sabato 21 giugno 2008

7 - UN UOMO BUONO

Roma. Oramai il mondo conosciuto come “civile” portava questo nome e chi rifiutava di “civilizzarsi” veniva schiacciato. Cleopatra lo aveva capito ben prima del suo amante Antonio, giustiziato da Ottaviano alla presa di Alessandria. Per non seguire la sua stessa sorte, si dice che la regina d’Egitto abbia preferito suicidarsi facendosi mordere da un serpente velenoso. Ma queste sono solo dicerie che mi vennero all’orecchio qualche tempo dopo la caduta del regno dei faraoni.
Me ne ero andato dall’ultima capitale d’Egitto con indifferenza ai fatti che accadevano intorno a me, convincendomi che tutto ciò era necessario. Che non avrei cambiato il corso della storia con il mio intervento, oppure l’avrei cambiato troppo. Mi illudevo di sapere, dentro di me, che il destino del mondo, come il mio, fosse già stato scritto e che non potevo interferire. Quel destino era Roma. Mi illudevo. Nella mia lunghissima vita, fino a quel momento, avevo affrontato molti avversari, soli o in gruppo, molti dei quali più forti di me. Non mi aveva spaventato gettarmi da solo come una furia contro l’esercito persiano che assediava le Termopili, e non solo grazie alla convinzione di essere immortale. Ero consapevole delle mie grandi capacità di guerriero ed ero sicuro di uscire vittorioso da ogni scontro. Fino al momento in cui lasciai Alessandria. L’impero di Serse era stato vasto quanto quello romano, ma Roma era qualcosa di diverso. Questa bestia non era guidata da un sovrano salito al potere per diritto di nascita. Era stata costruita da uomini di ferro che avevano combattuto e versato sangue in prima persona. Il senato governava la città e l’impero, ma erano le legioni e i loro comandanti a farne la grandezza e Ottaviano comandava le legioni. Questa era Roma e io ne avevo avuto paura perché vidi, nelle superbe aquile che sovrastavano i vessilli di quegli eserciti, un nemico che non potevo affrontare e battere.

-Quindi Marco Antonio aveva ragione quando ti chiamò “vigliacco”-, esclama un po’ delusa mia nipote.
-Cristina-, inizio con un accenno di sorriso. –Durante il mio primo secolo di vita ci furono dei momenti in cui credevo d’impazzire per il fatto di non invecchiare e di non poter morire. Nei momenti di disperazione mi sarò buttato sulla punta della mia spada almeno un centinaio di volte senza battere ciglio, sopportandone l’atroce dolore e sperando ogni volta che fosse quella buona, che sarei morto. Credi davvero che la mia paura ad Alessandria fosse stata quella di battermi e di morire?-
-Direi di no. Cosa fu allora a farti scappare?-
-Un umano momento di debolezza. Avevo visto come Roma e Ottaviano, che ne incarnava alla perfezione lo spirito conquistatore, rispondevano alle provocazioni. Fu il senso d’impotenza a farmi fuggire. La consapevolezza che io da solo non avrei cambiato l’esito di quello scontro di uomini e civiltà. Imparai in seguito che mi sbagliavo.-
-Ma avevi ragione. Che potevi fare da solo contro una tale potenza?-
-Una sola piccola azione può influire sugli eventi di tutto un mondo-, inizio a spiegarle. –I millenni della Storia dell’uomo non sono fatti di anni ma di attimi. Determinate azioni che hanno condizionato l’evolversi dei fatti sono state compiute in pochi istanti. Una sola parola, detta in un unico istante, può cambiare le sorti di una nazione. Cosa pensi sarebbe successo all’Italia, per esempio, se Giuseppe Garibaldi, anziché rispondere “Obbedisco!” al re sabaudo che gli intimava di arrestare la sua avanzata, avesse risposto “Mi rifiuto!”?- Cristina si mette inopportunamente a ridere. Evidentemente non comprende la serietà del mio esempio, almeno fino a quando non la gelo con un’occhiata severa.
-Daccordo, nonno. Scusami. Ammetto che le tue osservazioni sono fondate ma ritengo ancora che ad Alessandria non avresti potuto fare un bel niente.-
-Probabile-, concordo tornando a rilassarmi.

Come al solito non andai di fretta, anche perché non avevo idea di dove andare. O meglio, sapevo il primo posto dove sarei andato e nel quale non sarei rimasto. Avevo con me un prezioso rotolo della Grande Biblioteca e dovevo depositarlo nel mio nascondiglio segreto, vicino a Tiro. Il papiro che avevo con me non aveva un grande valore letterario, in quanto riportava un semplice brano di carattere legale. Ciò che lo rendeva prezioso però, era il fatto che fosse scritto in tre diverse lingue usate in Alessandria nel momento in cui era stato redatto, ovvero l’egiziano, il greco e il latino.
L’intera Fenicia era ormai provincia dell’Impero romano e quindi non mi sorpresi di incontrare soldati e presidi di legionari lungo tutto il cammino. Per giungere a Tiro dovevo attraversare per intero un’altra regione sotto il dominio di Roma, la Giudea. Gerusalemme ne era la capitale, una città sempre in subbuglio che mal digeriva la presenza straniera entro le sue mura, ma che rappresentava anche il cuore religioso del popolo ebraico. In essa aveva sede il Sinedrio, l’organo civile-religioso che governava gli ebrei e che era retto dal Sommo Sacerdote. Hanna era il suo nome al tempo in cui passai di li. Mi fermai poco, appena il tempo di rifornirmi di acqua e cibo ma non mancai di notare quanto fosse ricco quell’abitato, disseminato di case signorili appartenenti a nobili famiglie ebraiche che avevano le mani in pasta in ogni sorta di affare, anche con i romani. A Gerusalemme, tuttavia, regnava il caos. I disordini erano all’ordine del giorno e i romani proprio non amavano i disordini. Le carceri erano sempre piene e non passava ora in cui non si vedesse qualcuno entrarvi. I rivoltosi più pericolosi venivano messi a morte, sperando che servisse da monito, ma nuovi fomentatori andavano a sostituire quelli morti, creando una catena dalla quale era difficile uscire. Una guerriglia urbana che gli invasori, pur con la loro enorme forza militare, riuscivano a malapena a contenere.
Lasciai Gerusalemme e mi diressi a nord, in Fenicia, una regione ben più tranquilla. Raggiunsi il mio rifugio segreto fuori Tiro e depositai il papiro e parte delle ricchezze che avevo portato con me da Alessandria. Guardavo i mucchi di denaro, oro e gemme che si ingrandivano e pensai che avrei potuto vivere senza lavorare per moltissimi anni. Una cosa del genere non era nel mio stile però. Vivere senza poter morire era già di per se noioso, figurarsi senza intraprendere nessuna attività.
-Il nuovo affare è la lana-, mi spiegò un taverniere dopo che mi fui addentrato nella città che ancora trovavo molto familiare. –I romani comprano lana in gran quantità e in ogni angolo delle province mediorientali le greggi di pecore e capre si moltiplicano a vista d’occhio.-
-Non immaginavo che fare il pastore fosse diventato così remunerativo-, scherzai versandomi una tazza di vino dalla brocca che l’uomo mi aveva portato.
-Scherza pure quanto vuoi. Ma se intendi guadagnarti da vivere, devi cercare un pastore che ti assuma come aiutante. Se sei fortunato e ne trovi uno anziano e senza figli potresti addirittura avere in eredità il gregge.-
-Dove si fanno i migliori affari? Qui a Tiro?-
-No. Qui la lana viene solo commerciata. Devi uscire dai grandi centri, trovare i piccoli villaggi, o meglio, le tende dei pastori erranti. Quelli però li trovi più facilmente a sud, in Giudea, oppure a est, in Galilea.-
-La Giudea non è un po’ irrequieta di questi tempi?-
-I giudei non hanno ancora imparato che se ai romani non dai fastidio, loro non infastidiscono te. E poi è solo Gerusalemme ad essere sempre infiammata dalle rivolte. Un giorno o l’altro il governatore di quella provincia farà un tale bagno di sangue che le acque si calmeranno per almeno un secolo.-
-E della Galilea che mi dici?-
-Una terra tranquilla, almeno finché re Erode, quello che chiamano Il Grande, è in salute. Suo figlio, Erode Antipa, non vede l’ora che muoia per succedergli.-
-Allora seguirò il tuo consiglio. Cercherò le tende dei pastori erranti. Magari sarò fortunato, come dici tu-, risposi finendo la mia tazza di vino.
Vagabondai per un po’ tra la Giudea, la Fenicia e la Galilea che, sebbene fosse per certi versi indipendente, era legata da molti patti di alleanza a Roma e, di fatto, faceva parte dell’impero. Trovai infine una famiglia di pastori erranti che cercava un aiutante. Il loro gregge non era molto numeroso ma gli uomini validi erano pochi in quel nucleo familiare e necessitavano proprio di un tuttofare come me. Non ci volle molto perché diventassi una presenza quasi indispensabile per quelle persone, viste le mie tante abilità. Passai con loro diversi anni e col tempo riuscii a crearmi un piccolo gregge tutto mio. Il lavoro del pastore non era male e potevo dire che quella vita mi risultava estremamente piacevole. Dormire all’aperto sotto le stelle oppure nelle accoglienti tende che montavamo quando ci fermavamo per più giorni in un luogo. Il guadagno non era così elevato come mi aveva dato da intendere il taverniere di Tiro, tuttavia, con quell’attività, potevo condurre un’esistenza agiata.
Correva l’anno che noi chiamiamo “zero”, il ventisettesimo da quando Ottaviano, assunto il nome-titolo di “Augusto”, era al potere come imperatore di Roma, pontefice massimo che riuniva autorità civile, religiosa e militare. L’Impero si espandeva e le riforme civili recentemente introdotte esigevano una quantificazione della popolazione dei domini di Roma. Io mi trovavo a fare la spola tra Giudea e Galilea quando il censimento venne ordinato.

-Ci sono forti dubbi sul fatto che fu Augusto ad ordinarlo. Molti studiosi, anche religiosi, sostengono che fu più a livello locale che non mondiale-, mi fa notare Cristina con quell’aria da saputella che spesso mi da occasione di punzecchiarla.
-Lo so bene. Erano storie che circolavano già allora. I funzionari e i reggenti della regione tentarono di far passare per loro quell’idea, in modo da darsi importanza e magari sfruttare a loro favore le informazioni che ne sarebbero venute. Ti assicuro però, che fu proprio Ottaviano Augusto a ordinarlo e riguardò l’intero Impero romano.-
-Era l’anno zero, hai detto. Non avrai per caso conosciuto….- Al mio sorriso rimane con la bocca aperta e senza parole.

Per Roma io ero un suddito da censire. Per uno come me, Roma non significava nulla se non forza militare. Sbrigai quella formalità durante i primi giorni dell’evento e me ne tornai alle mie faccende. Mi seguivano una decina di aiutanti che avevo accolto nel mio campo quando erano ancora bambini. Li avevo allevati come pastori, inculcandogli in testa il senso di fedeltà a me soltanto. Potevo assentarmi anche per giorni e al mio ritorno il gregge era ancora dove lo avevo lasciato, in perfette condizioni, e tutti i miei comandi erano stati eseguiti. Li avevo addestrati anche all’uso delle armi, in modo che fossero in grado di proteggere il gregge se ce ne fosse stato bisogno. Stavamo trasferendo le pecore dalla Galilea alla Giudea quando sentii per la prima volta parlare del Re dei Re, il Re dei Giudei. Si vociferava di una profezia secondo la quale sarebbe presto arrivato il Messia, il portatore della parola di Dio tra gli uomini, che avrebbe soppiantato tutti i governanti e imposto il suo volere sul mondo. Era solo una diceria ma molti dei suddetti governanti si irritavano al sentirla e qualcuno più di altri. Erode il Grande, re di Galilea ma suddito di Roma, non voleva saperne di lasciare il trono. Disprezzava persino i suoi legittimi eredi, figurarsi uno sconosciuto, secondo la sua interpretazione del messaggio. Il vecchio re era malato e il figlio si vedeva già con la corona sulla testa.
Una sera, verso la fine dell’anno, mi trovavo a Betlemme, in Giudea, poco lontano da Gerusalemme, per trattare una grossa vendita di lana. Avevo lasciato i miei ragazzi fuori dell’abitato a badare al gregge e mi ero ritirato in una taverna per definire la vendita davanti a del buon vino. Quando uscii scrutai il cielo stellato verso oriente e vidi qualcosa di incredibile. Una stella, più luminosa delle altre, si muoveva proprio nella direzione di Betlemme.

-Era la famosa cometa di Halley?- mi chiede mia nipote, eccitata all’idea di ciò che stavo per raccontarle.
-Così parrebbe, ma lo si è stabilito solo secoli più tardi, con complicati calcoli matematici e astronomici-, rispondo senza troppa enfasi. Per me una stella non appartiene a nessuno, men che meno quella stella.

Continuai a guardare l’astro mentre passava sopra al villaggio e quasi non mi accorsi che qualcuno mi chiamava.
-Chiedo perdono, signore-, sentii infine una voce con un forte accento straniero. Tornai in me e guardai chi mi aveva parlato. Erano tre uomini, riccamente vestiti, che sembravano provenire dalle terre d’oriente.
-Sapreste dirci se da quella parte c’è una locanda o qualche altra costruzione, dove possa essere nato un bambino?- Quello che aveva parlato aveva la pelle più scura degli altri e portava una folta barba riccioluta. Indicava la direzione in cui la stella procedeva.
-Cerchiamo un bambino molto speciale-, disse un altro dei tre.
-Non so nulla di nuovi nati stanotte, signori-, risposi un po’ ammirato dallo sfarzo del loro aspetto. –Se ben ricordo in quella direzione c’è solo una vecchia stalla.-
-Sapreste indicarcela?-
-Naturalmente. Non è lontana, vi ci accompagno io stesso-, mi offrii, incuriosito da quello strano incontro.
Accompagnai i tre uomini, che viaggiavano su altrettanti dromedari, alla vecchia stalla appena fuori Betlemme. Da lontano la vidi illuminata. C’era qualcuno e più ci avvicinavamo più diventava udibile il pianto di un bambino. Molti pastori si stavano radunando li e ora la mia curiosità era davvero forte. Giunti alla stalla, trovammo una famiglia accampata. Probabilmente erano li per il censimento e non avevano trovato posto nelle locande del paese. Un uomo e una donna, lei dal volto sereno anche se affaticato, contemplavano un bambino dormiente deposto in una vecchia mangiatoia. A quella vista mi sentii invadere da un profondo senso di pace e serenità. Credo fu lo stesso per i miei strani compagni perché mollarono di colpo le redini dei dromedari e caddero in ginocchio adoranti. Se non avessi raccolto io le stringhe di cuoio le bestie sarebbero sicuramente scappate.
-Quale nome avete dato al bambino, dolce Signora?- domandò il nero dalla barba riccioluta.
-Lo abbiamo chiamato Gesù-, rispose lei, che non doveva avere neppure vent’anni.
-Siamo re provenienti dall’oriente e guidati da una stella siamo venuti per adorare il bambino. I nostri incanti chi hanno rivelato che lui sarà il futuro sovrano del mondo. Portiamo doni regali per tuo figlio. Dell’oro, dell’incenso e della mirra.-

-Questa non me la bevo, nonno-, esclama Cristina un po’irritata. E’ molto religiosa e sto toccando un argomento delicato per lei. –Sentivi anche angeli che cantavano?-
-No ma faceva freddo e notai che la mangiatoia era stata tirata verso l’angolo della stalla dove si trovavano due animali, un asino e un bue che col loro fiato e il calore dei loro corpi scaldavano un po’ l’ambiente.-

Senza dire una parola indietreggiai da quel bel raduno e, dopo aver assicurato i dromedari ad un albero poco lontano, me e andai. Non era tardi quindi decisi di fare un altro salto alla taverna per l’ultimo bicchiere. C’era poca gente e non faticai a trovare un tavolo. Seduti poco lontano da me c’era un gruppo di loschi tipi che parlavano sottovoce. Non avevo nulla da fare mentre aspettavo il mio vino così tesi l’orecchio e con il mio udito da animale ascoltai la loro conversazione.
-Il re è stato chiaro. Tutti i bambini di Betlemme al di sotto di un anno di età devono morire.- Mi si gelò il sangue e mi concentrai ancora di più per sentire quello che dicevano. –Non sa chi sia e quindi li vuole tutti morti.-
-Dobbiamo fare in fretta però, per non attirare l’attenzione dei romani. Se scoprissero che Erode ficca il naso nelle loro terre invaderebbero la Galilea in un istante-, disse un altro con la voce preoccupata.
-Rischieremo. Gli ordini sono ordini. Lo faremo domani notte. Ora torniamo al campo a dormire.-
Mentre gli uomini uscivano, una decina in tutto, rimuginai sulle loro parole. Perché Erode si interessava tanto ai bambini di Betlemme? Un fulmine mi attraversò il cervello e finalmente compresi. Era la profezia del Re dei Re. Le parole del re d’oriente, “ sarà il futuro sovrano del mondo”, mi fecero finalmente capire cosa stava succedendo e la cosa non mi piaceva. Erode si sentiva minacciato, nonostante fosse alla fine dei suoi giorni, e aveva inviato dei sicari per ripulire la piazza da coloro che aspiravano al potere su quelle terre, fosse anche un bambino. Dovevo fare qualcosa. Avvertire i romani sarebbe stato inutile perché non mi avrebbero creduto. Forse il Sinedrio di Gerusalemme, ma lo stesso Gran Sacerdote Hanna aveva bollato quella profezia come eretica e non mi avrebbero dato ascolto. Ero solo. Me ne tornai al mio accampamento con la testa piena di pensieri e il risultato fu che non riuscii a chiudere occhio. In compenso avevo trovato una mezza idea anche se il mio piano si concludeva in un modo che non mi piaceva. Più si avvicinava l’alba, più mi convincevo che non potevo fare altro.

-Dimmi, nonno. Fu davvero un angelo ad avvertire Giuseppe del pericolo che correvano?-
-Se così lo si può chiamare-, rispondo un po’ divertito. –Era un angelo un po’ fuori dal comune perché aveva la pelle abbronzata e portava al fianco una spada egizia con il pomolo modellato a testa di sciacallo.-
-Fosti tu ad avvertirli?!-

Quando il sole fu alto nel cielo e il gregge accudito, diedi ordine ai miei ragazzi di levare le tende e li mandai ad accamparsi a sud, lontano da Betlemme. Io rimasi in città e tornai alla stalla in cui si era sistemata la famiglia del piccolo Gesù. I re d’oriente se ne erano andati ma vidi in un angolo della costruzione i loro doni, sicché ebbi la certezza di non essermeli immaginati. Il padre del bambino era già sveglio mentre la giovane madre dormiva, al pari di suo figlio.
-Signore-, chiamai l’uomo quando fui vicino. Vedendo la mia spada quasi si ritrasse. –Non avere paura. Sono qui per aiutarvi, non per farvi del male.-
-Aiutarci?-
-Correte un grave pericolo. Erode di Galilea ha ordinato a dei sicari di uccidere tutti i bambini entro un anno di età che si trovano a Betlemme e stanotte agiranno. Dovete andarvene.-
-Uccidere i bambini?- esclamò l’uomo con un filo di voce. Era povera gente, vestita con abiti semplici e con pochi averi. Persone che non meritavano di essere colpiti da una tale tragedia. –Ma che follia è questa?-
-E’ follia vera e…-, non feci a tempo a terminare la frase che un movimento attirò la mia attenzione. Vidi due uomini scappare verso il paese e ne riconobbi uno. Erano due dei sicari che avevo visto la sera prima e avevano sentito le mie parole.
Richiamai a me lo spirito della zebra e della gazzella e scattai all’inseguimento. Ne acciuffai uno le lo scaraventai in un vicolo tra due case, dove nessuno ci avrebbe visti. Gli puntai la spada alla gola.
-Perché spiavi quella gente?! Parla!-
-Non lo sai… straniero?- ansimò l’uomo. –Quel bambino… ha ricevuto la visita dei Re… dell’Oriente. E’ lui che dobbiamo uccidere!-
Non mi feci scrupoli e gli trapassai la gola, pulendo poi la lama sulla sua tunica. Purtroppo l’altro mi era scappato e avrebbe presto riferito ai suoi compagni quello che aveva visto e sentito. Tornai alla stalla più in fretta che potevo e trovai sveglia anche la madre del piccolo Gesù.
-Uno mi è sfuggito-, riferii. –Racconterà tutto agli altri. Dovete fuggire.-
-Un momento-, disse l’uomo. –Chi sei tu? Perché vuoi tanto aiutarci? E soprattutto, perché dovremmo crederti?-
-Giuseppe-, disse la donna. –Quegli uomini ci spiavano. Questo straniero forse ha ragione.-
-Mi chiamo Khalàd e vengo dalle terre del sud. Ora faccio il pastore ma sono stato anche un soldato. Qualunque cosa vogliate sapere ma, per favore, scappate.-
L’uomo rimase un po’ pensieroso, poi annuì. –Io sono Giuseppe di Nazaret e questi sono mia moglie Maria e mio figlio Gesù. Perché quegli uomini vogliono uccidere la nostra piccola creatura?-
-Erode teme che la profezia del Re dei Re si stia per avverare e vuole morti tutti i bambini nati a Betlemme. La visita dei Re dell’Oriente avrà sicuramente attirato l’attenzione su di voi.-
-Come sai queste cose, Khalàd?-
-Li ho sentiti mentre ne discutevano ieri sera alla taverna. Solitamente non metto il naso negli affari degli altri ma se posso evitare una strage di innocenti lo farò.-
-Allora ti dobbiamo la vita-, disse Maria facendo un lieve inchino verso di me.
-Non mi dovete nulla. Prendete le vostre cose e andatevene.-
-Ma dove? Se è Erode che vuole nostro figlio morto, non possiamo tornare a Nazaret, proprio in Galilea-, protestò Giuseppe che per la prima volta vedevo realmente preoccupato.
-No-, concordai io. –Dovete andare in direzione opposta e più lontano.- Ci pensai un attimo, poi mi venne un’idea. –Andate in Egitto.-
-In Egitto?! Ma è molto lontano!- esclamò il pover’uomo.
-Meglio-, risposi io. -Sarete più al sicuro.- Presi dalla mia borsa un foglio di pergamena e un lapis e iniziai a scrivere una lettera in antico egizio, una lingua che nessuno avrebbe compreso tranne chi di dovere. La consegnai a Giuseppe assieme a un po’ di denaro. –Andate ad Alessandria e presentatevi alla Grande Biblioteca. Date quella lettera al Maestro. Lui vi aiuterà.-
-Come potremo mai sdebitarci, Khalàd?- mi chiese Giuseppe, con la voce finalmente sgombra dal dubbio.
Guardai il bambino che sua moglie Maria teneva in braccio. –Tenetelo al sicuro e crescetelo con amore. Sarà il miglior modo in cui potrete sdebitarvi. Ora via!-
Senza altre parole, Giuseppe caricò l’asino e la famiglia s’incamminò al sole del mattino, in direzione dell’Egitto, mentre io pensavo al miglior modo per sistemare i sicari di Erode. Avrei dovuto eliminarli tutti. Non volevo certo che poi qualcuno se la prendesse con me o i miei aiutanti. Guardai la stalla in cui rimaneva solo il povero bue e iniziai a pensare che era il posto ideale per affrontare i sicari. Non avevo bisogno di andarli a cercare, sarebbero venuti loro da me.

-Nonno. Tu hai sparso del sangue in uno dei posti più sacri del mondo?- mi domanda con una vena di preoccupazione mia nipote.
-L’ho fatto, Cristina-, rispondo semplicemente. –Ma non ti dolere di questo. Il luogo della Natività fa parte della tradizione cristiana, ma non è carico di potere in se.-
-E’ pur sempre il posto dove il Salvatore venne al mondo-, insiste lei.
-Allora vedila in questo modo. Il mio gesto servì a coprire la fuga di Giuseppe e della sua famiglia, a cancellarne la traccia.-
-Salvasti anche degli innocenti…-
-Sei andata a catechismo, Cristina, e hai studiato la Storia-, le faccio notare. –Hai mai sentito parlare della Strage degli Innocenti?-
-Si… ma allora…-
-Erode mandò altri sicari quando vide che i primi non tornavano. Morirono circa trenta bambini innocenti e io non potei fare nulla perché non ero a Betlemme quando ciò avvenne.- Mia nipote si copre la bocca con le mani, angosciata.

Andai per gli affari miei per tutto il giorno, poi, al tramonto, tornai alla stalla per prepararmi. Il bue era stato portato via e questo mi fu di sollievo perché non desideravo che gli fosse fatto del male. Era ironico quanto mi preoccupassi più di un’animale che degli uomini che avrei ucciso di li a poco. Chiusi tutte le imposte e anche la grande porta di legno a due ante. Accesi un paio di lampade per far capire che c’era qualcuno e mi appostai accanto ad una fessura nel muro, attraverso la quale potevo vedere la strada per il villaggio, da dove i sicari sarebbero venuti. Non aspettai molto perché, appena il buio fu totale, vidi delle ombre muoversi poco lontano dalla stalla. Richiamai il mio spirito del leopardo, il predatore notturno delle savane, e scrutai con i suoi occhi l’oscurità. Vidi distintamente nove uomini che avanzavano verso la mia postazione. Avevano già sguainato delle corte spade simili ai gladi romani. Mi rintanai in un angolo della stalla che avevo mantenuto al buio, con la spada sguainata, in modo da poterli cogliere di sorpresa.
La porta della costruzione fu spalancata da un possente calcio e tutte e nove le mie prede caddero nella trappola.
-Ma qui non c’è nessuno! Sono scappati!- esclamò uno dei sicari in preda alla rabbia.
-Dobbiamo trovarli o Erode ci farà giustiziare quando saprà che ci siamo fatti sfuggire proprio il bambino che voleva morto!- esclamò un altro in preda alla disperazione.
-Perché scomodare Erode?- dissi facendomi avanti. –Penserò io a sollevarlo dal fastidioso compito di eliminarvi.- Con due secchi movimenti del braccio tagliai la gola ai due uomini che mi erano più vicini, senza che questi potessero neppure sbattere le palpebre.
-Pagherai per quello che hai fatto!- mi urlò contro un altro e si lanciò su di me con il gladio in avanti. Il fattore sorpresa era esaurito e quindi mi misi a combattere seriamente. Lo spazio stretto inizialmente favorì loro perché mi accerchiarono e mi ferirono più volte. Quando però videro il sangue fermarsi e la carne richiudersi si bloccarono, come avevo previsto. Con movimenti rapidi ed eleganti li trafissi uno ad uno e altri sette cadaveri si aggiunsero ai primi due. Ripresi fiato per un attimo poi pulii la lama della mia spada egizia che aveva ottenuto un altro tributo di sangue. Portai i cadaveri sul retro della stalla e li gettai nella fossa che serviva a raccogliere il letame. Versai sul macabro cumulo l’olio di una delle lampade e diedi fuoco. Un denso fumo oleoso si levò dalle fiamme violacee, alimentate anche dal letame che fungeva da combustibile. Il puzzo della carne che bruciava era nauseabondo e non riuscii ad allontanarmi in tempo prima che lo stomaco mi si rivoltasse. Vomitai più volte ma cercai di resistere. Rientrai nella stalla e indossai una tunica pulita che avevo portato con me. Quella che avevo addosso per combattere era tutta lacera e sporca di sangue e con un ulteriore lampo di coraggio mi avvicinai alla pira umana e la gettai nel fuoco. Mi dileguai nella notte prima che qualcuno notasse il fuoco e corresse a vedere cosa succedeva. La mia speranza era che il fuoco rendesse irriconoscibili i cadaveri prima che qualcuno li vedesse. Se avevo fortuna, il letame avrebbe accelerato la combustione e tutto sarebbe stato ridotto in cenere prima dell’alba.

-Reincontrasti Giuseppe e la sua famiglia in seguito?- mi chiede mia nipote.
-Rividi Gesù e sua madre una ventina d’anni dopo. Giuseppe era morto di malattia da tempo. Fu per caso che trovai la loro casa. Sapevo che erano di Nazaret, in Galilea, ma non li avevo cercati di proposito. In verità ero convinto che si fossero stabiliti in Egitto-

La vita dei pastori era per molti monotona e priva di prestigio. Io la trovavo magnifica e non avevano nessuna intenzione di abbandonarla. Il mio gregge era cresciuto a dismisura, quindi ne donai una parte ad ognuno dei miei aiutanti, che si erano tutti sposati e desideravano farsi una vita indipendente. Fu anche il modo per dare loro un ricambio. Già da diverso tempo iniziavano a chiedermi perché non invecchiavo come loro.
-Il Signore ha voluto così-, era sempre la mia risposta e per loro andava bene.
Era l’anno 20 d.c., o il sesto del pontificato di Tiberio, figlio di Ottaviano Augusto, quando, in Galilea, mi trovai a passare da solo per la città di Nazaret. Erode il Grande era morto appena quattro anni dopo la nascita di Gesù e suo figlio, Erode II Antipa, governava il regno con fermezza ma anche con giudizio, riportando la tranquillità perduta negli ultimi anni di vita del padre, a causa della malattia e della sua ossessione per la profezia.
Come al solito, avevo lasciato il gregge alle cure dei miei nuovi aiutanti, tutti ragazzi fidati, e mi ero diretto con un mulo e il carretto in città per vendere un po’ di lana e fare acquisti. Il mezzo era vecchio e poco prima di arrivare a destinazione una ruota si ruppe e, inclinandosi, anche il timone subì dei danni. Cercai di accomodare il tutto e con molta fatica riuscii a trascinare il carico in città, al mercato. Venduta la lana e incassato il denaro, guardai il carretto danneggiato e scossi la testa. Era ormai inservibile e me ne serviva uno nuovo.
-Dove posso trovare un buon falegname?- domandai ad uno dei mercanti che facevano affari nel mercato.
-Appena fuori dal quartiere, dalla parte opposta a quella dalla quale sei arrivato, c’è un giovane molto bravo che lavora il legno. Lui ti potrà sicuramente aiutare.-
Presi per le redini il mulo e lo tirai con il carretto malconcio nella direzione indicatami. Trovai una piccola casa con annessa una grande tettoia ingombra di tavole di legno e attrezzi da falegname. Un giovane uomo a torso nudo stava lisciando delle assi che avrebbero dovuto diventare il ripiano di un tavolo. Il giovane aveva i capelli lunghi fino alle spalle, la pelle abbronzata dal sole e un velo di barba castana ad incorniciargli la parte bassa del viso. Non si accorse di me finché non gli fui accanto, tanto era concentrato sul suo lavoro.
-Oh, scusami straniero. Non ti ho sentito arrivare-, mi disse alzandosi dal suo lavoro e asciugandosi la fronte con il dorso della mano.
-Dicono tutti che ho un passo felpato. Forse è vero-, scherzai. –Immagino sia tu il falegname. Il mio carretto si è rotto quando sono arrivato qui. Puoi fare qualcosa?- gli chiesi indicandogli la struttura attaccata al mulo.
Il giovane lo guardò attentamente poi scosse la testa. –E’ troppo danneggiato. Ripararlo non servirebbe. Te ne servirà uno nuovo. Magari posso recuperare un po’ di legno dal vecchio.-
-Se non c’è altra soluzione va bene. Quanto ti ci vorrà per costruirmene un altro?-
-Almeno una settimana. Ma non chiedi neppure il prezzo?-
-Ne ho bisogno e poi il denaro non è un problema. Consigliami solo un buon posto dove alloggiare.-
-Khalàd!- esclamò una voce alle mie spalle. Mi voltai e vidi Maria con gli occhi sbarrati per l’incredulità. Mi fissava come se avesse visto un fantasma e aveva anche lasciato cadere il cesto dei panni che teneva in mano.
-Madre-, disse il giovane falegname. –Tu conosci quest’uomo?-
-Non può essere. Devi essere suo figlio….-, continuò la donna incredula. Gli anni non avevano dissipato la sua semplice bellezza e non facevo fatica a rivedere in lei la giovane madre di vent’anni prima.
-Come stai, Maria?- la salutai sorridendole, anche io un po’ sorpreso di rivederla. Mi corse incontro e mi abbracciò.
-Madre?- domandò ancora il giovane che ormai era chiaro essere Gesù.
-Questo è l’uomo a cui tutti noi dobbiamo la vita, figlio mio-, spiegò la donna la figlio. Poi tornò a rivolgersi a me. -Ma tu non sei invecchiato di un solo giorno!-
-E’ una lunga storia, Maria. Dov’è Giuseppe, tuo marito?-
-E’ tornato tra le braccia del Padre molti anni or sono-, mi spiega Gesù vedendo la tristezza sul volto della madre. –E’ un onore per me conoscere il salvatore della mia famiglia.-
-Il piacere di vedervi sani e salvi è mio. Almeno ora so che ciò che ho fatto è servito a qualcosa.-
-Entriamo in casa. C’è molto da raccontare-, mi esortò la donna. Lasciammo Gesù al suo lavoro ed entrammo nella piccola abitazione dove mi fu offerto riparo dal sole cocente e ristoro.
Ad Alessandria d’Egitto le cose erano andate piuttosto bene. Il Maestro della Grande Biblioteca fu sorpreso nel vedere chi firmava il messaggio e provvide a dare loro asilo in una delle abitazione di proprietà dell’istituzione. Avevano condotto una vita tranquilla ma non si erano mai sentiti a casa loro e alcuni anni dopo, durante il secondo regno di Erode Antipa, decisero di intraprendere il viaggio di ritorno. Oramai non si parlava neanche più della profezia del Re dei Re ma, quando Maria era venuta a sapere della Strage degli Innocenti, era caduta in ginocchio e aveva ringraziato il Signore per avermi mandato da loro. Giuseppe si era ammalato gravemente alcuni anni dopo ed era morto che Gesù aveva quindici anni. Stranamente il ragazzo non aveva pianto. Si era limitato a recitare una preghiera e a dire che suo padre Giuseppe era stato accolto tra le braccia del suo Padre più grande.
-Non riesco a comprendere. Quale “Padre più grande”?- domandai perplesso alla madre del giovane falegname.
-Dio. Gesù parla sempre del Signore come del Padre di tutti gli uomini e questo talvolta scatena l’irritazione dei sacerdoti che considerano le sue affermazioni fuori luogo e cariche di alterigia.-

-Cominciò presto a scontrarsi con l’autorità religiosa-, mi fa notare Cristina.
-E’ vero, ma non ha mai ritrattato ed è sempre andato avanti per la sua strada. Sono orgoglioso di averlo conosciuto.-
-Vorrei vedere. Mi dici di aver conosciuto Cristo!-
-Ti assicuro che Gesù era meno divino e molto più umano di quanto pensi.-

-Ho bisogno di un posto dove stare mentre Gesù mi costruisce un nuovo carretto, Maria. C’è una locanda in città dove io possa alloggiare?- le domandai.
-Se questa casa non è troppo misera per te, amico Khalàd, vorrei offrirti la nostra ospitalità per tutto il tempo che sarà necessario-, rispose lei con un inchino di cortesia.
-Sono abituato a dormire all’aperto e la tua casa è tutt’altro che misera. Trasuda di calore familiare. Non vorrei però disturbare troppo la vostra esistenza.-
-Se tu non ci avessi salvato, Khalàd, Gesù non sarebbe più tra noi. Quale sorta di disturbo pensi di arrecarci? Sarò felice di averti qui con noi.-
-In questo caso accetto l’offerta ma ti pagherò la somma che avrei dato al locandiere-, insistetti.
-Vedremo-, disse lei sorridendomi.
Mi stabilii per un po’ di giorni in casa loro e siccome non mi piaceva l’idea di guardare gli altri lavorare senza fare niente, mi misi ad aiutare il mio ospite nel suo lavoro. Posso dire con tutto il cuore che mai compagnia fu più piacevole. Parlavamo di molte cose e io imparavo a conoscere meglio il futuro Messia. Parlava in modo semplice, quasi ingenuamente, ma non era ingenuo. Parlava della sua visione del mondo ideale come un posto dove tutti si rispettavano e si amavano come fratelli.
-E’ un mondo ideale quello di cui parli, amico mio-, commentai mentre lavoravamo insieme al mio nuovo carro.
-Forse. Forse no. E’ un grande obiettivo e se uno comincia con dei piccoli gesti di bontà, magari il sogno si realizza-, mi spiegò lui.
-Sembri davvero convinto che si possa fare-, risposi sorridendo.
-Che cosa lo impedisce? L’uomo ha il libero arbitrio, la facoltà di scegliere se fare il bene o il male. E’ ciò che ci rende simili al Padre.-
-Credimi, Gesù. Lassù pensano ad altre cose, come giocare con il destino e le vite degli uomini, per esempio-, dissi quasi senza pensarci, con una nota di tristezza. Il mio amico si accorse del cambiamento della mia voce e si accigliò.
-Sembra che tu non abbia una grande opinione di chi ci guarda dall’alto.-
-Diciamo che gli Dei hanno giocato un po’ troppo con la mia vita.-
-Forse gli Dei di cui parli lo hanno fatto, non certo il Dio che io conosco. Per quanto grandi ti sembrino le tue sventure, egli ha un progetto per tutti noi e ciò che fa lo fa a fin di bene.-
-E’ bello ciò che dici, Gesù-, gli dissi seriamente. –Ma il mondo di cui parli non è il mio mondo.- Eravamo entrambi a torso nudo e la mia lunga cicatrice risaltava sulla pelle sudata per il tanto lavoro. Gliela indicai. –Ecco il marchio che quello che tu chiami Padre mi ha lasciato, se davvero è stato lui.- Sbattei con violenza il palmo della mano su di una tavola di legno spezzata, piantandomi una lunga e affilata scheggia di legno nella carne. Insensibile al dolore, levai la scheggia e mostrai a Gesù la ferita che si richiudeva. –Mi ha dato l’immortalità, costringendomi a vagare ramingo su questa terra, a vedere le persone che amo invecchiare e morire, a straziarmi per la loro perdita. Ho combattuto battaglie e sparso molto sangue, e tutto con la spada che Egli mi ha dato.- Gesù aveva osservato il miracolo della mia guarigione con stupore ma senza proferire parola. –Il mondo di cui parli, amico mio, non è il mondo in cui vivo io.-
-Comprendo la tua amarezza, Khalàd, ma continuo a pensare che se il Padre ti ha donato il potere di vivere in eterno, deve esserci un perché. Tu disprezzi la vita che ti ha donato ma in realtà disprezzi te stesso per quello che hai fatto in tutto il tempo che hai vissuto.-
-Presumi di sapere troppe cose, Gesù-, lo apostrofai con una punta di irritazione. Mollai l’attrezzo che avevo in mano e feci per andarmene. Ne avevo passate troppe per farmi giudicare da un “ragazzino”.
-Khalàd. Un’ultima cosa.-
-Che vuoi?-
-Solo dirti che se il Padre ti ha ritenuto degno, unico tra gli uomini, per possedere un tale potere, allora devi essere un grande uomo.-
Me ne andai senza dire una parola. Gesù mi aveva scosso perché nella mia irritazione vidi la fondatezza delle sue parole. Che io davvero disprezzassi me stesso per tutto il sangue che avevo versato? Ero stato davvero costretto a farlo o ci sarebbero state altre soluzioni. Solo in quel momento, appoggiato al bordo del lavatoio, mi accorsi che togliere la vita agli altri era sempre stato per me la via più semplice e rapida per risolvere le mie battaglie. Era vero. Io mi disprezzavo perché non avevo saputo usare il dono più grande che gli Dei, o Dio, hanno dato agli uomini. La facoltà di scegliere la via giusta anziché la più facile.

-Ma le situazioni in cui ti trovasti, i pericoli che hai corso, non giustificavano forse il fatto che tu ti eri difeso?- mi chiede mia nipote perplessa.
-Apparentemente è vero ma Gesù, anche se non me ne accorgevo, mi stava insegnando a guardare dentro di me, a fare una dura e crudele introspezione. Stavo imparando a vedere il marcio che avevo dentro e a guarirlo con la consapevolezza delle mie doti e dei miei limiti.-
-Non capisco…-
-Lui diceva sempre una cosa. Siamo creature di Dio, suoi figli. Ci ha concesso dei doni e delle capacità che ci rendono simili a Lui. Dobbiamo solo imparare a riconoscerli e a sfruttarli al meglio.-
-Ancora non capisco, nonno.-
-Non preoccuparti, bambina mia. Ci ho messo anni a capire il senso di quelle parole.-

Quella sera, dopo una cena silenziosa che fece preoccupare un po’ Maria, andai a cercare Gesù. Era seduto sul retro della casa, dove il muro di cinta formava un piccolo cortile. Le stelle brillavano alte in cielo.
-Ti devo chiedere scusa, amico mio-, esordii un po’ in imbarazzo.
-E di cosa? Siediti. Contempliamo insieme la casa del Padre.-
-Di essermene andato in quel modo. Ho riflettuto sulle tue parole e in fondo credo tu abbia ragione.-
Gesù sorrise. –Avevo ragione davvero. Sei degno del grande dono che ti è stato concesso perché conosci l’umiltà. Devi solo imparare ad usarlo. A capirne lo scopo.-
-Non sono l’unico-, dissi seriamente all’improvviso. -Da quanto ne so, credo ci sia almeno un altro uomo con il mio stesso potere-, gli confidai ripensando alle parole di Achille in punto di morte. “Non sei unico. Sei come Lui.”
-Allora speriamo per il bene del mondo che sia come te. Non riesco davvero ad immaginare quanto dolore potrebbe portare sulla terra un essere simile se fosse animato dal male.-
-Cosa dovrei fare, Gesù? Abbandonare la via del guerriero e votarmi ad aiutare gli altri, anziché ucciderli? Non posso lasciare la strada che ho intrapreso, non più. Che significato avrebbe altrimenti la spada che mi è stata data con l’immortalità?-
-Le tue sono giuste domande, Khalàd-, iniziò il mio compagno alzando lo sguardo al cielo. Un’aura di pace avvolgeva il suo corpo e sarei rimasto li ad ascoltarlo per secoli, tanto la sua voce toccava la mia mente e il mio cuore. –Domande giuste e semplici nelle loro pretese. Le risposte, tuttavia, sono ardue da trovare e complicate. Risposte che io non posso darti. Nessuno può farlo all’infuori di te. Cercale dentro il tuo animo e fidati del tuo cuore. Non ti tradirà.-
-La domanda che ti ho posto è più immediata-, insistetti. –Continuare a togliere la vita o preservarla?-
-Solo Dio può dare e togliere la vita. A volte agisce direttamente, altre volte con gli strumenti più impensabili. Forse anche tu, in certe occasioni, sei stato un suo strumento. Quello che so e che posso dirti è che il Padre chiede solo che la vita, il suo dono più prezioso, venga rispettata.-
Restammo in silenzio per qualche minuto, poi parlai. –Il carro è quasi finito. Tra qualche giorno ripartirò. Sono mancato anche troppo tempo dal mio gregge.-
-Lo so. Ma spero porterai con te le mie parole, amico. Potrai anche non crederci ma nei pochi giorni che abbiamo lavorato fianco a fianco ho imparato a conoscerti e ad apprezzarti. A volerti bene come ad un fratello.-
-Non dubitarne, Gesù-, lo rassicurai alzandomi dalla panca. Era tardi ed ero molto stanco. Feci per andarmene.
-Un’ultima cosa, Khalàd. Tu percorri la via del guerriero ma ricorda questo. Anche il guerriero più grande ha rispetto per la vita, indifferentemente da quale divinità sia protetto.-

-Un insegnamento personale di Cristo in persona-, esclama Cristina incredula. –Ma parole del genere non sono contemplate nei Vangeli…-
-E mai vi saranno perché sono la dimostrazione della Sua umanità. Pensieri del genere smantellerebbero l’aura di onniscienza che nei secoli è stata costruita attorno alla figura di Gesù.-
-Lo rivedesti?-
-Come non avrei mai voluto-, rispondo con gli occhi che mi si inumidiscono.

Lasciata la casa di Gesù e Maria tornai al mio gregge che, in mia assenza, era stato ben accudito dai miei aiutanti. Tuttavia, quando da lontano rividi la familiare marea di lana bianca in movimento, tornai a provare l’ormai familiare senso di inquietudine che mi spingeva ad abbandonare un luogo per continuare il mio viaggio nel tempo dalla meta ignota. Iniziavo a comprendere quello strano meccanismo. Sembrava avessi un compito da assolvere in ognuno dei luoghi in cui mi fermavo, esperienza da acquisire, insegnamenti da apprendere. Evidentemente la mia vita di pastore felice stava per finire.
Comunicai la mia decisione ai miei aiutanti, assieme alla notizia che avrei spartito tra di loro, in parti uguali, l’intero gregge. Erano tutti giovani e nessuno di loro aveva ancora preso moglie. Presentarsi al padre dell’amata possedendo già un proprio gregge di pecore era segno di ricchezza e prestigio tra il popolo dei pastori erranti. Sarebbero stati considerati dei grandi signori tra la loro gente. Effettuai la spartizione in una sola settimana e li lasciai andare per la loro strada. Mi affezionavo sempre ai miei aiutanti e un addio molto breve rendeva meno doloroso il distacco.
Diressi i miei passi verso sud, verso la Giudea, precisamente Gerusalemme. I romani avevano usato il pugno di ferro su quella città e i governatori che si erano succeduti al comando della provincia erano riusciti ad imporre una seppur fragile stabilità. Era divenuto un buon ambiente per fermarmi per un po’ e magari fare qualche affare. Attraversando la porta principale della città, notai subito la massiccia presenza di legionari romani a pattugliare le strade affollate di gente. Gerusalemme era un città tranquilla, viva e… armata.
L’affare che cercavo si concretizzò in una taverna. Era vicina ad una caserma romana e gli ebrei non volevano averci nulla a che fare con i loro invasori. Io però non ero ebreo e riuscii a spuntare un buon prezzo per comprarla. I miei clienti più fedeli sarebbero stati proprio i romani. Non era un gran cosa come sposto, un semplice scantinato con un bancone per mescere le bevande e dei vecchi tavolacci di legno. Il precedente proprietario l’aveva chiusa durante gli anni delle rivolte e non l’aveva più riaperta. Mi ci vollero due intere settimane di lavoro per ripulire tutto dalla polvere e riparare i danni provocati dal tempo, più un’altra settimana per ottenere le forniture di vino e cibo da servire. Assunsi alcuni aiutanti per la cucina e per servire ai tavoli e, finalmente, dopo un mese, riuscii ad aprire ai soldati.
I romani presero con entusiasmo quella novità e fin dalla prima sera si riversarono in massa nel mio locale. In dieci giorni riguadagnai tutto il denaro speso per comprare la taverna.

-Avevi davvero fiuto per gli affari, nonno-, si complimenta Cristina.
-Modestamente me la sapevo cavare-, mi vanto un po’. –Nella mia vita ho fatto innumerevoli mestieri e ho guadagnato montagne di denaro. Devo dire, però, che in alcuni casi ho avuto anche la fortuna dalla mia.-
-Dimmi un po’. Ai soldati vendevi solo cibo e vino o anche qualche altro “servizio”?- mi chiede con quella punta di malizia che fa impazzire gli uomini… e lei non se ne accorge.

Naturalmente non puoi gestire una taverna di soldati senza offrire loro anche la compagnia. Avevo assunto un po’ di donne disposte a far compagnia ai legionari e una stanza attigua alla sala comune della taverna era stata adibita ad alcova per prestazioni sessuali. I miei avventori gradirono molto e in meno di un anno la mia taverna divenne la più popolare di Gerusalemme. Non tutti i romani venivano da me, chiaramente. Gli ufficiali non si sarebbero mai fatti vedere in una taverna da soldati anche se, qualche volta, ne riconobbi qualcuno che tentava di non farsi notare tra la folla dei clienti.
Gli ebrei non vedevano di buon occhio la mia attività. Guadagnavo troppo per i loro gusti e, soprattutto, allietavo i loro invasori. Nell’anno 18 d.c. venne eletto a capo del Sinedrio ebraico il Gran Sacerdote Caifa, un uomo duro e intransigente che aveva dato il via ad una feroce campagna di moralizzazione nei confronti dei suoi compatrioti, rei, secondo lui, di aver smarrito la strada tracciata da Dio per il suo popolo eletto. Inizialmente si limitò alle prediche nel Tempio e a qualche strombazzata in piazza. Con molta pazienza la sua perseveranza venne premiata, nel senso che riuscì a riaccendere le tensioni tra ebrei e romani e a fomentare disordini. Molti dei centurioni e dei decurioni che passavano alla mia taverna mi confidavano che la cosa stava per prendere una brutta piega e che temevano una nuova stagione di rivolte.
-Il governatore risponderà con fermezza, come l’altra volta-, mi limitavo a rassicurarli.
-Stavolta è diverso, amico mio-, mi disse un centurione mentre gli servivo da bere. -L’altra volta erano gruppi sparsi e disorganizzati che creavano disordini. Questa volta hanno una mente che li controlla. Il Sommo Sacerdote Caifa fa di tutto per tenersene fuori ma è lui a tirare i fili dei fanatici che stanno, giorno dopo giorno, istigando nuovamente la popolazione contro di noi.-
Era il 28 d.c. quando il Sommo Sacerdote Caifa, accompagnato dai suoi sgherri, venne personalmente a farmi visita alla mia taverna.
-Straniero-, iniziò pomposamente. A prima vista sembrava un qualunque gradasso ma, guardandolo bene, capii che era un politico astuto e senza scrupoli. –Tu alimenti il peccato in questa città! Ti arricchisci con il loro denaro in questo luogo di nefandezze e lussuria! Vattene finché sei in tempo! Prima che l’ira di Dio si abbatta su di te!-
Feci finta di non sentirlo e mi preoccupai di mandare una ragazza a servire i pochi avventori di quell’ora tarda della sera.
-Il Sommo Caifa parla con te, straniero!- mi apostrofò in malo modo uno dei bravacci del sacerdote.
-L’ho sentito. Ora che ha parlato ve ne potete anche andare-, risposi senza neppure guardarli in faccia.
-Attento a te, uomo. Non sfidare la collera di Dio-, sibilò tra i denti il capo della delegazione.
-Non devo sfidare la collera di Dio o la tua, Caifa?- lo sbeffeggiai apertamente. –Pensi che i romani non sappiano che dietro a tutti questi disordini ci sei tu? Esci dalla mia taverna, sacerdote, e non tornare mai più.-
Furente di collera, il Sommo Sacerdote del Tempio si voltò e se ne andò, seguito dai suoi zeloti. Sapevo che non era finita li e una sera, dopo aver chiuso i battenti della taverna, mi trovai accerchiato da una ventina di persone armate di coltello.
-Siete proprio degli stolti-, dissi loro estraendo al spada. –Attaccarmi a due passi da una caserma piena di legionari.
-Noi siamo protetti da Dio, taverniere! Nessuno potrà farci del male!- esclamò uno di loro prima di partire all’attacco, seguito a ruota dai suoi compagni.
Neutralizzai i loro attacchi con una certa difficoltà. I corti coltelli erano più agili della mia spada, tuttavia ne ferii alcuni prima ancora che riuscissero a sfiorarmi e questo spense un po’ la loro foga. Il secondo attacco, infatti, fu meno irruento ed ebbi il tempo di occuparmi singolarmente di ognuno di loro. Stavo per trapassarne uno con la mia micidiale spada egizia quando qualcosa mi fermò. “Un guerriero ha rispetto per la vita” aveva detto Gesù. Era davvero necessario uccidere quegli uomini? Se ne avessero avuto l’occasione loro lo avrebbero fatto. Io però gli ero superiore e… potevo scegliere. Girai la spada di piatto e colpii l’uomo che avevo di fronte sulla testa, tramortendolo. In poche rapide mosse feci lo stesso con gli altri e dopo pochi minuti i venti aggressori erano a terra, disarmati e addormentati. Un centurione che rientrava in caserma dal suo servizio mi corse incontro sguainando il gladio. Lo riconobbi quasi subito perché era un mio amico, Sextus Galbo
-Cosa succede qui? Stai bene, Khalàd?-
-Si, Sextus. Non preoccuparti. Mi hanno aggredito mentre uscivo dalla taverna.-
-Sono sicuramente zeloti del Tempio, mandati da Caifa per eliminarti e dare l’esempio a chi vuole mettersi contro di lui.-
-Non ci sono prove, amico. Ma se davvero è stato Caifa lasciamoli tornare da lui.-
-Ma sono criminali! Devono essere puniti!- insistette il centurione romano.
-La decisione spetta a te, è vero, ma io ti suggerirei di rivoltare il piano del Sommo Sacerdote contro di lui.-
Sextus alzò un sopracciglio. –Che cosa hai in mente, Khalàd?-
-Questo.- Con la punta della spada ferii leggermente la fronte di ognuno dei sicari in modo da lasciargli una cicatrice ben visibile. –Ecco fatto-, dissi rinfoderando la spada. –Che tornino pure da Caifa, adesso. L’avvertimento a non tentare altri scherzi sarà per lui.-
-Davvero crudele e umiliante, taverniere-, esclamò Sextus con un ghigno diabolico. –Faremo così, tuttavia voglio seguirli quando se ne andranno. Voglio vedere dove vanno.-
-Fai come vuoi, ma stai attento. Quando si radunano in molti, questi zeloti sono pericolosi.-
Rividi Sextus la sera seguente, quando ancora la taverna era mezza vuota.
-Com’è andata ieri sera?- gli domandai.
-Come avevi previsto. Sono andati davvero al Tempio e ne sono usciti pochi minuti dopo, correndo.-
-Spero che quel pazzo fanatico abbia recepito il messaggio-, commentai servendo da bere al centurione.
-Di questi tempi, Caifa ha molto a cui pensare.-
-Che intendi dire?-
-Voci dalla Galilea. Sembra che un uomo, una specie di predicatore, vada di villaggio in villaggio a parlare di amore e fratellanza e mettendo in discussione i dettami della religione ebraica. Dicono che faccia anche dei miracoli. Che resusciti la gente morta, che ridia la vista ai ciechi e la parola ai muti. I sordi tornano a sentire e gli storpi a camminare.-
-E Caifa è preoccupato perché teme che prima o poi venga a predicare anche qui, in Giudea-, aggiunsi sorridendo.
-Appunto. La gente lo chiama già il Messia di Dio. Viene da…-
-Nazaret-, lo interruppi. –Si chiama Gesù di Nazareth.- Non avevo dubbi che si trattasse di lui.
-Lo conosci?!- mi chiese Sextus sgranando gli occhi.
-Lo conosco molto bene. E’ un mio caro amico. Abbiamo una visione un po’ diversa del mondo ma ha buone argomentazioni.-
-Tra qualche giorno partirò proprio per la Galilea, per portare dispacci ad Erode da parte del governatore. Se ne avrò l’occasione voglio fermarmi a sentire ciò che dice. In molti si radunano per ascoltare le sue parole.-
-Se avrai modo di incontrarlo, Sextus, portagli i miei saluti.-
-Non mancherò.-
Gli echi della vita pubblica di Gesù non tardarono ad arrivare anche in Giudea, nonostante il mio amico rimanesse a predicare nella sua terra d’origine. Sextus, che svolgeva l’incarico di corriere e portaordini per l’alto comando romano, si fermava spesso a sentire le prediche di Gesù, quando passava dalle sue parti. Ricordo ancora ciò che mi disse una volta, dopo essere tornato da uno di quei raduni.
-Quell’uomo è pericoloso, Khalàd.-
-Pericoloso?! Non ricordo di aver conosciuto uomo più mite di lui!- esclamai stupefatto all’affermazione del centurione.
-Proprio per questo. Parla di amore, di pace, di speranza in un mondo governato dalla violenza. Con le folle che si radunano ad ascoltarlo, prima o poi qualcuno si infastidirà.- Cercava di dirmi qualcosa.
-Parla chiaro, Sextus. Niente enigmi. Che sta succedendo?- gli domandai senza mezzi termini.
-Gesù ha iniziato a predicare in Giudea e sembra abbia intenzione di venire qui, a Gerusalemme. Vuole parlare ai sacerdoti del Tempio.-
-E?-
-Ho intercettato un’informazione, al comando. Sembra che il Sinedrio abbia chiesto al governatore di impedire a Gesù di entrare in città e di arrestarlo perché turba l’ordine pubblico.-
-Il nazareno sta minando l’autorità del Sinedrio e Caifa vuole correre ai ripari. Tuttavia non credo che il governatore possa accettare una richiesta simile.-
-Da quello che ho capito non lo farà-, affermò il romano vuotando il bicchiere. –Molti ufficiali, però, sono irrequieti. Prevedono guai grossi.-
Era l’inizio dell’anno che noi chiamiamo 33 d.c., il diciannovesimo di Tiberio imperatore. Le notizie su Gesù e sui suoi miracoli si moltiplicavano di giorno in giorno e i romani miei clienti, sebbene a loro non importasse nulla di lui, si facevano sempre più preoccupati. In città la tensione stava salendo, alimentata anche dagli zeloti di Caifa che diffondevano sospetti e false dicerie sul mio amico predicatore. Con scarsi risultati, in verità, perché il giorno in cui Gesù fece il suo ingresso a Gerusalemme, in sella ad un asino, centinaia di persone andarono ad accoglierlo, salutandolo agitando e stendendo davanti a lui grandi foglie di palma. Furono giorni movimentati e, in alcuni momenti, carichi di tensioni. Tutti, ebrei e non, per un motivo o per l’altro, attendevano che Gesù parlasse pubblicamente ai sacerdoti del Tempio.
Fu l’occasione in cui lo rividi dopo tanti anni. Non sembrava molto più vecchio del giovane falegname che avevo conosciuto, eppure dalla sua figura emanava un senso di pace, una maturità dello spirito che non avrei mai creduto possibile in un uomo. Invidiavo quello stato d’essere perché io lo avevo cercato per molto tempo, senza mai trovarlo.
Portai con me la mia fedele spada egizia. Gli zeloti erano ovunque e i discepoli che Gesù aveva raccolto attorno a se non sembravano guerrieri in grado di difenderlo all’occorrenza. Mi appostai in un angolo del grande Tempio d’Israele, il luogo più sacro di tutta la religione ebraica e sede del Sinedrio guidato da Caifa. Mentre Gesù parlava ai sacerdoti, tenevo i miei sensi animali ben svegli. C’erano anche degli ufficiali romani ma non so se sarebbero intervenuti in caso di disordini. La situazione si fece tesa quando l’oratore, dopo essersi proclamato un figlio di Dio, iniziò ad accusare direttamente i sacerdoti, additandoli come adoratori del potere più che del Signore. La sollevazione del Sinedrio fu immediata e Caifa strillava più degli altri. Solo uno rimase seduto e pensieroso, un uomo di mezza età dai capelli e la barba scuri. Fissava Gesù con occhi indagatori.
-Chi è quell’uomo che rimane seduto mentre gli altri inveiscono contro il nazareno?- chiesi ad una donna accanto a me.
-E’ Giuseppe di Arimatea, uno degli ultimi ad essere entrati a far parte del Sinedrio. E’ il principale oppositore del Sommo Caifa.- Un uomo che sapeva ascoltare, nonostante ritenessi che Gesù stesse correndo troppo.
Terminato il suo discorso, Gesù lasciò il Tempio seguito dai suoi dodici discepoli. I temuti disordini non scoppiarono e sia io che i romani tirammo un sospiro di sollievo. Quando fui fuori, una voce familiare ma più profonda e calma di quanto la ricordassi mi chiamò per nome.
-Khalàd!- Mi voltai e vidi Gesù che mi veniva incontro. Ci abbracciammo come fratelli. –Sono felice di vederti dopo tanto tempo.-
-Anche io, Gesù-,lo salutai con affetto. –Vedo che non hai ancora rinunciato a cambiare il mondo.-
-E mai lo farò finché avrò vita in corpo. Il Padre mi ha affidato la missione di portare la Sua parola nel mondo e io semplicemente obbedisco.-
-Stai attento però. Gerusalemme è diversa dalle campagne della Galilea. Qui comanda il Sinedrio che hai appena offeso e sopra di esso c’è l’aquila di Roma.-
-Anche loro si dovranno piegare all’avvento del Regno dei Cieli governato dall’amore del Padre.-
Sospirai. –Inutile farti ragionare. Come al solito.-
-Ora devo lasciarti, amico mio. Altri impegni mi attendono ma sarò felice di rivederti presto.-
-Buona fortuna, Gesù, e rammenta il mio consiglio. Stai attento. Gli zeloti di Caifa sono dappertutto.-
-Me ne ricorderò.-

-Era già a conoscenza della sorte che lo attendeva?- mi domanda Cristina ansiosa.
-Non ne ho idea. Sono sempre stato bravo a capire le persone ma l’animo di Gesù rimase impenetrabile anche per me.-
-Chi fu a spingere i romani ad arrestare Cristo?-
-Gli zeloti di Caifa, com’era prevedibile. Grazie a Sextus e ai suoi amici ero sempre informato su ciò che accadeva in città. La mia consolazione era che almeno i romani sapevano che Gesù non centrava nulla con i disordini che stavano nascendo in ogni parte della città.-

-Il nuovo governatore, Ponzio Pilato, è all’esasperazione-, mi disse una sera il mio amico centurione. –Non passa giorno che non riceva una lettera del Sommo Sacerdote nella quale è invitato a prendere provvedimenti contro il “sollevatore del popolo”.-
-E che farà Pilato? Gli darà retta?- domandai preoccupato.
-Pax Romana, amico mio. Ciò che non si può chetare con gli ammonimenti, Roma lo ammansisce con la forza. Alla fine credo che cederà, se non altro per far star zitto quel seccatore.-
-Cosa può accadergli, Sextus?-
-Probabilmente lo arresteranno temporaneamente. Pilato non ha nessuna prova che lui fomenti i disordini e cercherà una soluzione pacifica per calmare le acque.-
La previsione del centurione romano si avverò. Gesù fu arrestato pochi giorni dopo e portato davanti al governatore. Una grande insurrezione era scoppiata tra il popolo che, solo qualche giorno prima, chiamava Gesù il Messia. Seppi che Caifa aveva fatto distribuire in segreto pane, olio e vino ai frequentatori del Tempio e ora questi avevano un nuovo soprannome per il mio mistico amico: “bestemmiatore”.

-E’ vero che Pilato, per togliersi d’impiccio, mandò Gesù da Erode, per essere giudicato dal suo re?-
-Solo diceria. Ci fu soltanto uno scambio di lettere. In pratica Pilato chiedeva a Erode di occuparsi del caso, o meglio, di riprendersi Gesù in Galilea e di tenerlo lontano dalla Giudea.-
-Ed Erode, che non era uno stupido, non ci pensò neppure a prendersi una tale grana-, butta li mia nipote concludendo per me.
-Appunto.-

Il governatore di Giudea da poco insediato, Ponzio Pilato, era stato elevato a quella carica dall’imperatore Tiberio quasi sulla fiducia. Ora non poteva mostrare al mondo che non era capace di sedare neppure una rivolta. Alla fine fu costretto ad istituire un pubblico processo. Pensavo che Gesù se la sarebbe cavata con poco, invece, quando giunsi nella piazza dove sarebbe stato giudicato alla presenza del comando romano e del Sinedrio, una gran folla si era radunata e tutti chiedevano che il “bestemmiatore” fosse messo a morte. Non potevo crederci. Gesù messo a morte perché predicava la pace e l’amore. Strinsi pugni per la rabbia fino a farmeli sbiancare ma mi trattenni dal farmi largo tra la folla per liberarlo.
Parlò Pilato. –Accusate quest’uomo di essere un bestemmiatore, di istigare la folla alla rivolta-, urlò il governatore rivolto alla folla.
-A morte! Mettetelo a morte! Bestemmia contro Dio!- urlava la gente in risposta.
Il governatore si fece pensieroso, poi parlò a Gesù. –Hai sentito le accuse. A me non interessa la vostra religione ma mi preme sapere se è vero che istighi la folla alla rivolta contro Roma.-
Astuto, pensai. Nessuno poteva dire che Gesù fosse contro Roma… se non lui stesso.
-Roma non sarà mai eterna come il Regno dei Cieli di cui parlo, del Regno di Dio di cui porto la parola-, disse in risposta il nazareno. –Roma cadrà ma la parola di Dio continuerà a vivere nei secoli a venire.- Capii subito che con quelle parole si era condannato da solo.
-Non mi lasci altra scelta-, esclamò Pilato scuotendo il capo mentre la folla continuava a chiederne la morte. –Gesù di Nazaret-, disse il governatore della Giudea. –Ti condanno alla flagellazione per istigazione alla rivolta contro il governo imperiale della Giudea. Eseguite e poi riportatelo qui. Che tutti vedano come viene trattato chi si rivolta contro Roma.-
Me ne andai mentre lo portavano via. Non volevo vedere in che stato lo avrebbero ridotto. Conoscevo abbastanza i romani da sapere che avrebbero dato il peggio di se stessi nel fustigarlo. Non potevo fare nulla, se non curargli le ferite quando lo avrebbero rilasciato e cercare di inculcargli in testa un po’ di buon senso. Me ne tornai alla taverna. C’era poca gente nonostante fosse l’ora in cui molti soldati smontavano dal servizio. Erano tutti andati a vedere “l’istigatore di folle”. Stavo per andare in cucina a prendere qualcosa da mangiare quando un uomo che sedeva solitario ad un tavolo attirò la mia attenzione. Aveva di fronte una caraffa di vino e una ciotola che continuava a riempire.
-Io so chi sei-, gli dissi avvicinandomi. –Ti ho visto al Tempio. Sei uno del Sinedrio. Giuseppe di Arimatea, se non sbaglio.-
-Sono io. Siediti, amico. Aiutami ad affogare il dispiacere nel vino-, rispose lui facendomi cenno di sedermi. Detti ordine di farmi portare da mangiare e mi sedetti con l’ebreo.
-Di cosa sei dispiaciuto? Di aver contribuito a farlo arrestare?- lo incalzai un po’ acidamente.
-No. Di non aver denunciato il complotto per consegnarlo ai romani. E’ un uomo dal cuore buono e non merita questo.-
-Di quale complotto stai parlando?!- gli domandai quasi alzandomi dalla panca.
-Caifa, oltre ad aver comprato il popolo con doni preziosi quali l’olio e il vino, ha sparpagliato i suoi zeloti a creare guai. Sono stati loro a sollevare i cittadini di Gerusalemme e a tutti dicevano che agivano per ordine del Messia di Nazaret.-
-Dannato demonio!- inveii. –Chi ha condotto i romani da Lui? Chi ha testimoniato su quelle falsità?!-
-Caifa ha comprato un suo stesso discepolo per una manciata di monete d’argento. Giuda, credo si chiami.-
Tradito dai suoi stessi fedeli. Era troppo. Mi alzai di colpo e andai nel magazzino dove tenevo nascosta la mia spada benedetta dal Dio dell’uragano, Seth.
-Vuoi fare ammenda, Giuseppe?- gli chiesi tornado verso di lui.
-Cosa vuoi fare?!- mi chiese sbarrando gli occhi vedendomi così infuriato.
-Vuoi fare ammenda?!- ripetei spazientito.
–Porterò il peso della colpa per il resto dei miei giorni. Ho tradito un vero figlio di Dio, ma se posso lo aiuterò.-
-Bene. Dimmi dove si riuniscono i fanatici di Caifa. Devo prenderne uno vivo e portarlo da Pilato a confessare.-
-Uno vivo?! Vuoi ucciderli?!-
-Ho promesso a Gesù che avrei avuto più rispetto per la vita umana. Spero solo che non mi costringano a infrangere quella promessa.-
-Hanno il loro covo in una casa attigua al Tempio, sul lato occidentale.-
-Vai al processo, Giuseppe. Stagli vicino, almeno. Ho un brutto presentimento e siamo solo a mezzogiorno. Le cose hanno ancora molte ore di luce per peggiorare. Quando arrivo, annuncia che Khalàd il taverniere vuole parlare alla folla. I romani mi conoscono bene e mi ascolteranno.-

-Cosa facesti? Non era certo la vendetta che Gesù ti chiedeva-, mi domanda Cristina perplessa.
-Nessuna vendetta. Il mio scopo era proprio quello di smascherare Caifa. Non sapevo ancora che era già tardi-, le rispondo chiudendo gli occhi per continuare a ricordare.

Trovai gli zeloti proprio dove Giuseppe mi aveva detto ma prima di arrivare sul posto, nel bel mezzo di una strada deserta, trovai un uomo dalle vesti impolverate che piangeva, steso a terra nella polvere.
-Cosa ti è successo? Perché piangi in quel modo?-
-Piangere è il minimo… per un traditore…-, mi disse tra i singhiozzi. Vidi appeso alla sua cintura un borsellino di tela che tintinnava ogni qualvolta lo sconosciuto faceva un movimento. La rabbia del leone montò dentro di me.
-Giuda!- ringhiai come una belva. –Tu l’hai tradito!- gli urlai contro come una belva, puntandogli la spada alla gola.
-Uccidimi. Me lo merito-, implorò.
Volevo farlo ma la promessa fatta a Gesù mi tratteneva. –Se vuoi morire ucciditi da solo. Non vali tanto da sporcare la mia lama con il tuo sangue-, gli dissi con lo sguardo più feroce che potessi mostrare. Seppi in seguito che aveva restituito il denaro al Tempio e che si era impiccato quella stessa sera ad un albero, appena fuori le mura della città.
Giunto alla casa degli zeloti valutai la situazione. Non avevo tempo per le entrate furtive quindi sguainai la spada e irruppi nella casa abbattendo la porta come una furia.
-Venite con me-, dissi soltanto. –Al processo hanno desiderio di sentire quello che avete da dire.-
-Il taverniere amico dei romani! Uccidiamolo! Il Sommo Caifa pagherà una cospicua ricompensa per la sua testa!-
Mi aggredirono tutti assieme. Sembrava una scena già vista trentatre anni prima, quando in una piccola stalla avevo combattuto contro i sicari di Erode per proteggere Gesù. Ora li avrei uccisi per salvarlo. Schivai tutti i fendenti dei loro pugnali e con uno slancio sovrumano schizzai in strada, trascinandomi dietro i seguaci di Caifa.
-Khalàd!- sentii chiamare alle mie spalle. Era Giuseppe di Arimatea che correva a perdifiato verso di me. –Khalàd! Lo hanno condannato a morte!-
-Che cosa?! Com’è possibile!-
-Cotinuavano a chiedere che lo uccidessero e alla fine Pilato ha ceduto! Lo crocefiggeranno tra meno di due ore!-
-Dobbiamo fermarli!- esclamai voltandomi nuovamente verso gli zeloti. Alcuni alla notizia avevano persino esultato. Scattai in avanti e, senza nessuno scrupolo, uccisi tutti quei fanatici prima ancora che i loro cadaveri toccassero terra. Afferrai l’ultimo rimasto vivo e gli puntai la spada alla gola.
-Vieni con me di tua spontanea volontà o ti devo trascinare?!- gli urlai contro. Quello, senza esitazione, si piantò il pugnale nel petto e si lasciò morire in mezzo alla strada. Era finita. Nessun testimone avrebbe potuto scagionare Gesù. Urlai contro il cielo, contro quella dannata divinità che si divertiva a farmi conoscere persone dall’animo straordinario e che continuava a portarmele via poco dopo.
-Khalàd. Non possiamo più fare nulla-, mi disse Giuseppe mettendomi una mano su una spalla. Lacrime di disperazione e d’impotenza mi rigavano il volto. –Facciamo almeno in modo che non muoia da solo.-
Annuii e mi feci condurre dall’ebreo sulla strada del dolore.
Gli avevano messo addosso una pesante croce di legno e in testa una corona di spine. Lo sbeffeggiavano chiamandolo Re dei Giudei, sputandogli addosso e ridendo di lui. Non sto a raccontare tutte le infamie che dovette subire perché sarebbe troppo doloroso. Il mio intero essere era svuotato di ogni sentimento, di ogni volontà di reazione. Mi facevo condurre da Giuseppe come un bambino, in lacrime.

-Deve essere stato terribile-, esclama Cristina con gli occhi lucidi.
-Si. In quel momento era come se sentissi dentro di me lo stesso lancinante dolore che tormentava lui. Essendo stato immortale, è uno strazio che mi porto ancora dentro.-
-Perché non lo salvasti? Avresti potuto…-
-Avrei potuto massacrare tutta la guarnigione romana e tutti gli zeloti. Avrei potuto impalare la testa di Caifa sulla sommità di quella croce. Avrei potuto fare un bagno di sangue e Gesù sarebbe stato salvo. Ma pensi davvero che lui avrebbe voluto questo?-
-No-, mi dice lei dopo un attimo di esitazione.

L’immagine più straziante, la scena che ha tormentato il mio sonno per molti anni in seguito, fu vedere Maria piangente osservare mentre gli uccidevano il figlio. Quando mi vide mi corse incontro e mi abbracciò senza dire una parola. I carnefici romani inchiodarono quel corpo martoriato dalle frustate alla croce, insensibili alle sue urla di dolore, e lo issarono sulla sommità della collina rocciosa chiamata Golgota, “luogo del cranio”, aumentando il suo tormento in modo inimmaginabile. Accanto a lui furono crocifissi anche due ladroni, come fosse egli stesso un comune criminale di strada.
-Padre!- gridò infine colui che mi aveva insegnato il valore della vita umana. –Padre! Perché mi hai abbandonato?!-
-Non ti ha abbandonato, Gesù!- gli gridai senza riuscire a smettere di piangere. –Non crederlo, o morirai per davvero!-
Il nazareno moribondo sollevò a stento la testa e mi guardò in volto, riconoscendomi. Mi sorrise, come a volermi dire che mi aveva sentito. Di colpo mi irrigidii. Sentivo una presenza ostile proiettare la sua ombra verso di me. Era lontana ma vicina allo stesso tempo. Tremai di rabbia e odio, stringendo i pugni e piantando saldamente i piedi per terra. La mia testa si voltò di colpo verso la vicina città. Puntai il mio sguardo nel cuore dell’abitato e, anche se non riuscivo a vederlo, sapevo che quell’entità era nello stesso edificio dove Gesù era stato torturato a morte.
Anche il viso di Gesù si contrasse. –E’ qui… Khalàd! E’ stato lui a…. Non è… come te… E’ malvagio…. Stai attento… allo sfreg….-. Non riuscì a dire altro perché la lancia di un soldato lo trafisse al costato, uccidendolo. Nel momento della sua morte, anche la presenza oscura si dissolse. Fu invece il sole ad oscurarsi, nella terza ora del pomeriggio, e sul mondo calò la tenebra.
Caifa non era presente. I sacerdoti suoi compagni del Sinedrio, però, che avevano assistito a quell’evento, caddero in ginocchio e si misero a pregare. –Dio, cosa abbiamo fatto?! Era davvero tuo figlio!-
Il sole tornò a risplendere poco dopo. Tutto era finito e tutto era tristezza. Giuseppe di Arimatea avanzò verso la croce e con una ciotola di coccio, simile a quelle che si usavano nella mia taverna, raccolse un po’ del sangue dell’uomo chiamato Messia, il nazareno, il Cristo, che scendeva in un rivolo sul ruvido legno romano. Fatto ciò, venne verso di me.
-Lo conserverò come la più sacra delle reliquie. Andrò via da questo luogo di dolore. Non voglio più saperne di Caifa e del Sinedrio. Contribuirò a diffondere la Sua parola-, annunciò l’ebreo tenendo tra le mani l’oggetto che sarebbe stato conosciuto in futuro come Santo Graal.
-Andrò via anch’io, Giuseppe. Ora che Lui è morto, qui mi sembra di stare in mezzo al nulla.-
Il mio nuovo amico era un uomo abbastanza facoltoso e comprò per il Messia un sepolcro nuovo, appena scavato nella montagna, poco lontano dal luogo dell’esecuzione. Tre giorni durò la permanenza di Gesù in quel tumulo, poi dissero di averlo trovato aperto, il sudario a terra, e il corpo sparito. Molti ne annunciarono la resurrezione. I più scettici e realisti ipotizzarono che i suoi discepoli avessero trafugato e nascosto il corpo per evitare profanazioni da parte degli zeloti del Tempio.
Io regalai la mia taverna a Sextus, che nel frattempo aveva abbandonato l’esercito per non dover più servire un governatore debole, senza il minimo orgoglio romano. Prima, Ponzio Pilato si era fatto condizionare da Caifa, senza imporre la legge di Roma, poi non aveva accettato la responsabilità della condanna, lavandosi simbolicamente le mani in pubblico per dimostrare che non erano sporche del sangue di Gesù.

-Non cercasti il Sommo Caifa per ucciderlo?-
-E a che scopo? Con la sua morte e ipotetica resurrezione, Gesù aveva già sconfitto il sacerdote del Tempio mille volte, delegittimandolo di fronte al suo stesso popolo. E poi, anche se me lo fossi trovato di fronte, in punta di spada, non lo avrei ucciso. Un uomo del genere non meritava di morire e sfuggire in questo modo al pubblico disprezzo.-
-Non hai conservato nulla di quel tempo, nonno?- mi chiede Cristina con un sospiro.
-Un aureo romano con l’effige di Tiberio e questa-, le dico porgendogli prima la moneta d’oro e poi un altro oggetto, una ciotola di coccio. –Me la consegnò Giuseppe di Arimatea poco prima di morire.-
Cristina esamina la ciotola e, appena vede che l’interno è macchiato di sangue, la lascia cadere. Sono lesto ad afferrarla prima che tocchi terra. -Ma sei matta?! Fai più attenzione! È un reperto unico!-
-Quello… quello.. è il…. Santo…-, balbetta quasi spaventata, facendosi il segno della croce più volte.
-Il Santo Graal? Si. E’ stato chiamato anche così, ma il suo vero nome è “ciotola di coccio”.-
-Come puoi essere così insensibile di fronte all’oggetto più sacro di tutta la cristianità?! E lo hai sempre avuto tu per giunta, mentre il mondo intero lo cercava!- Sembra quasi mi stia accusando.
-Cristina-, inizio con calma dopo aver riposto la ciotola nella cassa. –Quando lo hai toccato, hai sentito qualche potere particolare inebriarti il corpo?-
-No…ma…-
-E’ solo un pezzo di coccio antico. Non ha nessun potere divino. E’ un simbolo, se lo vuoi considerare tale.- Non mi sembra convinta ma comunque annuisce per dimostrare il suo assenso.
-Era davvero il figlio di Dio?-
-E che ne so? Non avevamo molte idee in comune. Io non so se abbia davvero fatto i miracoli di cui si parla nei Vangeli. Non so se Maria lo avesse davvero concepito rimanendo pura. Non so nulla di queste cose. Di Gesù di Nazaret posso dirti solo questo. Era un uomo. L’uomo dal cuore più grande che abbia mai conosciuto, libero da qualsiasi negatività immaginabile. Gesù era un uomo. Un uomo buono.-

2 commenti:

prova ha detto...

Non ho ancora letto questo capito, ma dev'essere splendido...
Colgo l'occasione per inserirti tra i miei link, complimenti, sarà un romanzo fantastico!

Luke Saints ha detto...

Grazie per il complimento, Matteo. Ho ricambiato inserendo il link al tuo blog, augurandoti buona fortuna per i tuoi racconti.