e suo figlio.
-Ti ringrazio, straniero. Hai salvato la vita di mio figlio-, mi disse l’uomo gettando la katana accanto ad un cadavere e rinfoderando il coltello.
-Non era affare mio ma non avrei mai permesso che si facesse del male ad un bambino.-
-Io sono Hodai Kanoshi e questo è mio figlio Izumo. Veniamo dalla regione di Iga-, si presentò l’uomo.
-Il mio nome è Khalàd e provengo da una terra lontana a occidente, ben oltre l’impero dei Kinn.-

-Iga?- mi domanda perplessa Cristina. -Ricordo che il mio maestro mi ha detto qualcosa su quella regione del Giappone.-
-Immagino l’abbia associata alla regione di Koga-, ipotizzo io annuendo. –Sono i luoghi dove si è sviluppata una delle più micidiali arti marziali, il Ninjutsu.-
-Kanoshi era un ninja?!-

-Sei lontano da casa, Khalàd. Cosa ti porta nel mio paese?- mi domandò Kanoshi.
-Il desiderio di vedere terre lontane e di imparare cose nuove sulla via del guerriero-, affermai sicuro. –Ho sentito dire che i più grandi guerrieri del mondo vivono in questa terra.-
-Ti hanno informato male allora-, rispose l’uomo quasi ridendo. –Ma avremo tempo per parlarne. Posso avere l’onore di ospitarti nella mia casa? Non è vicina ma se vorrai viaggiare con noi in un paio di giorni ci arriveremo.-
-Non ho altro da fare. Accetto con piacere il tuo invito.-
-Ne sono onorato-, mi rispose inchinandosi. Quel gesto mi metteva a disagio eppure era il loro modo di dimostrare rispetto.
Tornammo sulla strada principale ma la abbandonammo presto per inoltrarci tra le montagne. Quella sera ci accampammo in un piccolo spiazzo erboso all’interno del bosco. Era autunno inoltrato e l’aria fredda della sera gelava le ossa. Accendemmo un piccolo fuoco che riparammo dal vento con dei grossi sassi. Ognuno di noi aveva un po’ di cibo nelle proprie borse così non restammo a stomaco vuoto e, dopo aver cenato, avvolti nelle coperte, ci fu il tempo di parlare un po’.
-Immagino che con i grandi guerrieri tu intenda i samurai-, commentò Kanòshi tornando sull’argomento.
-Ne ho conosciuti tre mentre venivo qui. Sono stati uccisi al molo dove siamo arrivati. Sembra avessero pestato i piedi al signore locale uccidendogli un parente.-
-Si, mi pare di aver sentito questa storia. Ad ogni modo, che ne pensi di loro?-
-Sono molto perplesso. Quei tre avevano dei principi, degli ideali che in gran parte condivido, ma dopo aver visto come dieci di loro ti hanno aggredito, e come erano pronti ad uccidere un bambino… beh, non so che pensare.-
-Hai avuto un assaggio della vera essenza dei samurai. Idealisti a parole e spietati e sanguinari nei fatti. Non sono tutti così, intendiamoci. Alcuni di loro perseguono la via della rettitudine con sincerità ma sono anche quelli che muoiono per primi.- C’era un evidente disprezzo nelle sue parole.
-Perché ti volevano uccidere?- domandai a Kanoshi.
-Perché io e quelli come me rappresentiamo la nemesi del samurai, il loro opposto oscuro.-
-Dei samurai neri?- ipotizzai.
-Se vuoi vederla così. Immagino che nessuno ti abbia parlato dell’altro tipo di guerrieri di questo paese, di coloro che praticano l’”Arte Silenziosa”.-
-Effettivamente no-, risposi.
-E nessuno lo farà mai. La famiglia Hidai, come molte altre nella mia regione, è una famiglia di “shinobi”, noti più comunemente come “ninja”. Pratichiamo innumerevoli tecniche marziali, con e senza armi, lo spionaggio e l’assassinio e ci mettiamo al servizio del miglior offerente.-
-Detto così la vostra attività familiare sembra qualcosa di assolutamente disdicevole. Immagino ci sia un “ma”.-
Kanoshi mi guardò con rinnovata ammirazione. –Sei il primo uomo che incontro che non ci giudica al primo impatto e questo ti fa onore. C’è sempre un “ma”, Khalàd. Secondo te, chi sono coloro che ci assoldano?-
-Non ne ho idea. Non so neppure come sia organizzata la vostra società.-
-Nella regione di Yamato c’è una famiglia più potente delle altre che sta lentamente imponendo il suo dominio su tutto il paese e già si fanno chiamare imperatori. Tuttavia, questa terra è principalmente in mano a piccoli signori della guerra, i “daimiyo”. Sono capi di famiglie di samurai e sono loro ad assoldarci.-
-I samurai vi pagano per spiare ed uccidere?!- domandai incredulo.
-E’ il paradosso della loro filosofia. Disprezzano noi ninja per il modo in cui combattiamo e operiamo e poi ci assoldano per fare il lavoro sporco. Quando i samurai catturano un ninja si divertono a torturarlo atrocemente prima di ucciderlo e magari il giorno prima lo hanno pagato per eliminare un loro nemico.-
-E’ assolutamente vergognoso.-
-E’ la terra del Sole Nascente-, concluse Kanoshi rimboccando la coperta al figlioletto addormentato, come se quelle parole spiegassero tutto.

-Torturati atrocemente?- ripete mia nipote pensando di non aver inteso.
-Si-, rispondo serio. –Ho visto solo una volta l’esecuzione di alcuni ninja da parte dei samurai ma spero di non vedere più una tale brutalità.-
-Che vuoi dire? Erano tempi violenti, lo hai detto tu stesso.-
-C’è differenza tra violenza e sadismo. I ninja venivano torturati nei modi più crudeli prima di essere uccisi, a meno che non perissero per le sofferenze. Era usanza bollirli vivi, oppure strappare loro la pelle un pezzo alla volta. Altri venivano impalati nudi sopra delle acuminate canne di bambù che li trafiggevano attraverso l’ano…-
-Basta per favore, nonno! Ho sentito abbastanza!- mi intima lei con un filo di voce.
-Era questo il motivo del sarcasmo nelle parole di Kanoshi.-

Le famiglie del Sole Nascente erano nuclei di tipo patriarcale, dove un anziano reggeva le redini del gruppo che viveva tutto in una stessa, grande abitazione. Quella della famiglia Hidai era situata nelle foreste di Iga, ai piedi di una collina boscosa che la nascondeva alla vista di chiunque passasse dalle strade principali. Il padre di Kanoshi, il capo della famiglia, era molto anziano e malato e, seppure mantenesse il titolo di capo e “jonin”, maestro di Ninjutsu, aveva passato di fatto ogni potere a suo figlio. La casa era una piccola tenuta composta da diversi edifici, la maggior parte dei quali destinati a magazzino o stalla. La costruzione più lontana dalla casa principale era quello che Kanoshi chiamava il “dojo”, il luogo dove si insegnavano le arti marziali e dove ci si allenava. Quella più vicina era, invece, un piccolo tempio dove si rendeva omaggio alle forze della natura e agli Dei che le governavano. Come già avevo notato nei pochi giorni in cui mi trovavo in quella terra, le case più povere erano costruite con legno e paglia mentre quelle migliori, come la casa della famiglia Hidai, avevano le fondamenta in solida pietra e solo i piani superiori e il tetto erano in legno, riccamente modellato nell’elaborata architettura che caratterizzava quella cultura.
La famiglia Hidai, oltre ai genitori del mio amico e alla sua stessa famiglia, era composta da altri quattro nuclei familiari, parenti diretti od acquisiti, che avevano scelto di praticare la via dell’ombra. Si trattava principalmente dei fratelli e dei cugini di Kanoshi, una trentina di persone in tutto.
-Puoi restare qui quanto vuoi, amico mio. La mia casa è la tua-, mi disse Kanoshi dopo avermi mostrato la casa e presentato i membri della sua famiglia.
-Vacci piano, Kanoshi. Neppure mi conosci.-
-E’ vero, ma noi ninja abbiamo una capacità che i samurai non hanno. Mentre loro sono egocentrici e, per certi versi, ciechi alla realtà che li circonda, noi siamo aperti al mondo e il mondo si apre a noi. Io non vedo malvagità o inganno in te.-
-C’è molto più di quello che immagini in me, Kanoshi.-
-Ognuno ha i suoi segreti, Khalàd, ma se vorrai imparare ciò che posso insegnarti, visto che sei venuto per questo, sarò felice di farlo.-
-E io sarò onorato di imparare da te, Hidai Kanoshi-, risposi grato di quella disponibilità. Mi inchinai come avevo visto fare molte volte in quella terra, in segno di rispetto per il mio nuovo mentore, anche se non sapevo ancora che cosa potevo apprendere da un ninja. –Tuttavia-, continuai, -Ho imparato da tempo che una comunità sopravvive se tutti i membri che ne fanno parte collaborano al benessere generale. Quindi anche io, se vorrai accettarlo, ti insegnerò la conoscenza che porto con me dal mondo occidentale.-
-E io ne sarò onorato-, mi rispose ridendo il capo della famiglia Hidai.-

-I giapponesi erano già una cultura molto avanzata rispetto alla nostra. Cosa potevi insegnargli?- mi chiede Cristina con una vena di superficialità.
-Io giunsi in Giappone tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.c. La loro civiltà era agli albori tanto quanto la nostra, forse più arretrata. Fu, per esempio, solo in quel periodo che si iniziò a coltivare il riso e a ricavarne i derivati che ora fanno parte della tradizione del Sol Levante.-
-E tu cosa avevi da offrire loro?-
-Principalmente metodi di conservazione del cibo, visto il loro clima molto umido. Come già avevo fatto in Britannia, trasmisi loro le mie conoscenze in campo alimentare, anche se le materie prime erano molto diverse da quelle del bacino mediterraneo.-
-Ti insegnò il Ninjutsu?-

La mia collaborazione con la famiglia Hidai mi fece ben presto considerare quasi come un appartenente alla famiglia stessa, nonostante non rimasi moltissimo tempo come in altri luoghi. Nacque anche un interesse reciproco per le differenti tecniche di scherma, visto che il combattimento con la spada era la specialità della scuola di arti marziali degli Hidai, oltre alle tecniche senza armi, ovviamente. Nonostante l’arte della spada, il “Kenjutsu”, fosse uguale sia per i samurai che per i ninja, notai come in quella scuola si utilizzasse una spada diversa dalla katana.
-Questo tipo di spada si chiama “shinobi to”, o “ninja to”-, mi spiegò Kanoshi soddisfacendo la mia curiosità e presentandomi la sua spada. La qualità della forgiatura e dell’affilatura erano superbe come in tutte le spade di quella terra, ma la lama era un po’ più corta e dritta. L’elsa, infine, non era tonda, come nelle spade samurai, ma quadrata con spigoli netti che potevano essere anche usati per colpire l’avversario.
-Per quale motivo una simile trasformazione della katana?- domandai.
-Noi ninja non amiamo i duelli lenti e lunghi. Preferiamo colpire rapidamente e scomparire. Per questo avevamo bisogno di un’arma in grado di essere più veloce della spada samurai e il nostro mastro fabbro, Shosuke, ha creato questa. Da alcuni anni sto sviluppando nuove tecniche di combattimento che sfruttino al meglio le caratteristiche di quest’arma-, mi rivelò infine il jonin. –Ma anche la tua spada, a quanto ho visto, è fuori dal comune.-
Estrassi Uragano e gliela porsi. –E’ una spada forgiata in Britannia con un pezzo di metallo caduto dal cielo. Il suo potere distruttivo è enorme.-
-Nessuna spada può competere con quelle di questo paese-, affermò sicuro Kanoshi con una vena di orgoglio.-
-Non lo metto in dubbio ma la mia e un’altra spada britanna fanno eccezione.- Mi guardai intorno per trovare un bersaglio adatto per una prova. Lo identificai in un masso poco lontano. –Le vostre spade possono tagliare la roccia senza rovinarsi il filo?-
-E’ pura immaginazione…- stava per dire il ninja ma si bloccò con la bocca aperta quando calai la mia spada celtica sul masso e lo tagliai in due di netto. Gli mostrai il filo di Uragano ancora intatto e lui richiuse la bocca.
-Mai vista una cosa simile-, esclamò ancora sconvolto, senza staccare gli occhi dalla spada.
-E mai più la vedrai. E’ un’arma potente ma, osservando i vostri allenamenti, mi sono accorto di una cosa.-
-Lo so, Khalàd. Non è adatta a praticare il nostro stile di combattimento. L’impugnatura è troppo corta e l’elsa troppo larga. In più, il doppio taglio della lama non ti permette di utilizzare al meglio le tecniche di parata.-
-Hai centrato il problema ma c’è di più. Questa spada è stata già riforgiata altre volte, dai migliori artigiani delle terre d’occidente. Tuttavia credo che questa non sia ancora la sua forma definitiva. Non la sento… come dire… mia!-
Kanoshi ci riflettè un attimo poi parlò. –Forse comprendo ciò che vuoi dire. Nel Sole Nascente diciamo che il guerriero deve essere un tutt’uno con la sua spada, altrimenti per quanto sia potente la sua arma, sarà sempre disarmato. Parla di ciò con Shosuke. Forse lui ti potrà dire di più.-
-Lo farò, amico. Vorrei comunque provare ad allenarmi come fate voi, con i bastoni. Forse un giorno la mia spada diverrà adatta alle tecniche del Sole Nascente e allora…-
-Naturalmente, ma prima avremo da fare dell’altro. Abbiamo una festa da organizzare.-
-Una festa?-
-Si. Per la promessa di matrimonio di mio figlio Izumo con la figlia del capo di una famiglia vicina, gli Atori. Il giorno delle loro nozze, tra alcuni anni, le nostre famiglie e le nostre scuole di Ninjutsu si uniranno e sarà adottato persino un nuovo nome.-

-Un nuovo nome?- mi chiede Cristina confusa.
-I cognomi giapponesi non sono così legati alla discendenza come nell’occidente. Soprattutto in passato, una famiglia poteva decidere di cambiare nome per identificarsi in modo differente, oppure per legarsi ad un particolare evento. Gli Hidai e gli Atori si sarebbero uniti per diventare il più grande e potente clan di ninja della regione di Iga, gli Hattori, che ebbero il loro massimo campione in Hattori Hanzo, un grandissimo maestro di spada ninja, discendente diretto di Kanoshi.-

Con la festa per la promessa di nozze di Hidai Izumo e Atori Kumio, ebbi modo di capire meglio le usanze di quel paese, molto legato al suo passato ma sempre tendente al rapido progresso, una caratteristica che il Giappone mantiene anche ai giorni nostri. Il rito al tempio fu il primo passo della festa che sarebbe durata dal mattino presto, quando la Dea solare Amerasu avrebbe rivolto il suo sguardo sul monto, fino al calar del sole, quando la divinità sarebbe tornata al suo sonno notturno. Naturalmente, la festa sarebbe continuata fino a tarda notte ma in modo più intimo e misurato.
Dopo il rito al tempio, i due promessi sposi, vestiti entrambi con abiti sgargianti e riccamente decorati, furono fatti sedere ai posti d’onore del grande tavolo allestito nel cortile della casa degli Hidai. Compresi gli Atori, c’erano quasi un centinaio di persone a fare festa quel giorno e cibo e bevande inebrianti furono servite in gran quantità. Verso la metà del giorno, i due jonin ninja, Hidai Kanoshi e Atori Goro, di fronte alle due famiglie in silenzio, si scambiarono la loro promessa di unire le due famiglie in un unico grande clan.
La festa proseguì fino a sera con molto cibo, danze, dimostrazioni di forza e di abilità. Se gli Hidai erano formidabili spadaccini, gli Atori erano insuperabili nell’uso delle armi da lancio come pugnali, frecce di metallo e soprattutto dischi di ferro dalle svariate forme e dalle punte acuminate. Osservai con ammirazione ognuna di quelle dimostrazioni, immaginando quale utilità potessero avere nelle loro missioni di spionaggio e di assassinio e non mi accorgevo che, grazie alla mia innata capacità di apprendimento, stavo praticamente acquisendo anch’io le loro spaciali abilità.
Ebbi la prova di ciò alcuni giorni dopo la festa, quando Kanoshi mi invitò nel dojo per allenarci con i bastoni. Enorme fu la sua sorpresa quando, dopo pochi scambi di colpi, si accorse che, sebbene non fossi abile quanto lui in quelle tecniche, ero in grado di praticarle tutte.
-La rapidità con cui impari è sorprendente, Khalàd. Devi solo fare un po’ di pratica ma non credo di avere più nulla da insegnarti sul Kenjutsu.-
-Ho molto da imparare, invece-, risposi perplesso guardando il bastone che tenevo in mano. –Soprattutto voglio capire come fai a studiare le nuove tecniche per la spada ninja partendo da quelle per la katana.-
-Ho capito. Vuoi fare lo stesso per la tua spada-, esclamò il jonin annuendo. –E sia. Ma ora mettiamo giù le spade e cominciamo un altro tipo di allenamento.- Furono le ultime parole che sentii prima che un suo potente pugno, piazzato in pieno stomaco, mi facesse crollare a terra svenuto.
Quando mi rialzai, alcuni minuti più tardi, mi sentivo come se un albero mi fosse caduto addosso. –E’ il primo spiacevole effetto, amico mio, ma poi passa-, sentii dire alla voce di Kanoshi.
-Perché quel colpo?- domandai rialzandomi barcollante.
-Per farti capire l’efficacia di ciò che ti sto per insegnare. Ho visto che hai già imparato molto sul “Taijutsu”, l’arte marziale senza armi dei ninja, ma ti manca un insegnamento fondamentale, l’ “Atemijutsu”, l’arte dei colpi.-
-Che sarebbe?-
-Sarebbe la conoscenza dei punti deboli del corpo umano e il modo di colpirli. Anche disarmato contro molti avversari, grazie a quest’arte un ninja può aumentare di molto le sue possibilità di sopravvivenza.-
-Cominciamo, allora. Se quello che mi hai fatto è solo il preludio, allora credo che l’Atemijutsu mi sarà davvero utile.-

-Quindi tu saresti praticamente un ninja, nonno?- mi chiede dubbiosa Cristina.
-Neanche per idea. Conosco molte tecniche di Ninjutsu, questo è vero, ma non sono un ninja. Me ne andai dal Giappone con molti insegnamenti, e non solo sulle arti marziali, ma non tutte le tecniche di combattimento erano adatte a me e ai miei scopi, quindi le scartai a favore di altre.-
-E che facesti?-
-Perché devo sempre predicare la pazienza con te, bambina mia?-

Shosuke era il maestro fabbro della famiglia Hidai da molti anni. Non era imparentato con loro ma un’amicizia molto forte lo legava al vecchio capofamiglia, il padre di Kanoshi. Era anziano ma il suo corpo era ancora vigoroso, come quello di molti fabbri che avevo conosciuto in passato. Mandava avanti la fucina assieme ad un’aiutante e discepolo. Mentre esaminava la mia spada il suo sguardo era duro, segno di grande concentrazione.
-Un’arma notevole-, commentò infine restituendomi Uragano. –Molto diversa dalle nostre spade.-
-Kanoshi mi ha detto che tu puoi spiegarmi perché, nonostante sia una spada potentissima, non la sento del tutto mia. Non era mai capitato in precedenza, quando la sua forma era imperfetta.-
-E’ la consapevolezza che questa spada è vicina alla sua perfezione, che può finalmente diventare parte di te.-
-E come può fare questo?- domandai senza comprendere.
-Dovrà essere riforgiata un’ultima volta, naturalmente, ma non ora. A quanto vedo non hai ancora ben chiaro cosa ti aspetti dalla tua arma. Quando lo saprai, allora saprai anche come renderla finalmente immortale.- Definizione azzeccata, pensai.
-C’è un problema. Ho vagato molto per trovare gli artigiani migliori capaci di lavorare questo metallo stellare. Potrei non trovarne un altro all’altezza.-
-C’è sempre un fabbro capace di forgiare una grande spada. Al momento opportuno apparirà, ma se vuoi davvero fare di quest’arma qualcosa di speciale, sarai tu a doverla ricreare.-
-Io?! Io non sono un fabbro!-
-Potresti diventarlo-, affermò Shosuke sorridendo. –Il maestro Kanoshi ti tiene in gran considerazione e uno dei rimedi di guarigione che hai portato dall’occidente ha guarito mia figlia e mio nipote da una brutta malattia che rischiava di ucciderli.- Si riferiva ad una mistura d’erbe che, assunte tramite un infuso, aveva proprietà curative contro le infezioni, una ricetta che avevo imparato dai druidi della Britannia. –Se vorrai, sarò onorato di insegnarti come riforgiare la tua spada, in modo che saprai farlo da solo quando verrà il momento.-
-L’onore sarebbe mio, ma sei sicuro di volermi insegnare i tuoi segreti? Vivendo qui ho imparato che l’arte di creare spade è quasi un rito religioso e sono cose che si custodiscono gelosamente-, dissi io per sgombrare il campo da ogni equivoco. Ovviamente bramavo quella conoscenza con tutto me stesso.
-Hai ragione. Un tempo la sapienza necessaria per creare le spade del Sole Nascente era custodita da fabbri-sacerdoti, al pari dell’arte silenziosa dei ninja. Sapevi che in origine i primi combattenti-ombra erano monaci eremiti?-
-Kanoshi me ne ha parlato. Ma la mia domanda non cambia. Sei sicuro di volermi trasmettere le tue conoscenze?-
-La vita di un figlio e di un nipote valgono di più di questo. Se poi Kanoshi si fida di te allora posso farlo anch’io. Il suo giudizio è sempre stato guidato dagli Dei.-
Iniziarono per me anni lunghi e faticosi ma ricchi di soddisfazioni, divisi tra l’addestramento nelle arti del combattimento ninja e il lavoro in fucina. Shosuke era un maestro esigente e più volte mi riprese duramente per errori che a me sembravano insignificanti. “Perfezione” era la parola che dominava la cultura di quel paese. Dopo dieci anni di permanenza presso gli Hidai, oramai diventati Hattori dopo il matrimonio di Izumo, ero praticamente in grado di forgiare qualsiasi tipo di spada. Conoscevo tecniche, temperature e metodologie per lavorare tutti i tipi di metalli e anche molte nozioni di arte decorativa non mi erano sconosciute. Per quanto riguarda il combattimento, ero diventato un guerriero più completo assimilando alla perfezione il Taijutsu e l’Atemijutsu, dimostrando anche ottime attitudini per le tecniche di movimento dei ninja, aiutato soprattutto dagli spiriti animali che potevo evocare quando volevo. Con un po’ di teatralità, riuscii a spiegare il fatto che non invecchiavo un mattino in cui mi feci investire dai primi raggi dell’alba. Li assorbii e atterrai una ventina di ninja senza sforzo. Fu subito chiaro che ero un protetto della Dea solare Amerasu e questo chiuse la questione e mi fece elevare ancora di più nel rispetto della famiglia.

-Uno sporco trucco-, commenta mia nipote un po’ acida.
-Degno di un ninja-, rispondo ridendo. –L’inganno era una parte fondamentale dell’addestramento di un guerriero silenzioso.-
-Ma l’onore…-
-Il senso dell’onore dei ninja non era quello idealista dei samurai. Lo scopo, la missione era il loro fine ultimo ed erano disposti a morire pur di raggiungere il proprio obiettivo. L’onore di un ninja era portare a termine la missione affidatagli, ad ogni costo.-
-Anche a costo della vita?-
-Si. Fu Kanoshi a mostrarmi cosa significasse, con il suo sacrificio.-

Un mattino passeggiavo per la tenuta quando vidi del trambusto al portone principale. Non vedevo Kanoshi e molti dei suoi ninja da parecchi giorni. Suo fratello Musai mi aveva detto che era in missione per conto di un daimiyo impegnato in una sanguinosa battaglia per il dominio della regione. Tornò quel mattino, su una barella, accompagnato da metà degli uomini con cui era partito. Aveva il petto semisquarciato da un colpo di spada.
-Kanoshi!- urlai andandogli incontro assieme a suo fratello e ad altri parenti. –Cosa è successo?!- domandai ad uno dei ninja che sosteneva la barella. Anche lui era ferito ma non in modo grave.
-Stava andando tutto bene-, rispose l’uomo. -Dovevamo uccidere un uomo, un consigliere occidentale del daimiyo nemico di quello che ci aveva assoldato. Avevamo colto di sorpresa l’uomo fuori dalla tenuta del suo padrone e lo avevamo accerchiato. Vestiva come un samurai e portava una katana. Kanoshi lo ha sfidato ma lui si è rivelato un avversario troppo forte.-
-Kanoshi non è riuscito a tenergli testa?!- domandò Musai incredulo, mentre le donne della famiglia erano accorse per medicare il jonin morente.
-Inizialmente sembrava di si-, esclamò un altro ninja molto agitato. -Ma ogni volta che riusciva a ferire l’occidentale le sue ferite si rimarginavano! Con un colpo della sua spada, quel maledetto è persino riuscito a spezzare in due la ninja to del nostro jonin!- spiegò il seguace di Kanoshi mostrando l’impugnatura della spada del suo padrone con solo un pezzo di lama ancora attaccato.
-Che cosa?!- esclamai diventando bianco in volto. –Cosa ricordi di quell’uomo?- gli chiesi urlando prendendolo per le spalle. –Portava una maschera?-
-No, nessuna maschera. Ma il suo volto era segnato da profonde bruciature, come fosse scampato ad un incendio.-
-Lo sfregiato!- esclamai infuriato. –E’ qui che si è nascosto in tutti questi anni!-
-Lo conosci, Khalàd?- mi chiese Musai guardando il fratello con preoccupazione.
-Si. E’ il mio grande nemico. Solo io lo posso affrontare.-
-Neppure Kanoshi ce l’ha fatta ad ucciderlo e lui è un maestro-, mi fece notare uno dei ninja.
-Io conosco i suoi segreti.- spiegai vagamente. –Dov’è ora?-
-Uno di noi è rimasto a seguirlo. Tornerà presto.-
-O non tornerà affatto. Quell’uomo è letale e di una crudeltà inaudita.-
Il ninja tornò a sera, stanco ma incolume. Era molto giovane ma sapeva muoversi silenzioso come un’ombra. Nessuno di noi si accorse di lui quando entrò nella stanza dove vegliavamo Kanoshi.
-Signori-, iniziò il ragazzo vestito di nero inchinandosi. –Il samurai occidentale è partito. Ha lasciato la terra del Sole Nascente oggi a mezzogiorno, via mare.-
-No!- esclamai in preda alla frustrazione.
-Avrai… altre occasioni… di incontrarlo.. Khalàd..-, mi disse con voce flebile Kanoshi che nel frattempo si era svegliato. Il suo respiro era affannoso e il volto cereo. Stava morendo e lo sapeva.
-Risparmia le forze, amico mio. Ti salveremo.-
-Non ho portato… a termine la… missione…-
-Non importa, Kanoshi…-
-Ne va del… mio onore…-, disse il jonin ninja guardandomi con occhi supplicanti.
-Allora la porterò a termine io la tua missione, Kanoshi. Ti giuro che quell’uomo morirà!-
Il ninja morente sorrise e annuì prima che i suoi occhi si spalancassero per la sofferenza. –Wu Dan! Vai a… Wu Dan… Kinn…-, esclamò Kanoshi con il suo ultimo alito di vita. Morì tra le braccia del fratello, scatenando il dolore di tutta la sua famiglia.

-Una storia davvero triste. Lo sfregiato ti aveva portato via un altro amico.-
-Si. Era vissuto in Giappone per oltre duecento anni mentre io cercavo di rintracciarlo dalla Britannia con il rito di veggenza.-
-Saresti andato a cercarlo se avessi saputo dov’era?- mi domanda Cristina osservandomi mentre frugo nella seconda cassa del mio tesoro, dove tengo i reperti del Medioevo.
-Non lo so. Non credo. Non mi sentivo ancora pronto per affrontare la sfida finale con lui e poi il rito di veggenza aveva predetto che quell’incontro sarebbe avvenuto solo molto più avanti nel tempo.-
-Ed è stato così?-
-Si-, le dico porgendole a due mani l’unico ricordo che ho conservato di Hidai Kanoshi, il moncone della spada ninja con il quale ha affrontato la sua ultima battaglia.
-Il guerriero e la sua spada devono essere un tutt’uno, altrimenti, per quanto la sua arma sia potente, sarà sempre disarmato. Ecco l’insegnamento che mi ha trasmesso la mia avventura in Giappone. Per quanto riguarda l’onore… beh, lasciamo perdere.-

giovedì 10 luglio 2008

BANNER PROMOZIONALI

Come già anticipato in uno dei precedenti post, potete vedere dei banner pubblicitari disseminati nella struttura del blog. Appartengono tutti ad aziende dalle quali mi sono già servito e che ritengo affidabili, alcune più note altre un po' meno. Per il momento vi invito a visitare i siti di tre di esse, ovvero Feltrinelli, Monclick e InkClub, che hanno già confermato la loro sponsorizzazione. Queste tre, in particolare, offrono alla loro clientela sempre ottimi sconti e promozioni, oltre a cataloghi prodotti vastissimi dove è difficile non trovare ciò che si cerca. Per le altre aziende sono in attesa di conferma ma conto di ricevere risposta entro breve tempo. Ringraziandovi per la pazienza dimostrata nel leggere questa comunicazione, vi lascio al nuovo capitolo de "Il Guerriero".

9 - VERSO L'IGNOTO

-Cinque sono i momenti che hanno caratterizzato la mia esperienza in Britannia e il primo fu la rinascita di Uragano, la mia spada-, spiego a Cristina.
E’ una bella domenica mattina e siamo tornati nella mia stanza a godere della brezza marina. Il cielo è coperto ma sappiamo che forse non pioverà. Accade di rado in questa terra sempre baciata dal sole. Il suono delle campane sale dai paesi vicini, per richiamare la gente alla messa, e so che mia nipote è un po’ dispiaciuta per non esserci andata perché avrebbe cantato nel coro, cosa che lei adora, e perché è una ragazza di profonda fede. Ha preferito invece stare con me e ascoltare la storia di come la Britannia è stata conquistata da Roma, e di come Excalibur è giunta nella mano dell’uomo destinato a tramandarla.
-Se il nome della tua spada doveva rimanere noto solo a te, perché me lo hai rivelato?- mi chiede lei per distogliere la mente dal richiamo della chiesa.
-Perché il suo scopo è stato assolto, quindi il suo grande potere non è più necessario.-
-E gli altri quattro momenti? Quali sono?-
-Il primo è stato sposare Caysia-, le dico con un mezzo sorriso.
-Fermo, nonno! Ti contraddici ancora! Hai detto che la nonna è stata l’unica donna che hai mai sposato! Passi per Netia, la ragazza del Popolo del Leone, ma Caysia? L’hai sposata per davvero!-
-Certo che l’ho fatto ma non ti ho neppure mentito. Tua nonna è effettivamente l’unica donna che abbia mai sposato.-
-Io non ci capisco più nulla-, mi risponde lei scuotendo la testa.
-Come si chiama la nonna?- le domando sempre più compiaciuto del fatto di averla messa in crisi.
-Sandra…-
-Che non è il diminutivo di Alessandra-, insisto per spronarla a ragionare.
Cristina sbianca in volto e rimane a bocca aperta. –Cassandra?!- esclama dopo un po’ con un filo di voce.
-Ci sei arrivata, finalmente. Per questo ti dico che nella mia lunghissima vita solo lei è stata effettivamente mia moglie.-
-Vai avanti, nonno-, mi chiede cercando di riprendersi da quella rivelazione choc.

Ora che la spada era stata riforgiata, la mia richiesta di matrimonio a Caysia sembrò una pura formalità e la notizia fu accolta con grande gioia in tutto il villaggio dei druidi. Il rito e la seguente festa furono fissati per il primo giorno di primavera, durante la festa che i celti gaeli del nord chiamavano Beltaine, la “Festa dei fuochi”. Taliesin in persona avrebbe celebrato il rito mentre Twilir avrebbe enunciato i doveri e i diritti della nuova coppia, secondo la legge di Breohn. Kevin, il bardo che faceva parte del Consiglio, acconsentì di buon grado ad allietare la nostra unione con il suono della sua arpa e delle sue parole e questo diede grande prestigio al nostro matrimonio. Raramente un capo-bardo accompagnava con il suo talento un rito simile. Fu il suo dono di nozze per noi. Altri druidi ci regalarono amuleti, piccoli gioielli, manufatti di pregio e cibo. Fu Taliesin, però, ad onorarmi con il dono più prezioso e raro.
-Inahl, il mio maestro e predecessore, insegnò a Calhorn un po’ della sua arte. Come lui, io sono un druido mistico, che qualcuno chiama mago, e, come il vecchio capo-druido, io concederò questo insegnamento a te, Khalàd-, mi disse mentre passeggiavamo nel bosco sacro.
-Perché fai questo per me, Taliesin? In fondo sono uno straniero.-
-Hai fatto molto per noi, amico mio. Le tue conoscenze hanno migliorato la vita del nostro popolo e ciò che ti insegnerò sarà ancora una piccola cosa in confronto all’aiuto che ci hai dato.-
-Parlami del potere che vuoi farmi acquisire-, gli chiesi titubante ed emozionato allo stesso tempo.
-Noi mistici, a torto, siamo considerati i più potenti tra i druidi. Non lo siamo, tuttavia la nostra capacità ci eleva sicuramente al di sopra di molti nostri fratelli. Il potere che ci caratterizza, e che già in parte Calhorn ti ha mostrato quando vi siete battuti, è quello di plasmare le energie della natura che ci circonda. La forza della terra, dell’acqua, delle foreste, del fuoco e di molte altre potenze ancora. Ogni elemento naturale ha caratteristiche diverse ed è per questo che, per imparare a dominarli, servono molti anni di studio e di pratica.-
-Ma Calhorn dominava solo il fuoco-, precisai io.
-Appunto. Imparare a controllare un solo elemento richiede molto meno tempo e se l’elemento è quello al quale siamo più affini, il potere che viene acquisito è comunque notevole.-
-Quale elemento allora si adatterebbe di più a me? Il fuoco? Come Calhorn? O forse la terra?-
-Una volta mi hai detto che la tua forza aumenta in modo impressionante nel momento in cui il sole spunta all’orizzonte.-
-E’ vero. Un potente Dio egizio ha sempre vegliato su di me.-
-E se non fosse stata una divinità? Se invece fossa stata la tua innata capacità di assorbire ed usare la forza della luce solare?- ipotizzò Taliesin. –Non dico questo per sminuire il potere del Dio che ti ha protetto ma la mia ipotesi è plausibile.-
-Lo è-, ammisi a malincuore. –Non ho mai creduto molto negli Dei ma se ne devo ringraziare uno quello è proprio Amon-Ra, il signore della luce e della vita. Tuttavia, se tu sei in grado di dominare le forze naturali, forse, potrei esserne in grado anche io.-
-Allora è deciso, amico mio. Dopo il matrimonio lo scopriremo insieme.-
La cerimonia serale fu bellissima, allietata dalla luce dei fuochi, dalla presenza dei nostri amici e dal meraviglioso poema recitato da Kevin il bardo. Dopo aver sentito quelle parole e quei suoni d’arpa tutti i presenti rimasero ammaliati, incantati dal potere del druido. In quel momento ne ebbi la certezza. I bardi erano i più potenti tra i druidi e Kevin, così schivo e solitario, era il più grande tra i bardi.
Due sere prima della cerimonia, intenti in mille preparativi, io e Caysia sentimmo bussare alla porta di casa. Fuori pioveva e ci domandavamo chi potesse mai essere a quell’ora tarda. Grande fu la nostra sorpresa quando ci trovammo di fronte Calhorn, il fabbro.
-Ecco l’ultima persona che ci saremmo aspettati di vedere in un villaggio di druidi-, lo derisi facendolo entrare.
-Per prima cosa, voi non siete druidi. In secondo luogo nessuno sa che sono qui, a parte Twilir, ovviamente.-
-Allora hai deciso di accettare il nostro invito…-, iniziò la mia futura sposa ma l’uomo tarchiato la fermò alzando la mano.
-Non sono fatto per le occasioni mondane, mia signora, tuttavia, nessuno mi aveva mai invitato ad una festa. Forse a causa del mio brutto carattere-, scherzò l’uomo. –Ho apprezzato grandemente questo gesto.-
-Sarebbe un onore per noi se partecipassi, Calhorn. Ti sembrerà strano ma da quando ci siamo battuti, ti considero uno degli amici più cari-, gli dissi.
-Hai uno strano modo di farti gli amici, uomo del sud-, esclamò Calhorn per poi scoppiare a ridere.
Lo facemmo accomodare accanto al fuoco perché si asciugasse e Caysia gli preparò un po’ del cibo di quella sera, ovvero della carne arrosto accompagnata da pane, formaggio di capra e birra.
-Quale motivo ti porta a sfidare la notte con un tempo come questo, amico?-
-Anche se non onorato, un invito esige un dono. L’oro che mi hai dato per la spada era davvero troppo, così ho deciso di utilizzarlo in modo adeguato-, spiegò il fabbro estraendo dalla sua borsa due fagotti di pelle di cervo che depose sopra al tavolo. Li aprì e rivelò due magnifici collari d’oro, due “torques”. I collari celtici erano dei cerchi metallici, quasi sempre d’oro, che indicavano un rango elevato oppure una straordinaria capacità guerriera. I grandi anelli erano aperti sul davanti per essere allargati e poi richiusi attorno al collo, per portarli sempre e non toglierli mai. Quelli che Calhorn ci aveva portato erano i più splendidi che avessi mai visto da quando ero giunto in Britannia. Entrambi composti da fili d’oro intrecciati, terminavano nelle loro estremità anteriori con dei pomoli lavorati ad arte. In quello di Caysia i pomoli erano modellati a forma di testa di civetta, un animale molto significativo nella religione celtica perché rappresentava la conoscenza dei misteri. Ciò si adattava perfettamente al potere della mia donna. Le estremità del mio torque, invece, erano meno elaborate, due semplici sfere d’oro, sulle quali, però, erano incisi i simboli celtici del sole e della luna. Non so perché Calhorn avesse operato quella scelta ma la ritenni anch’essa adeguata. Il sole veniva associato a me sempre più di frequente e assieme alla luna poteva significare il mio profondo contrasto interno su ciò che era giusto o sbagliato fare per un uomo dotato delle mie capacità.
-Sono… splendidi!- esclamò Caysia senza fiato, avendo quasi timore ti toccare i due monili.
-Lo sono davvero, amico, e dopo averli visti non posso non rinnovarti l’invito a restare per la cerimonia. Potrebbe essere la volta buona per far pace con i druidi.-
Il fabbro barbuto scosse la testa. –Conosco Twilir e anche la fama di Taliesin, il capo-druido. Ho avuto modo di ascoltare molte volte le parole e la musica di Kevin il bardo. So che sono persone buone e ragionevoli ma sono solo in tre. La maggior parte del Consiglio mi è ostile, come lo era il vecchio Inahl. Credetemi. È meglio se me ne torno a casa. Il mio isolamento lo considero il prezzo per ciò che ho fatto-, mi spiegò l’uomo dopo aver bevuto un sorso di birra.
-Vorrai dire per ciò che hai ottenuto-, precisò Caysia accigliandosi. -Il potere di dominare il fuoco valeva tutto questo?-
-Mia signora-, cominciò Calhorn con un mezzo sorriso. –Quell’abilità è stata solo una piccola parte del pagamento per la creazione di Excalibur. Ciò di cui parlo è l’onore di aver creato l’arma che un giorno salverà la nostra terra, la Britannia, dall’oscurità. Posso essere avverso ai druidi, ma le loro profezie si sono sempre rivelate veritiere e non ho motivo di dubitarne.-
-Resterai qui stanotte?- gli chiese Caysia cambiando discorso per evitare che la conversazione si facesse troppo seria. –Sei un gradito ospite nella nostra casa.-
-Non arrecherei mai disturbo a due colombe che stanno per sposarsi. Sarò ospite di Twilir stanotte. Abbiamo molto di cui discutere e ripartirò domattina, prima dell’alba.-
-Torna a trovarci, però. La nostra porta è sempre aperta per te-, gli chiesi versandogli ancora da bere.
Calhorn aveva ragione. Molti dei membri del Consiglio, al vedere i torques che indossavamo durante la cerimonia, storsero il naso sapendo che erano un dono del fabbro che si ostinava a non cedere loro il Fuoco della Britannia. A parte quel piccolo particolare, andò tutto nel migliore dei modi e la festa che seguì il rito fu altrettanto splendida.
La mia vita con Caysia si rivelò da subito un sogno. Dopo secoli avevo trovato finalmente la pace che cercavo. Sapevo che sarebbe stato straziante vederla invecchiare e poi morire ma cercavo di non pensarci. Era troppo presto per angosciarmi. Senza contare il problema dei figli. Lei ne parlava spesso ma io non le avevo rivelato che non ne potevo avere.
-Mi piacerebbe avere dei gemelli-, diceva sempre. –Mia madre, prima che morisse, diceva sempre che nella nostra famiglia erano stati frequenti i parti gemellari.- Come potevo continuare ad illuderla? Tacevo la verità ma sapevo che non avrei potuto farlo in eterno.
Iniziai a passare molto tempo con Taliesin ed egli mi trasmise l’insegnamento che già era stato elargito a Calhorn, ovvero come dominare un’energia della natura.
-Il segreto-, mi spiegò fin dal primo giorno, -E’ di porre il tuo intero essere in armonia con la forza che vuoi assoggettare. In questo modo essa verrà a te e tu la potrai usare.-
Avevo una vaga idea di cosa intendesse ma fu solo dopo molte settimane che iniziai a comprendere quel principio e ad ottenere dei risultati. Mi alzavo tutte le mattine prima dell’alba, in modo da catturare i primi raggi del sole. Sentivo la consueta forza riempirmi le membra, che fino a quel momento avevo attribuito ad Amon-Ra. Ora, però, volevo di più e mi sforzai di armonizzarmi con la luce solare. Finalmente, un mattino d’estate, riuscii nell’impresa ed ebbi il pieno controllo della forza luminosa. Non solo all’alba ma a qualsiasi ora del giorno potevo attingere ai raggi luminosi per incrementare o rigenerare la mia forza.
-Sono stupefatto-, ammise Taliesin quando gli mostrai i miei progressi. -Devi affinare ancora la tecnica ma posso dire che hai raggiunto un livello che io stesso ho impiegato anni ad acquisire.-
-Credo dipenda dal fatto che sia io che Calhorn ci siamo concentrati su una sola energia.-
-Puoddarsi. Ad ogni modo l’insegnamento è completo. Usalo con saggezza e conservalo gelosamente. Non è cosa da far apprendere a uomini dal cuore oscuro.-
-Me ne ricorderò, amico mio, ma presto verrò ancora a cercarti per chiedere nuovamente il tuo aiuto. Devo prima riordinare le idee ma verrò presto.-
-La mia porta per te è sempre aperta, Khalàd di Uruk-, rispose il capo dei druidi di Britannia.

-Qual era la questione di cui volevi parlargli, nonno?-
-La Britannia era una terra di uomini dal grande potere mistico, come Taliesin, come i sognatori e i divinatori, come la stessa Caysia. Era tempo di scoprire qualcosa su quello che sembrava il mio antagonista e magari anche lo scopo della mia spada, Uragano.-
-Riuscisti?-
-Si. Ma fu davvero un’impresa colossale-, affermo serio, ricordando la notte del rito di veggenza e i preparativi che lo precedettero.

Per molto tempo non avevo più pensato a Gesù, anche se i suoi insegnamenti erano impressi a fuoco nel mio cuore. Rammentare il suo corpo martoriato sulla croce era troppo doloroso e più volte avevo desistito. Tuttavia, era arrivato il momento di ricordare. Ricordare gli ultimi attimi della sua vita, le sensazioni terribili che ho provato e, soprattutto, le sue ultime parole per me. “E’ qui Khalàd! E’ stato lui a…. Non è come te… E’ malvagio…. Stai attento allo sfreg….” Mi tornarono in mente come il fulmine che mi aveva colpito quando ero stato reso immortale. Capii immediatamente di chi stava parlando. Era sicuramente il carceriere romano che lo aveva flagellato, un uomo crudele, ma soprattutto era uno sfregiato e questo mi fece pensare al generale che si diceva avesse affiancato e infine ucciso Alessandro di Macedonia, il giovane conquistatore che aveva assoggettato mezzo mondo.
Ringraziai dentro di me il Cristo per l’aiuto che mi aveva dato e andai da Caysia a parlarle della faccenda.
-Ciò che dici è davvero importante e bisogna scoprire assolutamente qualcosa su quell’uomo.-
-Pensavo già di parlarne a Taliesin ma prima volevo sapere cosa ne pensavi tu. In fondo si tratta della tua specialità.-
-Ciò che chiedi è davvero complicato ma credo che se c’è una soluzione, Taliesin lo saprà.-

-Lei non avrebbe potuto aiutarti con una visione?-, mi domanda Cristina perplessa.
-Il potere di Caysia era grande ma le visioni non venivano sempre nel momento in cui erano desiderate. Inoltre, avevano l’effetto di indebolire terribilmente il veggente che le evocava e non avrei messo in pericolo la vita di mia moglie per un atto che si preannunciava arduo arduo.-
-Serviva comunque una veggenza-, insiste mia nipote.
-Non hai ben chiaro ciò di cui avevo bisogno. Una veggenza di Caysia o di qualsiasi altro druido mi avrebbe mostrato delle tracce del futuro da interpretare. Io cercavo di scoprire un disegno molto più ampio che relazionasse me all’altro come me. Una veggenza di proporzioni colossali.-
-E’ stato questo il secondo fatto di cui mi parlavi?-
-Proprio così.-

-E’ davvero un affare complicato-, disse pensieroso il capo-druido quando andammo da lui ad esporgli il nostro problema. –E’ una visione molto ampia e non ho idea di quale druido possa evocarla.-
-Non è una questione di vita o di morte, Taliesin-, lo rassicurai. –Se non si può fare non importa. Scoprirò da solo ciò che devo sapere.-
-Ora hai stuzzicato la mia curiosità, Khalàd. Una veggenza del genere sarebbe una grande impresa per i druidi. Ne parlerò al Consiglio, al prossimo incontro, e vedremo cosa suggeriscono gli altri.-
-Te ne sono grato, amico.-
Il Consiglio dei druidi non arrivò a nessuna soluzione e già mi stavo rassegnando quando Twilir, il mio amico giudice, risolse la questione.
-Certo che è possibile-, esclamò l’anziano tutore della Legge dopo che gli ebbi spiegato il problema. –E non mi stupisco che nessuno del Consiglio lo abbia detto.-
-Di che parli, Twilir?- gli domandò Caysia senza capire. –Detto cosa?-
-Si tratta di un rito particolare, operato da più druidi contemporaneamente. E’ successo una sola volta, quando io ero solo un ragazzo. Nessuno di chi vi partecipò direttamente è ancora vivo ma io vi assistetti di nascosto. Fu allora che venne menzionato, seppure vagamente, l’arrivo del metallo celeste per forgiare Excalibur.-
-Per quale motivo fu organizzato il rito?- chiese ancora mia moglie al nostro amico.
-Era un periodo di grandi cambiamenti per la Britannia. Eravamo più divisi di adesso e le molte tribù e i loro piccoli re, anche se sarebbe meglio definirli capi, perché nulla avevano di regale, continuavano a combattersi tra loro. La domanda a cui si cercava risposta era se da tutto quel fermento potesse nascere un giorno qualcosa di nuovo, di pacifico, di unito.-
-Otteneste la risposta?- domandai incuriosito.
-In parte si, anche se fu di difficile interpretazione-, rispose Twilir annuendo. –Si preannunciava un periodo di relativa tranquillità in cui una stella sarebbe caduta dal cielo e il suo seme avrebbe generato l’inizio di una nuova era per i britanni.-
-Molto vago-, commentai.
-E’ vero. Ciononostante il rito funzionò perché ci mostrò non specifici fatti ma una situazione più ampia del futuro della nostra terra.-
-Il problema nell’interpretare queste visioni è che è difficile collocarle nel tempo-, mi spiegò Caysia. –Non si sa mai a quando si riferiscono o quanto tempo comprendano.-
-Comunque ha funzionato-, insistetti.
-Si-, confermò il druido.
-E tu sapresti dare indicazioni a Taliesin per ritentare?-
-Naturalmente, ma si dovrebbero trovare i druidi giusti, con abbastanza potere e autocontrollo per poter cooperare.-
-Questo sarà compito di tuo cugino, se vorrà aiutarci-, affermò mia moglie offrendo al nostro amico un’altra tazza di birra di malto.
Taliesin ascoltò la storia di suo cugino con grande interesse dopodiché rimase in silenzio e pensieroso. Ci trovavamo nel prato appena fuori il villaggio e il capo-druido stava accudendo alcune pecore di sua proprietà.
-Non sarà facile ma credo potremmo tentare. Avevo già sentito parlare di questa cosa da Inahl ma non avevo mai capito bene di cosa si trattasse.-
-Inahl era presente-, confermò Twilir. -Era il mistico che dava potere al rituale, anche se allora non era ancora capo-druido.-
-E sia. Tenteremo-, confermò Taliesin dopo un altro momento di riflessione. -Sono sicuro che anche gli altri druidi del Consiglio accetteranno. Questo rituale potrebbe tornarci molto utile in futuro. Lasciatemi qualche giorno per organizzare la cosa, poi ne riparleremo.-
Taliesin fu di parola e dopo appena tre giorni venne a cercare me e Caysia.
-E’ fissato per il prossimo plenilunio, tra cinque giorni. La luna darà maggior potere alla nostra opera-, annunciò il capo-druido.
-Posso essere d’aiuto?- domandò Caysia.
-Tu sei fondamentale, mia cara. Sei la nostra veggente più potente.-
-Quanti druidi parteciperanno?- domandai incuriosito.
-Tra cinque giorni saprete tutto. Venite al bosco sacro al calare della sera. Mentre attendiamo lo spuntare della luna vi spiegherò ogni cosa.
L’attesa fu snervante ma, finalmente, il giorno del plenilunio arrivò, il giorno in cui il mio destino sarebbe stato svelato. La serata si preannunciava nebbiosa e questo mi fece temere per la visibilità dell’astro notturno. Fortunatamente, solo una lieve foschia si levò dalla terra e dai fiumi delle vicinanze e nulla ostacolò l’inizio del rituale. Giungemmo con largo anticipo ma Taliesin era già nel bosco sacro.
-Al rito parteciperanno quattro druidi più Caysia. Il ruolo principale lo avrà un giovane druido di nome Almet, un sognatore benedetto da visioni nel sonno davvero potenti. Caysia alimenterà il sogno di Almet con il suo potere di veggenza mentre io gli darò forza attingendo alle energie della natura. Kevin il bardo userà la sua arte per stimolare il sonno e la visione e per coordinare i nostri sforzi. Rinwell il divinatore, infine, interpreterà la visione di Almet. Tu ti stenderai accanto al sognatore, Khalàd, per focalizzare il sogno su dì te.-
-Un complesso lavoro di squadra-, dissi io cercando immaginarmi la scena.
-Questa volta la visione dovrebbe essere più chiara che in passato perché abbiamo Caysia. Il suo potere è molto più forte di quello di un druido veggente.-
-Correrà pericoli?- gli domandai timoroso.
-Non correrò nessun pericolo, amore mio. Non più degli altri druidi-, rispose lei con un sorriso per tranquillizzarmi.
-Ha ragione, Khalàd. Nessuno correrà pericolo. Nel peggiore dei casi falliremo.-
Giunsero gli altri interpreti della cerimonia e iniziammo a prendere posizione. Almet si stese al centro della radura, ai piedi del masso su cui ardeva il fuoco sacro dei druidi. Io mi misi accanto a lui mentre Caysia si sedette abbastanza vicino alla testa del sognatore da poterla toccare con le mani. Taliesin e Kevin erano a poca distanza mentre il divinatore, Rinwell, si teneva momentaneamente in disparte. Ad un cenno del capo-druido, il rituale iniziò. Il bardo prese ad accarezzare la sua arpa e a trarne una musica lenta, dolce e soporifera. Taliesin nello stesso momento chiuse gli occhi ed iniziò lentamente ad allargare le braccia. Il suo viso era teso. Stava raccogliendo le forze della natura che lo circondava e le convogliava nel divinatore che già si stava addormentando. Anche Caysia era concentratissima, con una mano posata sulla fronte del druido in modo da incrementare il potere veggente del giovane. Passarono minuti che sembravano ore. Almet si era addormentato e non restava che attendere che si svegliasse. Capitò nel modo più brusco e improvviso che se potesse immaginare. Si tirò a sedere di colpo, con il corpo irrigidito, urlando, e anche Caysia si spaventò. Ritirò la mano interrompendo il contatto. Kevin smise di suonare e Taliesin disperse lentamente l’energia che aleggiava intorno a tutti noi. Il rito era concluso.
-Almet!-, chiamò il capo-druido prendendo il giovane compagno per le spalle e scuotendolo. –Riprenditi! Sono Taliesin!- Gli occhi del sognatore rimanevano spalancati in uno sguardo di terrore e il suo respiro era rapido e affannoso.
-Ci penso io, amico-, intervenne Kevin facendosi avanti. Bastarono pochi accordi del suo strumento per calmare Almet e farlo tornare alla normalità.
-Terrificante!- fu la prima parola che uscì dalla sua bocca. –Il tuo avversario è davvero spaventoso-, mi disse mettendomi già una grande preoccupazione addosso.
-Racconta la tua visione a Rinwell. Penserà lui ad interpretarla-, lo sollecitò il capo-druido.
Il sognatore fu aiutato ad alzarsi e, barcollando, si allontanò da noi assieme al druido divinatore. Parlarono per alcuni minuti, poi Rinwell si fece pensieroso e cominciò a passeggiare avanti e indietro sull’erba, rimuginando su ciò che il sognatore gli aveva raccontato.
-Perché non poteva semplicemente raccontarci quello che aveva sognato?- domandai io perplesso.
-Le visioni nel sonno non giungono mai sotto forma di precise immagini di quello che sarà-, iniziò a spiegarmi Taliesin. –Il più delle volte arrivano a noi sotto forma di indizi visivi, che vanno interpretati secondo una complessa simbologia.-
-Per questo hai voluto anche un divinatore-, commentai.
-Esattamente. Il compito di Rinwell è quello di interpretare ciò che Almet ha sognato e di collocarlo in uno schema comprensibile.-
Rinwell il divinatore tornò nel gruppo dopo quasi un’ora di attesa. Almet se ne era andato dopo aver raccontato al compagno il suo sogno, stremato per il grande sforzo. Il viso del divinatore, un uomo di mezza età dai capelli castani e dagli occhi di un bell’azzurro chiaro, era molto teso. Si vedeva chiaramente che l’interpretazione non era stata facile.
-Abbiamo ottenuto ciò che volevamo, Rinwell?- domandò il capo-druido quando il divinatore fu di nuovo tra noi.
L’uomo annuì. –Si. Il rituale è riuscito, nonostante ciò che ne è emerso mi lasci molto perplesso.-
-Dicci cosa ha visto Almet-, lo incitò Taliesin.
Rinwell si voltò verso di me ed iniziò a parlare. –Sei parte di un grande progetto, Khalàd di Uruk, un progetto divino che ti pone su una strada molto lunga da percorrere. Questa via è segnata ma sta a te scegliere come percorrerla, acquisendo gli insegnamenti che la vita ti elargirà. Non sei solo però ad affrontare questa prova. A fianco a te c’è un’ombra, un uomo dal viso deturpato, che segue il tuo stesso sentiero.-
-Lo sfregiato-, affermai io. Ormai non avevo più dubbi che fosse lui il mio antagonista.
-Un uomo che percorre una strada identica alla tua ma che finora ha fatto scelte estremamente opposte a quelle cha hai fatto tu, poiché il suo animo è nero come la notte.-
-Qual è lo scopo di questo viaggio?- domandai a Rinwell, sempre più ansioso di ottenere la risposta che tanto avevo cercato.
-Lo scopo è imparare, per quando ci è dato sapere, ma potrebbe non essere quello definitivo. Ad un certo punto, molto avanti nel tempo, la vostra strada si restringe e vi sarà uno scontro. In quel momento dovrete mettere a frutto tutto ciò che avrete imparato vivendo e, chi sopravvivrà, otterrà una grande ricompensa dal cielo.-
-Chi è lo sfregiato? Almet è riuscito a sapere il suo nome?-
-No. Quando la sua volontà, spinta dal potere veggente di Caysia, ha tentato di penetrare quella nera figura, il tuo avversario, non so come, se ne è accorto e lo ha scacciato terrorizzandolo. E’ il momento in cui si è svegliato. E’ tutto.-
-Ti siamo debitori, Rinwell. A te e ad Almet verrà pagato il giusto prezzo. Ora lasciaci perché dobbiamo riflettere su ciò che è stato detto-, gli disse Taliesin con un sorriso.
Anche Kevin il bardo stava per andarsene quando il capo-druido gli chiese di fermarsi. Kevin era un uomo enigmatico. Aveva la corporatura, e sicuramente anche la forza, di un guerriero ma non lo avevo mai visto con una spada in mano. Portava i suoi lunghi capelli castani raccolti in una treccia che gli cadeva sulla schiena e i suoi occhi scuri erano come due pozze di cielo notturno. Non si sapeva mai a cosa stesse pensando. Il viso era segnato da profonde rughe, nonostante non dovesse essere più vecchio di Taliesin. Era forse questo il prezzo per il potere più grande dei druidi? Il potere della poesia e dell’incanto?

-Ma erano davvero così potenti?- mi domanda Cristina scettica. –Erano solo dei poeti.-
-Solo?!- esclamo io piuttosto sorpreso. –Allora non mi hai ascoltato finora. Quando il bardo riusciva ad armonizzare la musica e la parola, non c’era nulla di impossibile per lui. Era vera magia, alimentata dalla grandissima conoscenza di cui era depositario. Per questo motivo il consiglio di un bardo era talmente simile alla Legge di Breohn che spesso il suo ruolo era confuso con quello del giudice.-
-Sarà-, esclama lei. Evidentemente non l’ho convinta.

-Che cosa hai inteso di tutto ciò, amore mio?- mi domandò Caysia guardandomi speranzosa con i suoi dolci occhi neri.
Sospirai sconsolato mentre i miei amici pendevano dalle mie labbra. –So molto più di prima. Conosco lo scopo primario della mia vita, so come muovermi. E’ una sorta di invito a rassegnarmi, se proprio devo dirla tutta. Non ho avuto, però, la risposta più importante. Qual è lo scopo ultimo di questa specie di gara? Perché io? Perché tutto questo? Solo per assegnare un premio? Ora più che mai mi rendo conto di aver sempre avuto ragione sugli Dei che abitano il cielo. Hanno un pessimo senso dell’umorismo e noi ne siamo il loro bersaglio preferito.-
-Non abbatterti, Khalàd-, mi disse Taliesin mettendomi una mano su una spalla. –Questo è stato un inizio. Vedrai che un giorno scoprirai il vero scopo della tua vita.-
-Ti ringrazio per le tue parole, capo-druido. Ora vi chiedo, a tutti voi, di lasciarmi un po’ da solo. Questo luogo sacro è il posto migliore per riflettere.-
Nessuno ebbe da obiettare, neppure Caysia che mi comprendeva meglio degli altri. Tutti se ne andarono. Tutti tranne Kevin. Quando mia moglie e il capo-druido furono abbastanza lontani, il bardo parlò.
-Loro sanno quanto tempo è passato da quando questa sfida è iniziata? E quanto ancora durerà?-
-Che cosa intendi, bardo? Io non…-
-Sai bene cosa intendo… immortale.-
Rimasi pietrificato dallo stupore. –Come fai a sapere… E’ stata forse Caysia a rivelartelo? Solo lei conosce il mio segreto!-
-Non è stata lei ma mentre celebravamo il rito della veggenza mi sono infiltrato nella visione di Almet e ho visto tutto-, mi rispose con un mezzo sorriso.
-Sai dirmi qualcosa di più di quello che mi ha rivelato Rinwell?- gli chiesi speranzoso.
-Non sul sogno. Tuttavia un aiuto posso dartelo perché ho visto qualcos’altro che ti riguarda, il tuo conflitto interno.-
-Di cosa stai parlando?-
-Del fatto che freni la tua lama davanti ad un avversario che vuole ucciderti-, mi disse serio Kevin, con un tono quasi di rimprovero. –Del fatto che ti chiedi se sia giusto o no togliere la vita. Vedo l’indecisione e il dubbio nel tuo cuore, anche in questo momento. E ho visto lo spirito di un uomo, un uomo buono, che veglia su di te.-
-Lui è qui in questo momento?!- gli chiesi incredulo.
-E’ sempre stato con te da quando sei arrivato-, affermò il druido annuendo. –E’ proprio lui, però, che genera la guerra che è dentro di te.-
-Che pensi dovrei fare?!- gli domandai un po’ acido. –Dovrei mettermi a massacrare la gente solo perché ne ho la capacità e sono bravo a farlo?!-
-No. Ma devi compiere una scelta definitiva, Khalàd. O sei un guerriero, e accetti che talvolta sarà necessario uccidere e adempiere al tuo scopo e a quello della tua spada, oppure scegli di non esserlo, in questo caso puoi predicare amore fino al giorno della tua morte, se mai verrà.-
Rimasi a bocca aperta. I bardi erano davvero uomini terribili. Le sue parole mi colpirono come pugni nello stomaco e fecero davvero male, soprattutto perché erano vere. Che stavo facendo? Chi ero? Caddi in ginocchio, in lacrime, mentre Kevin il bardo lasciava il bosco sacro.
Quando tornai a casa ero un uomo distrutto e mi ci vollero giorni per riprendermi. Caysia si preoccupò molto per me, nonostante tutte le mie rassicurazioni. Ci volle tempo per assorbire il colpo ma alla fine ci riuscii. Decisi però di fare la mia scelta con calma. Di tempo ne avevo molto, come al solito. Accantonai anche la questione della visione. Qualunque fosse la ricompensa in palio per la sfida con lo sfregiato, se mai ci fosse stata, oramai sapevo come indirizzare i miei passi e, ammetto con un po’ di orgoglio, fino a quel momento me l’ero cavata bene.
Un paio d’anni dopo il mio matrimonio con Caysia, la questione dei figli si era fatta difficile e mia moglie temeva che la colpa fosse sua, che non fosse una donna completa in grado di dare figli ad un uomo. La sera che mi disse questo non resistetti più a tacere e le raccontai la verità.
-Avrei dovuto parlartene molto prima-, dissi triste e timoroso di perderla. –Prima ancora di chiederti di sposarmi. Sono stato un vero egoista.-
-Si, lo sei stato-, disse lei alzandosi in piedi. Il suo volto era rigato di lacrime. –Ma non per il fatto di avermi chiesta in moglie sapendo di non poter avere figli.- Non riuscivo a capire. Quanto ottuso ero. –Se lo avessi saputo prima del matrimonio ti avrei sposato lo stesso, Khalàd. Il mio amore per te era più forte di qualsiasi ostacolo.-
-E lo è ancora? Potrai mai perdonarmi?- le domandai disperato.
-Lo dirà il tempo-, sussurrò. Quella notte la sentii piangere sotto le coperte, avvertendo ancora più forte il peso della mia meschinità.

-Ti perdonò?- mi domanda Cristina.
-Lo fece, ma le cose non furono più le stesse. Ci amavamo sempre molto ma ogni volta che Caysia vedeva un bambino in fasce o una coppia che giocava con i propri figli, si rattristava e diventava irritabile.-
-Una donna può portare rancore per sempre-, cita mia nipote.
-E lo accettai senza obiettare. Me lo meritavo per quello che le avevo fatto, nonostante fosse grande il dolore che mi procurava.-

Dopo un altro anno giunse una triste notizia. Giuseppe di Arimatea era gravemente malato e aveva chiesto di me. Viveva al nord e non ho mai saputo come abbia fatto a scovarmi, anche se avrei dovuto immaginarlo visto che fu Kevin a portarmi la notizia. Non fu un incontro lungo perché arrivai appena in tempo per ricevere la ciotola dalle sua mani, oramai considerata una reliquia tra i nuovi seguaci della parola di Cristo. Il sangue di Gesù si era disseccato e ne rimaneva solo una traccia scura sulla terracotta. Giuseppe morì tra le mie braccia e, silenziosamente, pregai lo spirito del nostro comune amico di accoglierlo nel regno celeste di cui aveva parlato in vita. Molti erano i discepoli che aveva raccolto attorno a se e tutti mi trattarono come un santo quando mi videro uscire dalla casa dell’ebreo con la ciotola in mano. Qualcuno arrivò persino a chiedermi di prendere il posto di Giuseppe come predicatore. Feci presto ad andarmene perché avevo visto troppo bene dove lo zelo religioso poteva portare. Il quarto evento, il più triste, incombeva su di me e la Britannia e dovevo prepararmi ad affrontarlo.
Una mattina dell’anno 43 d.c., sotto il dominio dell’imperatore Claudio, due intere legioni romane sbarcarono sulle coste della nostra isola e non erano certo venute per ammirarne il panorama. Roma era arrivata. Fu indetto un raduno straordinario di tutti i druidi di Britannia che giunsero al bosco sacro in pochissimi giorni. Erano più di trecento. Fummo invitati anche io e Caysia e molti dei sacerdoti si meravigliarono nel vedere due estranei essere così altamente considerati dal Consiglio.
-Il popolo della Britannia ci chiede consiglio e aiuto-, iniziò Taliesin. –E’ spaventato dalla forza distruttiva delle legioni romane che avanzano verso nord. Molti villaggi sono già caduti e in molti luoghi sono state compiute stragi di innocenti, a quanto mi dicono.-
Rimasi piuttosto sorpreso da quella notizia. –La fonte è affidabile, capo-druido?- domandai facendomi avanti.
-Assolutamente. La fonte sono alcuni tra i fratelli che sono qui presenti, tra cui il nostro amico e cugino Twilir-, rispose il capo-druido serio.
Twilir, chiamato in causa, si fece avanti. –Ho visto personalmente la devastazione lasciata dai romani. In molti villaggi tra qui e il mare hanno fatto molti prigionieri e trucidato innocenti.-
Scossi la testa. –E’ strano, amico mio. I romani non hanno mai agito in questo modo. Non uccidono per il piacere di farlo. La loro strategia di conquista non lo prevede.-
-Che intendi dire, uomo del sud? Che non sono romani quelli che ci invadono? Oppure metti in dubbio le parole del nostro fratello?- domandò un altro druido. Bastò un mio sguardo felino per zittirlo.
-No. Sono sicuramente romani. Dev’essere un’unità di esploratori, non la legione al completo. Si muovono troppo rapidamente. Temo si tratti di un comandante che si sia fatto prendere la mano e che uccida e depredi per conto proprio.-
-Cosa proponi di fare, Khalàd?- mi chiese ad alta voce Kevin il bardo dopo aver zittito il vociare dei presenti con un accordo della sua arpa.
-La mia opinione sull’invasione romana l’ho già espressa, amico bardo. Questi esploratori impazzito sono però un problema diverso. Dobbiamo tenerli d’occhio, radunare dei guerrieri e, se il numero lo permette, distruggerli prima che facciano altre vittime-, sentenziai.
-Ma così facendo non provocheremmo ancora di più i romani?- mi chiede Taliesin perplesso.
-I romani non hanno bisogno di provocazioni per conquistarci-, gli spiegai sconsolato. –Se però questi uomini sono dei cani sciolti, Roma non piangerà troppo al lungo la loro perdita.-
D’improvviso, Caysia si fece avanti e si portò al centro della radura, accanto alla pietra del fuoco sacro. Il suo sguardo era vacuo e gli occhi sbarrati. Stava avendo una visione. I druidi tacquero all’istante.
-Vedo il fuoco e il ferro di Roma che avanzano verso di noi, verso questo bosco, verso il villaggio dei druidi. I druidi fuggono, il villaggio brucia. Un uomo solo resta a combattere. Il suo cuore è carico d’odio e rabbia. La sua spada chiede sangue…- Non riuscì a dire altro perché cadde a terra svenuta.
-Caysia…-, le sussurrai quando accorsi per prestarle aiuto. Lei riaprì gli occhi. –Che è successo?- mi chiese.
-Una visione. Una brutta visione.-
-Ricordo solo… il fuoco-, disse lei.
-Avete udito la veggente!- iniziarono ad urlare i druidi come impazziti. –La Britannia è finita! Roma ci distruggerà!-
Il raduno fu sciolto ma alcuni di noi rimasero nel bosco sacro per decidere il da farsi. C’eravamo io, Taliesin, Twilir, Kevin e alcuni altri druidi anziani del Consiglio.
-Mandiamo messaggeri ai villaggi vicini per avvisarli del pericolo. Devono radunare i guerrieri e prepararsi a combattere-, propose Taliesin.
-Quanto pensi impiegheranno a giungere qui?- domandai a Twilir.
-Non più di tre giorni. So che le due legioni sono ancora molto a sud ma questo gruppo di massacratori si muove molto in fretta-, rispose l’anziano giudice.
-Dobbiamo distruggerli prima che distruggano noi. Se farai radunare i guerrieri, Taliesin, di loro di concentrarsi sugli esploratori e di non andare ad attaccare briga con il grosso dell’esercito.-
-Sono molti. Saranno pronti ad affrontare anche le legioni.-
Scossi la testa. –Te l’ho già detto, Taliesin. Neppure foste migliaia potreste confrontarvi con la tattica, l’armamento e la forza delle legioni. La mia speranza è di poter parlamentare con i consoli che le comandano per trattare una pacifica convivenza.-
-Non possiamo arrenderci, uomo del sud!- esclamò indignato uno dei druidi anziani. –La Britannia è una terra libera e tale deve restare!-
-Ho espresso il mio pensiero ma la decisione non spetta a me-, dissi per chiudere la questione.
-Pensiamo prima agli esploratori, Khalàd. Il tuo consiglio è saggio e se li fermiamo avremo il tempo di organizzare la guerra… o la resa.-
-Bisogna avvertire le tribù a nord-, intervenne Kevin. –Se saranno preparate, in caso di guerra potremo contare su un fronte unito.
-Ben detto, Kevin-, concordò il capo-druido. –Ma bisogna farlo in fretta e noi druidi non siamo veloci nel viaggiare.-
-Ci andrò io-, proposi. –Se da questo dipende l’esito dello scontro con i romani, andrò io ad avvertire il nord del loro arrivo. Posso correre più veloce di qualsiasi britanno e tornerò in tempo per affrontare gli esploratori se sarà necessario.- Caysia, che si era ripresa del tutto, mi si strinse addosso. In quel momento di paura ogni tensione tra noi era sparita e dopo tanto tempo ritrovai quel calore che tanto disperatamente avevo cercato in lei.

-Riuscisti nell’impresa?-
-Naturalmente. Non c’erano molti cavalli veloci nel nostro villaggio e io, comunque, sapevo stare a malapena in sella. Tuttavia era difficile starmi dietro quando evocavo lo spirito della zebra e quello della gazzella-, rispondo serio. Cristina intravede un’ombra sul mio volto.
-Che succede, nonno?-
-Non tornai in tempo.-

La valutazione di Twilir si era dimostrata errata. Gli esploratori romani, probabilmente venuti a conoscenza dell’esistenza del nostro villaggio, il centro di potere della Britannia, avevano puntato dritti verso l’obiettivo importante. Vidi le colonne di fumo alzarsi dietro gli alberi quando ancora mancavano ore al mio arrivo al villaggio. Avevo viaggiato tutta la notte e mancava poco all’alba. Spiccai la corsa come una furia, con il cuore pieno di timore, ma non feci molta strada prima di incontrare il gruppo dei superstiti. C’erano Taliesin e la sua famiglia, Kevin il bardo e una decina di altri druidi. Su di una barella, con il respiro irregolare e il volto cereo, c’era la mia Caysia. Aveva un’orribile ferita sul fianco e il sangue le imbrattava tutta la bianca tunica.
-Caysia!- urlai correndo al suo capezzale.
-Sono arrivati stanotte, Khalàd-, mi disse Taliesin sconsolato. -Hanno ucciso e bruciato, senza chiedere nessuna resa. Saranno almeno duecento uomini. I nostri guerrieri dei villaggi a sud non sono riusciti a fermarli. Troppo pochi se ne sono radunati. Twilir…- Il capo-druido aveva la tunica macchiata di sangue e un profondo taglio gli solcava la fronte.
-Dov’è Twilir?- chiesi inespressivo, senza neppure guardarlo in volto.
-E’ morto tentando di difendere Caysia.-
-Khalàd… amore mio…- sussurrò lei sentendo la mia voce.
-Sono qui, mia Cassandra-, le risposi con la voce rotta dall’emozione.
-Sento… freddo… molto… freddo…-. La stretta al cuore mi si fece più forte. La stavo perdendo. –Sai… mi dispiace… di averti… detto quelle… cose… anni fa…-
-Non parlare Caysia. Troveremo un guaritore e starai…- Non potei terminare la frase perché un fiotto di sangue le sgorgò dalla bocca e si accasciò. La sua testa ricadde tra le mie braccia.
-Caysia! Caysia! Non lasciarmi!- le urlai scuotendola e piangendo disperato come un bambino.
-Dobbiamo andare, Khalàd. I romani sono ancora al villaggio e ci raggiungeranno in fretta. Noi andiamo a nord, a riunirci con gli altri druidi superstiti…-
-Hai detto che sono circa duecento?- gli domandai con un sibilo di rabbia alzandomi in piedi, senza staccare gli occhi dal corpo inerme della mia amata.
-Si, ma che vuoi…-
-Due centurie. Troppo pochi per impensierirmi-, esclamai e nello stesso momento mi tornò in mente l’ultima visione di Caysia. Lei lo aveva previsto. Forse aveva visto anche la sua morte, ma non lo aveva rivelato per non farmi preoccupare. Ora avrei onorato l’ultimo atto di quella predizione.
-Sei uscito di senno?! Li vuoi affrontare da solo?! Ti massacreranno!-
Con un ruggito selvaggio mi strappai di dosso la tunica scoprendo il petto e la mia orribile cicatrice. Il torque d’oro faceva uno strano contrasto con la sottile pelle arrossata dell’antica ferita. Estrassi Uragano e mi preparai a donarle il primo tributo di sangue dopo la sua rinascita.
-Porta il suo corpo con te, Taliesin, e appronta un degno rito funebre. Io vi raggiungerò presto.-
-Khalàd! Tu stesso hai detto che non si può vincere contro le legioni!- esclamò Taliesin in un ultimo disperato tentativo di fermarmi.
Lo guardai con il mio sguardo più spietato. –Io sono una legione. Non l’hai ancora capito?-
-Tu non…- stava per dire il capo-druido ma Kevin lo zittì con la sua arpa.
-Torna presto tra noi, guerriero. La tua donna riceverà tutti gli onori.-
Con quella promessa spiccai la corsa nel folto della vicina foresta, sul sentiero per il villaggio. Volevo essere li prima dell’alba, in modo da affrontare quegli assassini al massimo della mia potenza, come avevo fatto altre volte in passato, in situazioni simili. Quando arrivai al villaggio il cielo stava schiarendo dietro le cime degli alberi. Le due centurie romane erano accampate appena fuori dell’insediamento, dove avevano eretto le loro tende. Non vidi cavalli ma la cosa non mi sorprese. I comandanti romani utilizzavano la cavalleria leggera solo in operazioni di disturbo e mai su terreni accidentati come quelli della Britannia.
-Chi è il vostro comandante?!- urlai in latino ai legionari avanzando minacciosamente verso di loro. Mi fermai a non più di cento passi di distanza dal primo gruppo.
Quando mi videro iniziarono a sghignazzare e a deridermi. Per precauzione, però, si armarono. –Hai voglia di morire come tutti quelli che hanno osato sfidarci, celta? Parlare come noi non ti farà guadagnare un trattamento di favore-, mi gridarono di rimando.
-Non è un celta!- disse un altro legionario. -Sembra un giudeo o un altro di quei topi di deserto!-
-Chi mi sta cercando?- esclamò una voce rauca da dietro il mucchio dei soldati. I ranghi si aprirono e comparve il comandante degli esploratori. Portava il classico equipaggiamento romano composto da corazza, protezioni per braccia e gambe, manto purpureo ed elmo crestato che pareva identificarlo come un tribuno. Accanto a lui si fece avanti un uomo che conoscevo bene e che in passato avevo chiamato amico. Sextus Galbo.
-Khalàd?!- esclamò il centurione riconoscendomi nonostante il mio aspetto così diverso. –Sei davvero tu?!- Era persino più sorpreso di me.
-Conosci quest’uomo, centurione?- domandò il tribuno guardandolo di traverso.
-Si, tribuno. L’ho conosciuto molti anni fa, in Giudea, dove faceva il taverniere per i soldati del presidio.-
-Sono il tribuno Aulo Sentio, comandante degli esploratori della decima legione. Sei lontano da casa, giudeo. Che vuoi da me?-
-Non sono ne un giudeo ne un celta ma per te non fa differenza. Tra poco sarai cibo per i vermi-, gli risposi sprezzante, facendolo sicuramente irritare. –Sextus! Che ci fai al seguito di questo assassini? Ti conoscevo come un soldato onorevole!-
-Io…- tentò di dire il centurione ma il suo comandante lo precedette. –Il centurione è il mio uomo più fedele-, esclamò il tribuno sorridendo. Dalle loro espressioni capii che non era vero. – E ora eseguirà il mio ordine e verrà ad ucciderti.- Sextus si drizzò di colpo e guardò a bocca aperta il suo comandante. –Uccidi quell’uomo, centurione!- ordinò Aulo Sentio.
Mentre io rimanevo impassibile e in attesa degli eventi, vidi Sextus Galbo esitare prima e avanzare poi timidamente verso di me. Estrasse il gladio ma si fermò a metà strada tra me e i suoi compagni. Pensavo che volesse davvero attaccarmi quando gettò l’arma a terra.
-Io sono Sextus Galbo, centurione delle legioni di Roma!- urlò senza voltarsi mentre il tribuno e i suoi uomini ammutolirono per quella disobbedienza. –Sotto il tuo comando, Aulo Sentio, sono stato costretto a compiere atti orribili e per questo renderò conto agli dei. Ma ora non ti obbedirò più! Mi riprendo il mio onore di romano e…- Prima che potessi avvertirlo o intervenire, con un movimento fulmineo del braccio, il tribuno romano prese una lancia e la scagliò addosso al mio amico, trafiggendolo.
-Sextus!- gridai correndo a sorreggerlo.
-Mi aveva stancato con i suoi discorsi sull’onore e sulla morale. Questa è stata l’ultima volta che mi disobbediva-, commentò il crudele tribuno, ma io non ci badai.
-Sextus, amico, resisti! Ti porterò dai druidi e loro ti cureranno!-
-No… Khalàd… Questo è ciò che mi merito per… quello che ho… fatto-, disse con un filo di voce mentre un rivolo di sangue gli colava dalla bocca. –Ora potrò… incontrare i miei padri… senza vergognarmi…-. Morì con il volto sereno.
In poche ore, per colpa di Aulo Sentio e dei suoi tagliagole, avevo perso una moglie e un caro amico. Era troppo.
-Gesù-, invocai poggiando a terra il corpo del centurione. –Perdonami se non potrò mantenere la promessa che ti ho fatto, ma le vite di questi uomini non valgono la pietà di nessuno.- Mi alzai in piedi e guardai il chiarore imminente che stava per inondare il villaggio occupato. –Fai mettere le tue pecore in formazione, cane!- urlai al tribuno.
-Ma chi credi di essere? Uno contro duecento? Sei solo un folle!- mi rispose sprezzante ma subito tacque e mise mano al gladio quando mi vide scattare in avanti urlando.
Da quel momento fu Uragano a suonare la sua canzone di morte. La luce del sole mi inondò quando già una trentina di legionari erano a terra, molti dei quali decapitati. Sfruttando l’insegnamento di Taliesin, assorbii in pieno i raggi luminosi e mi scatenai, come un leone di luce che assale solitario i lupi delle tenebre. Trafiggevo e squartavo, decapitavo e mozzavo arti. Non sentivo la fatica. L’odio e la rabbia mi davano energia a sufficienza tanto che non sarebbe servito neppure l’aiuto dell’alba. Uragano era divenuta un’arma spaventosamente potente e, a quanto aveva detto Calhorn, non era neppure paragonabile ad Excalibur. I pesanti scudi di bronzo dei legionari non mi fermavano, come pure i loro ridicoli gladi e le loro lance. Venni ferito molte volte, trafitto in ogni parte del corpo, ma dopo pochi istanti il sangue smetteva di sgorgare e i miei avversari si spaventavano ancora di più. Ogni volta che incrociavo la spada con Aulo Sentio lo scansavo e lo gettavo da un lato. Il leone voleva tenere il boccone più saporito per ultimo e in quel momento ero una fiera davvero affamata. Solo il massacro che compii alle Termopili poteva essere paragonabile a quello che feci in quel luogo perché non mi fermai finché non rimase solo il tribuno… tremante di paura.
-Dunque, Sentio-, ringhiai a bassa voce. –E’ il tuo turno ora.-
-No! Ti prego! Risparmiami!-
-In quanti ti hanno chiesto pietà?! A quanti l’hai negata?!- La sua totale mancanza di onore mi disgustò a tal punto che lo uccisi con un colpo solo, tagliandolo in due di traverso con la mia spada e abbandonando tutti i miei propositi di farlo soffrire il più a lungo possibile.
Caddi in ginocchio e lasciai che le forze mi abbandonassero del tutto. Rimasi li, coperto di sangue e totalmente svuotato per quasi un’ora, in mezzo a tutti quei cadaveri, poi tornai alla realtà. M’incamminai senza più voltarmi indietro.

-La tua rappresaglia non fece arrabbiare i romani?- mi domanda perplessa Cristina, per nulla inorridita dal mio racconto. Evidentemente considera la mia vendetta lecita ed è una cosa insolita per lei.
-Per nulla, ma lo avevo previsto. Qualche anno dopo, chiedendo informazioni su quell’evento, scoprii che avevo fatto un grosso favore al console che comandava la legione perché Aulo Sentio era una continua fonte di guai per Roma.-
-Fu Taliesin a celebrare il funerale di Caysia?-
-No. Caysia ricevette un elogio funebre riservato solo ai grandi condottieri. Kevin il bardo compose un poema in suo onore e lo recitò di fronte a tutti i superstiti del villaggio, la sera in cui posai l’ultima pietra sul suo “cairn”, il suo tumulo funebre.

I druidi non ricostruirono il loro villaggio ma decisero di disperdersi per la Britannia, in modo da essere più vicini al loro popolo, mentre Roma conquistava tutta la parte meridionale dell’isola.
-Ho un compito per te, Khalàd-, mi disse Taliesin il giorno in cui lasciò il nostro improvvisato accampamento. –Un favore, in verità.-
-Non hai che da chiedere, amico mio-, gli dissi senza nessuna vitalità, il mio stato abituale da quando avevo perso Caysia.
-Voglio affidarti questa-, mi disse il capo-druido porgendomi l’involucro di pelle che sapevo contenere Excalibur.
-Per quale motivo? E’ la spada che dovrà difendere la Britannia. Deve essere custodita dai druidi.-
-Io voglio che la custodisca un guerriero e che la difenda. Se il nemico mettesse le mani su questa spada, non oso pensare cosa potrebbe accadere.-
Presi la spada con mani tremanti, poi, dopo un attimo di riflessione, ritrovai un po’ del mio spirito. –Lo farò, Taliesin. La custodirò e la consegnerò al condottiero che ne sarà degno, che saprà unire la Britannia e renderla nuovamente una terra libera di uomini liberi. Ci volessero anche…dei secoli.-
-Addio, amico mio. E’ stato un onore per me conoscerti.-
-Lo è stato anche per me, Taliesin. Addio.-

-Tu dove andasti, nonno?-
-Mi rintanai a nord, seguendo Kevin in giro per la Caledonia e le altre terre dei celti gaeli, portando con me Excalibur. Vidi morire lentamente tutti i miei amici. Non mi preoccupavo più di giustificare la mia perenne giovinezza. Kevin conosceva il segreto e Taliesin, beh… lui non ci badava. Aveva altro per la testa.-
-Hai trovato il condottiero, immagino-, mi dice mia nipote. –Artù.-
-No. Artù ha solo ereditato Excalibur, da suo padre Uther.-
-Allora a chi l’hai data?!-
-L’incontro con quell’uomo, verso la fine del II secolo d.c., fu l’ultimo avvenimento che segnò la mia permanenza in Britannia.-
-Chi era?-
-Il suo nome era Lucius Artorius Castus, un comandante mezzo romano e mezzo britanno, che guidava una forza militare della quale non si era mai visto l’eguale nell’isola. Mentre il grande muro voluto dall’imperatore Adriano, per tenere lontane le bellicose tribù del nord dai domini romani, veniva ultimato, Castus portò in Britannia i cavalieri delle steppe dell’est, i sarmati, con i loro poderosi destrieri. Vestivano rudimentali armature di scaglie e il loro aspetto era brutale, ma sopra ad un cavallo erano combattenti quasi invincibili e il loro stesso comandante aveva imparato a guerreggiare in quel modo.-
-Gli antenati dei famosi cavalieri di Artù-, ipotizza Cristina. –Ma cosa ti fece decidere di affidare proprio a quell’uomo un’arma potente come Excalibur?-
-Vari motivi. Il primo era il rispetto che i suoi uomini gli portavano. I sarmati erano un popolo sconfitto da Roma, arruolati dalle legioni per la loro grande abilità come cavalieri. Mai avevo visto uomini di un popolo battuto essere tanto fedeli ad un condottiero del nemico che li aveva soggiogati. Per onorare il loro comandante, dopo ogni vittoria, si mettevano in cerchio con i loro cavalli e battevano le loro spade sulle corazze, in segno di saluto. Poi c’era il fatto che Artorius Castus era diverso da qualsiasi altro romano avessi mai conosciuto. Credeva fermamente nella legge di Roma e la faceva rispettare in egual misura da tutti, britanni e romani. Più volte l’ho visto scatenare i suoi cavalieri contro drappelli di legionari che saccheggiavano dei villaggi di gente inerme, all’insaputa dei loro superiori. Altre volte sovvertiva le sentenze dei giudici militari perché ingiuste e di parte. Nessuno osava sfidarlo e la sua fama di gran condottiero e di uomo giusto cresceva a dismisura. Ultimo motivo, ma non meno importante, perché sotto la corazza portava sempre un medaglione d’argento raffigurante un animale sacro dei celti. Un drago.-
-La visione di Caysia!- esclama Cristina spalancando gli occhi per la sorpresa.
-Esattamente. Affidai Excalibur a lui e ai suoi discendenti, con la promessa che sarebbe stata usata per difendere quella terra che era anche la sua. Nel momento stesso in cui gli consegnai la spada, sentii il consueto senso di disagio che mi suggeriva di partire, di andarmene. Il mio tempo in Britannia era finito.-
-Quando tornò in tuo possesso la spada?-
-La ripresi tre secoli dopo. Artù, morente sul campo di Camlann, dove aveva sconfitto il rivale Mordred, me la riconsegnò perché non cadesse nelle mani dei sassoni, alleati del suo nemico.-
-Una storia affascinante, nonno, ma…-
-Ho le prove.-
-Naturalmente-, esclama lei con un sospiro, immaginando già quale favoloso reperto io stia per mostrarle. Le porgo due scatole di legno scuro che lei apre e appoggia sul tavolo per ammirarne il contenuto. Dopo pochi istanti i suoi occhi si inumidiscono e inizia a piangere per l’emozione. Non la interrompo perché è stata per anni la mia stessa reazione ogni volta che ammiravo quegli oggetti, i due torques d’oro che avevano unito me e Caysia per pochi ma intensi anni d’amore.