lunedì 2 giugno 2008

5 - LO SPIRITO DEL LEONE

Sono passati ormai quattro giorni da quando ho incontrato Cristina per iniziare il racconto della mia vita e oggi, finalmente, posso riprendere. Mia nipote mi ha chiesto una pausa per riflettere sulla mia storia e sugli oggetti che di volta in volta le mostro. Da l’impressione di volermi credere ma quella parte di lei che predomina, quella razionale, le dice che le mie sono tutte invenzioni. Sono stato io a proporle di portare la spilla di bronzo spartana ad esaminare, con discrezione s’intende, al laboratorio che serve l’università. E’ sicuramente un pezzo unico al mondo e forse riuscirà a convincerla un po’ di più che io ero li, al fianco di Leonida e dei suoi Trecento, a combattere per la libertà della Grecia.
Cristina bussa con garbo alla porta della mia stanza. E’ molto presto e il sole deve ancora spuntare ma ci sono tante cose da dire e il tempo sembra volare. Facciamo colazione insieme come l’altra volta, dopodiché torniamo a sederci accanto alla finestra, quella che da sul mare. Mi ha restituito la spilla ma non ha detto nulla in proposito. Evidentemente la sua speranza che fosse un falso è svanita presto. Credo cerchi disperatamente di trovare un appiglio razionale a quanto le sto narrando e il non riuscirci la pone in una situazione di forte contrasto interiore.
-Eravamo rimasti a Sparta, nonno-, mi dice posando sul tavolo il registratore digitale appena attivato.

Lasciai Sparta il giorno seguente al mio discorso al consiglio. Avevo assolto il compito affidatomi. Avevo scatenato contro Serse e i suoi Immortali il flagello più terribile che potesse scaturire dalla Grecia. Un intero esercito di spartani infuriati. Non era più affar mio ora. Potevo tornarmene a Tiro con il mio nuovo bagaglio di esperienza… e di dolore. La morte di Leonida fu un duro colpo per me, il secondo dopo la perdita di Ettore. Per la prima volta avevo trovato in solo uomo un guerriero mio pari, un amico e, soprattutto, un re giusto che aveva a cuore i suoi sudditi prima che se stesso. Ero deciso a tornare da dove ero partito vent’anni prima ma non avevo intenzione di restare. Il mio uomo di fiducia e i suoi figli si erano appropriati della mia attività ma questo lo avevo previsto. Mi presentai a loro come il figlio dell’antico padrone del conservificio, tanto per dare una spiegazione al fatto che vedevano un uomo totalmente uguale a quello partito due decenni avanti. Mi chiesero timidamente se avevo intenzione di riprendermi le proprietà di “mio padre”, ma si tranquillizzarono quando spiegai loro che non ero venuto per quello. Tuttavia, avevano ottenuto quella sorta di miniera d’oro che era la fabbrica praticamente gratis, quindi proposi loro di pagarmi almeno una piccola somma di denaro per il mio sostentamento personale. Non fecero obiezioni e l’affare fu fatto.

-Eri ancora in cerca di avventure? Qualcosa dentro di te ti diceva che dovevi andartene?- mi chiede Cristina in tono un po’ impertinente. Temo che in quattro giorni la parte razionale del suo cervello abbia conquistato dei punti.
-Stavolta ero proprio io a volermene andare. Volevo stare solo per un po’. Per un bel po’-, le rispondo in antico fenicio, un’altra lingua antica che solo poche persone al mondo sanno interpretare, figurarsi parlare correttamente come faccio io. Mia nipote la riconosce e sbianca.
-Scusami, nonno. Vai… avanti…-, balbetta, ancora inebetita per la sorpresa.
-Così va meglio, bambina mia-, le dico annuendo, poi le traduco quello che ho detto poco prima.

Volevo restare davvero solo con me stesso. Avevo molto su cui riflettere e nessun posto in cui ero stato in passato sembrava adatto per farlo. Decisi di dirigermi verso un qualche luogo che non avevo mai visto. Quando ero scriba in Egitto avevo visitato spesso, al seguito dei faraoni, le regioni della Nubia attraversate dal Nilo. Era una terra selvaggia, popolata da uomini forti dalla pelle nera e da bestie di ogni genere. I nubiani e i loro simili erano popoli che vivevano in tribù, in modo quasi primitivo, ma con un tessuto sociale molto complesso e ben organizzato. Decisi di esplorare quel continente semisconosciuto, così lasciai Tiro e tornai in Egitto. Evitai tutte le città e mi fermai nei villaggi lungo il Nilo solo per rifornirmi di acqua e cibo. Non mi interessava cosa accadeva in quella terra che per secoli mi aveva visto protagonista. Non volevo neppure sapere chi fosse il faraone, anche se ero a conoscenza che il paese era stato conquistato dai persiani e potevo immaginare chi si fosse proclamato re.
Seguii il corso del fiume fin nel cuore della Nubia, fino ad un luogo chiamato Abu Simbel, dove quattro enormi statue di un faraone egiziano facevano da guardia all’entrata di un imponente tempio. Era una costruzione colossale e stavolta la mia curiosità fu stuzzicata. Mi avvicinai all’edificio e lessi le iscrizioni alla base dei colossi di pietra. Si trattava di un tempio fatto costruire da Ramses II, il “Figlio della Luce” in onore della sua amata sposa Nefertari. Ciò che doveva essere con la restaurazione degli antichi Dei in Egitto era stato e me ne andai da li con la consapevolezza che la breve vita e il sacrificio di Tuthankamon non erano stati vani.
Abbandonai il Nilo e mi diressi verso sud-ovest, nel cuore del continente nero. Attraversai giungle e immense praterie e vidi animali di ogni specie, molte delle quali neppure conoscevo. L’acqua e il cibo erano difficili da trovare ma riuscii comunque a cavarmela. Alcune volte rischiai la vita, si fa per dire, passando involontariamente molto vicino a branchi di leoni o di giganteschi elefanti. Anche i serpenti non mancavano in quelle lande selvagge e fu proprio un rettile ad indirizzare il mio cammino, una settimana dopo che avevo lasciato i confini del regno d’Egitto. Avevo finito tutto il cibo e anche l’acqua era ormai agli sgoccioli. Era di primo mattino e la temperatura risultava ancora sopportabile. Nelle ore più calde della giornata ero costretto a fermarmi da qualche parte all’ombra, altrimenti il sole mi avrebbe bruciato il cervello. Stavo camminando in direzione di una catena montuosa che vedevo all’orizzonte, quando sentii una voce venire da un enorme albero frondoso del quale non avevo mai visto eguali. Pensai di aver sognato ma poco dopo la risenti. Una voce carica di tensione e paura. Feci il giro del tronco del grande albero e trovai una donna con in braccio un neonato. Avevano la pelle nera e lei era vestita di pelli e portava ai polsi, al collo e alle orecchie ornamenti colorati di vario genere. Parlava al bambino in modo sommesso, per non farlo piangere, ma non staccava gli occhi dal grande serpente nero che la teneva inchiodata con le spalle all’albero. Mi feci vedere ma ne lei ne il serpente si spaventarono. Il rettile, almeno, avrebbe dovuto. L’animale guardò con i suoi occhi gialli e malvagi la lama della mia spada arrivargli appena sotto la testa, che volò subito via con un piccolo schizzo di sangue. A quel punto la donna si rilassò impercettibilmente ma non abbandonò la sua posizione difensiva. Ora ero io il bersaglio del suo sguardo, assieme alla mia minacciosa spada sporca del sangue del serpente.
-Non ti farò del male-, provai a dire in nubiano, l’unica lingua dei popoli dalla pelle nera che conoscessi.

-Parlavi il Nubiano?! E come lo hai appreso?!- mi domanda sbalordita Cristina.
-Sono stato scriba reale in Egitto per sei secoli. Era il minimo per me conoscere la lingua di quel popolo tanto legato alla terra dei faraoni.-
-Ti sei mai annoiato in tutto quel tempo? Non dev’essere facile fare la stessa cosa tutti i giorni per seicento anni-, mi domanda con uno dei suoi caratteristici sprazzi di curiosità frivola e infantile.
-Imparare e studiare per me non è mai stato noioso. Avrei potuto continuare quella vita in eterno. Mi sono annoiato di più a Tiro, ad accatastare denaro per secoli.-
-La donna ti rispose?- torna a chiedermi riportando l’attenzione sulla mia storia.
-Si, ma in una specie di derivazione di quella lingua, quasi un dialetto.-

-Io ringrazio, uomo del nord-, riuscii a capire. I neri d’Africa chiamavano tutti quelli che avevano la pelle più chiara della loro “uomini del nord”.
-Mi chiamo Khalàd e vengo dalla Mesopotamia.- Sembrava non le importasse il mio nome. Continuava a stringere il bambino, che si era messo anche a piangere, e a guardare la mia spada. –Sei una nubiana?- Ancora nessuna risposta. Solo allora mi accorsi che fissava la mia arma. –Ora la metto via-, le dissi indietreggiando lentamente. Pulii la spada con dell’erba secca raccolta da terra e la rimisi nel suo fodero. Ne avevo trovato uno della misura giusta in Grecia, anche se i motivi tipicamente ellenici mal si abbinavano alla testa di sciacallo in stile egizio.
-Io no nubiana. Io “Popolo dei Leoni”-, rispose finalmente lei avvicinandosi a me. -Io Kuia. Lui Asun-, concluse presentando se stessa e il figlioletto.
-Tu sai dove posso trovare un po’ di cibo e acqua?- le chiesi indicando il mio otre ormai vuoto.
Si fece pensierosa, poi esitante. –In mio villaggio. Non lontano. Cibo e acqua.-
Ci incamminammo nella stessa direzione in cui ero diretto poco prima, ma non andammo molto lontano. Passate alcune macchie di alberi e aggirati dei branchi di animali per evitare di spaventarli, ci ritrovammo di fronte ad una bassa collina ai cui piedi sorgeva il villaggio di Kuia. L’abitato comprendeva circa un centinaio di capanne circolari fatte di legno, fango e paglia e il perimetro era delimitato da una robusta palizzata. I tronchi erano stati resi acuminati e puntati verso l’esterno, forse per tenere lontani gli animali feroci. All’entrata dell’insediamento erano appesi numerosi teschi che sembravano di leone.
-Aspetta qui-, mi disse la donna quando fummo prossimi all’entrata. –Chiedo a capo villaggio-.
Kuia oltrepassò il varco nella palizzata sul quale erano appese le teste di leone e scomparve tra le capanne. Intanto, molti bambini erano usciti e mi guardavano incuriositi da lontano. Fino a quel momento il villaggio era stato tranquillo ma, qualche istante più tardi, sentii levarsi diverse voci e poco dopo un gruppo di uomini, vestiti solo con una pelle di animale a cingere loro la vita, uscì minacciosamente dal villaggio e venne verso di me. Erano tutti alti e possenti, proprio come i nubiani che avevo conosciuto, ma questi erano diversi, avevano uno sguardo feroce negli occhi, simile a quello dei leoni a cui si paragonavano. Uno di loro, un uomo di mezza età con i capelli che iniziavano ad imbiancare, si fece avanti. Oltre a molti ornamenti colorati come quelli che avevo visto addosso a Kuia, l’uomo esibiva una strana cicatrice sul petto che andava a disegnare un leone stilizzato. Erano tutti armati di lancia dalla punta sottile ma letale.
-Io sono Uluda, capo di Popolo dei Leoni. Cosa cerchi tu qui?-
-Io sono Khalàd di Uruk. Cerco solo un po’ di cibo e dell’acqua per riempire il mio otre. E un posto all’ombra dove riposare un po’. Poi andrò via.-
Il capo Uluda mi squadrò da testa a piedi, poi annuì. –Hai aiutato mia sorella Kuia. Io do cibo e acqua ma poi tu via subito.-
-Va bene. Ti ringrazio-, risposi nel modo più cortese che mi riusciva di esprimere con quella lingua.
-Aspetta, Uluda-, disse una voce alle spalle del gruppo di uomini. –Non mandare lui via.-
Si fece largo un uomo anziano e incurvato che si appoggiava ad un bastone. Anche sul suo petto intravidi la cicatrice del leone.
-Saggio Monbà. Lui non può stare qui. Uomini del nord devono stare lontani da Popolo dei Leoni-, protestò Uluda ma senza troppa foga. Evidentemente il vecchio godeva di molta autorità, nonostante non fosse il capo.
-Io consultato “Ossa del Leone”. Dicono lui amico. Dicono lui guerriero giusto. Noi possiamo aiutare-, insistette il vecchio guardandomi.
Uluda si voltò nuovamente verso di me. –Tu non farai male nostre donne e nostri bambini? Non ruberai nostre cose?- mi chiede sospettoso.
-Sono solo un viandante, capo Uluda.-
-Allora dai me tuo grande coltello finché tu stai qui. Io credo a Ossa ma devo proteggere mio popolo.-
-Come ogni grande capo-, gli risposi togliendomi la spada di dosso e porgendogliela.

-Diciamolo, nonno. Fu una ruffianata bella e buona-, esclama mia nipote con un accenno di sorriso.
Scoppiai a ridere. –Si, lo ammetto. Lo feci per ingraziarmelo. Ho imparato che non c’è modo migliore di conquistare la fiducia un capo che quello di lodarlo davanti alla sua gente.-

Fui ospitato nella grande “Capanna della Caccia”, una costruzione più grande e solida delle altre in cui, probabilmente, si riuniva il loro consiglio. Si presentò a me anche Idao, il marito di Kuia.
-Tu salvato vita di mia moglie e mio figlio. Io sono debitore. Darò te cibo, acqua e riposo-, mi disse il corpulento nero. Anche sul suo petto spuntava il simbolo del leone.
Mi fu portato da mangiare e da bere. La carne non era ancora pronta perché era troppo presto, ma frutta, pane, latte e formaggio non mancavano e potei riempirmi lo stomaco in modo soddisfacente. Uluda, Idao e molti anziani, tra cui Mombà, mi si fecero attorno mentre mangiavo.
-Tu vieni da terra di “montagne di pietra”?- mi domandò Uluda.
-Terra di montagne di pietra? Ah… vuoi dire le piramidi-, capii dopo un po’ di ragionamento. Non venivano più costruite da secoli ma forse loro non lo sapevano. –No, non vengo da quella terra ma ci ho vissuto per molto tempo. Ho imparato li la vostra lingua.-
-Tu parli antico Nubai-, specificò Mombà.
-Siete Nubiani? Provenite dalla terra a sud dell’Egitto?-
-Nostri antenati venivano da li. Non volevano essere schiavi di altri popoli e andarono via-, mi spiega un altro anziano. –Tu cosa cerchi in nostre terre?-
-Proprio nulla-, risposi con un filo di tristezza. –Ho perso molti amici in battaglia e ora il mio spirito è vuoto e stanco. Ho bisogno di stare da solo per ritrovarlo.-
-Noi chiamiamo quelli come te “Cercatori di Visione”. Uomini che non sanno via da prendere e cercano segni di spiriti.-
-Io dico, resta ospite qualche giorno-, propose Idao. –Se tu non venuto per fare male o per rubare, tu benvenuto. Mia casa tua.-
-Lui non può fare male o rubare con Uomini Leone in villaggio-, disse Uluda ridendo e mostrando i suoi denti bianchissimi. Anche gli altri presenti si misero a ridere.
-Non voglio disturbarvi…-, tentai di dire.
-Resta, uomo del nord, così dirai noi cosa succede in terre lontane-, mi incitò il capo Uluda accogliendo la richiesta di suo cognato.

-Ti era già meno ostile-, commenta Cristina.
-In verità non lo era mai stato. Era semplicemente molto guardingo e prima di fidarsi di qualcuno, Uluda lo soppesava attentamente. A dispetto del nome, il Popolo dei Leoni era gente pacifica.-
-Cacciatori immagino.-
-Si. Pioveva troppo poco per poter coltivare qualcosa, senza contare che un elefante in pochi minuti poteva distruggere il lavoro di mesi.-
-Dove si procuravano la farina per il pane se non coltivavano nulla?-
-Me lo chiesi anch’io quando arrivai li, poi mi spiegarono che si trattava di una farina vegetale ricavata dalla polpa essiccata e sminuzzata di una particolare pianta. Naturalmente non conoscevano il processo di lievitazione.-

Decisi di accettare l’invito e di fermarmi qualche giorno. Tuttavia non volli occupare la capanna di Idao e Kuia. La loro ospitalità era esemplare ma privarli dell’intimità familiare era una cosa che non avrei mai fatto. Ero abituato a dormire all’aperto e mi feci un giaciglio fuori della loro casa, a ridosso del muro. Il cielo stellato di quelle notti limpide era uno spettacolo unico e mi diede il primo vero riposo da molto tempo.
Nei giorni seguenti fui una specie di celebrità nel villaggio. Durante il giorno passeggiavo con gli anziani e conversavo con loro, facendo domande e dando spiegazioni. Osservando la vita di quella comunità mi accorsi subito che potevo offrire loro molto. Conoscenze semplici ma che in poco tempo avrebbero migliorato la qualità della loro vita. Dal modo di conservare il cibo a come utilizzarlo, dalle piccole potenzialità agricole di quella terra così selvaggia alla metallurgia. La sera del quinto giorno gli anziani del villaggio e il capo Uluda vennero a parlarmi. Avevo migliorato molto la mia pronuncia del loro nubiano e ora anche comprenderli mi risultava più facile.
-Ci insegni cose utili, Khalàd-, esordì uno degli anziani. –Cose utili per la nostra intera comunità.-
-E’ stato per me un piacere. Ho passato molti anni ad imparare. Se posso, ora insegnerò le mie conoscenze a chi ne ha bisogno-, risposi grato dell’apprezzamento dimostratomi.
-Molti uomini sono gelosi del loro sapere e non amano condividerlo. Il fatto che tu lo faccia di tu spontanea volontà ti fa onore. Noi ti onoriamo, Khalàd di Uruk, e vorremmo chiederti di fermarti a vivere con noi, con il Popolo dei Leoni.-
-E’ davvero un grande onore quello che mi fate, anziano, ma sto cercando di ritrovare la pace perduta dentro di me e questo posso farlo solo in solitudine-, risposi.
-La solitudine ti farà solo rimuginare sul tuo passato, qualunque esso sia. Vivere tra la gente, tra persone che ti considerano loro amico, questo ti farà trovare la pace.-
-Resta con noi, amico-, intervenne Uluda restituendomi la mia spada. –Vivere con noi è bello e poi andremo anche a caccia insieme.-
Sorrisi al pensiero di quei piaceri semplici ma genuini. Quella gente non conosceva avidità o brama di potere. Se combattevano lo facevano solo per difendere quel poco che avevano, la loro vita semplice.
-Un giorno me ne andrò-, dissi ad Uluda guardandolo negli occhi. Lui annuì.
-Quel giorno sarai un uomo diverso. Un uomo in pace.-
-Allora sarò felice di restare-, acconsentii infine.
Quando lo vennero a sapere, gli altri abitanti del villaggio mandarono un grido di gioia. Mai mi ero sentito così ben voluto come in quel posto. Inizialmente avevo creduto che lo facessero per interesse, per ottenere le mie conoscenze e migliorare la loro vita. Con il passare dei giorni però, mi accorsi che non era così. Certamente Uluda e gli anziani avevano messo in conto i vantaggi che avrei portato loro. Quel poco che avevo insegnato nei primi giorni era andato a beneficio di tutta la tribù e questo per era considerato un atto grandioso tra quella gente. La comunità viene prima del singolo, il primo insegnamento che trassi dal Popolo dei Leoni.
Inizialmente mi fu concesso di dormire nella Capanna della Caccia, ma i miei nuovi amici promisero che mi avrebbero aiutato a costruire una capanna tutta mia e magari a… riempirla con una moglie. A quindici anni le ragazze erano in età da marito e molte di quelle giovinette facevano a gara per mandarmi sorrisi e sguardi carichi di significato. Non era per quello, però, che ero venuto.
Insegnai loro come essiccare ed affumicare il cibo, come far lievitare il pane e soprattutto come praticare della piccola agricoltura. Scoprii nuovi prodotti della terra, in particolare una grossa radice, probabilmente una specie di patata, dalla quale riuscii a ricavare una farina migliore di quella che già utilizzavano. Riuscii così a variare la loro alimentazione. In Egitto avevo imparato che un’alimentazione più diversificata migliorava la salute e giovava alla longevità.

-Cosa di cui tu non avevi bisogno, immagino-, mi fa notare Cristina.
-Della longevità no, ma anche il mio corpo poteva ammalarsi e risentire di problemi legati al cibo.-
-Ma la patata non fu portata dal Nuovo Mondo dopo il periodo delle Scoperte?-
-Quella che noi conosciamo si, ma la famiglia dei tuberi è più vasta di quello che pensi ed in Africa crescono spontaneamente molte specie di patate assai deliziose.-

Anche io imparai molto dal Popolo del Leone. Tanto per cominciare a proteggere la mia pelle dai raggi violenti del sole, specie quella sottile che copriva la mia cicatrice, quella lasciatami dal fulmine. Appresi come conciare le pelli per farne abiti, a riconoscere i frutti commestibili e a cacciare alla loro maniera. In verità questo lo imparai con il tempo in quanto non ero un cacciatore. Dopo l’addestramento spartano pensavo di aver raggiunto il massimo livello di forza e resistenza che un essere umano potesse conquistare. Mi sbagliavo. Solo la buccia era matura ma dentro di me ero ancora acerbo. Me lo spiegò una sera uno degli anziani, dopo che alla prima caccia a cui avevo partecipato non ero riuscito a stare dietro al gruppo guidato da Uluda e Idao.
-Uluda mi ha detto che hai avuto molte difficoltà oggi, durante la caccia-, esordì il vecchio sedendosi accanto a me mentre attendevo che il fuoco si ravvivasse.
-Evidentemente non sono un cacciatore. Sinceramente pensavo di essere più forte.-
-Non è la forza che conta nella caccia-, disse lui scuotendo la testa. –Ma essere in armonia con la natura che ti circonda, in particolare con gli esseri viventi che, come noi, la popolano.-
-Non riesco a comprendere.-
-Se corri con lo spirito di un uomo, un branco di zebre fuggirà da te, ma se corri con lo spirito di una zebra, allora potrai farlo assieme a loro. Se cacci la gazzella o l’antilope come un uomo, il più delle volte ti sfuggiranno, ma se ti avvicinerai a loro eguagliando i loro pensieri e le loro sensazioni, allora le avrai a portata di lancia.-
-Devo imparare ad assorbire i loro spiriti…-
-Vedo che inizi a comprendere il nostro modo di cacciare… e di combattere.-
-Combattere?- domandai accigliandomi.
-Capita a volte che popoli in cerca di nuove terre tentino di appropriarsi della nostra. In quel caso combattiamo come cacciamo, ponendo davanti a noi il serpente e la gazzella, la zebra e l’elefante… ed infine il leone.-
-E’ questo che significa la cicatrice del leone che tu ed alcuni altri portate sul petto?- domandai.
-Questo marchio è riservato solo ai pochi che riescono a diventare “Uomini Leone”. Io lo diventai in gioventù.-
-Significa che possedete lo spirito del leone?-
-Si, ma non solo. Hai visto durante le nostre cerimonie che veneriamo il leone come animale sacro. Esso è il re della terra e noi temiamo e rispettiamo la sua forza. Lo teniamo lontano dai nostri villaggi ma non cerchiamo di ucciderlo. Il leone in questo modo non ci attacca. Come l’uomo, l’animale ha solo due necessità vitali, ovvero trovare acqua e cibo. Capita a volte, però, che alcuni leoni non seguano le regole dell’equilibrio della natura e attacchino per il gusto di uccidere. Questi leoni impazziti li chiamiamo “simbaio”, Leoni Neri.-
-E cosa fate quando ne compare uno? Lo uccidete?-
-Solitamente il simbaio è più forte degli altri leoni, e più feroce. Gli diamo la caccia e il cacciatore che riesce ad uccidere una bestia di tale ferocia e malvagità ne conquista lo spirito e diventa l’Uomo Leone.-
-E si merita quel simbolo sul petto. Tu ne hai ucciso uno, allora-, gli dissi indicando il marchio sul petto.
-Molto tempo fa. Ora i simbaio sono più rari. Sono anni che non ne compare uno. L’ultimo l’ha ucciso Uluda ed è divenuto capo del nostro popolo.-

-Ma è davvero possibile fare questo? Muoversi e pensare come un animale?-
-E’ possibile, con pazienza e calma interiore. L’affinità animale è un’arte antica quanto rara che oramai sta scomparendo. Io fui uno dei primi ad apprenderla.-
-Riuscivi a correre con le zebre?!-
-Non veloce quanto loro ma almeno non mi scacciavano dal branco.-

Da quella sera cambiò tutto. Iniziai a guardare ciò che mi circondava con occhi diversi. Osservavo attentamente ogni animale che incontravo per capire il suo modo di muoversi, le sue necessità, i suoi istinti. Cercai di diventare più affine anche alla gente che mi ospitava. La mia capanna era ormai pronta, vestivo con pelli di animale come loro e Kuia, la moglie di Idao, aveva intrecciato i miei capelli neri come l’ebano, che da tempo lasciavo crescere, in sottili fili crespi che lasciavano scorrere via il sudore e la pioggia, in modo che non mi infastidissero il viso.
Il giorno in cui finimmo la capanna, Aodon, uno dei cacciatori con il quale avevo legato di più, venne da me accompagnato da sua moglie e da una giovinetta che sapevo essere sua figlia. Non ricordavo il suo nome perché la vedevo molto di rado. Solitamente le altre ragazze del villaggio facevano a gara per starmi intorno ma lei no, mostrando un atteggiamento più riservato. Suo padre non era un Uomo Leone ma era comunque molto rispettato per la sua abilità nel cacciare. Uluda mi aveva confidato che se mai un simbaio fosse tornato a terrorizzare le loro terre, sarebbe stato sicuramente Aodon ad ucciderlo.
-Tu sei amico del nostro popolo-, esordì il cacciatore mentre attorno a noi si radunava una nutrita folla di gente. -Ci hai portato grandi insegnamenti e ora la nostra vita è più ricca. Per onorarti, ora che hai anche una degna casa, voglio offrirti in moglie mia figlia Netia, il mio unico fiore.-
Era davvero grande l’onore che mi stava facendo e temevo che un rifiuto potesse guastare i nostri rapporti. Io non avevo nessuna intenzione di sposarmi ma avevo anche scelto di vivere come loro, di seguire le loro usanze, di appartenere al Popolo del Leone. Guardai Netia in volto e per la prima volta la vidi veramente. Doveva avere appena quindici anni con un fisico acerbo ma sensuale. Il tratti del suo viso erano più delicati di quelli delle altre donne, in questo assomigliava a sua madre. Se entrambe avessero avuto la pelle più chiara potevano essere scambiate per egiziane. I suoi grandi occhi erano vivi, intelligenti e sembravano promettere gioie infinite.
-Sono onorato della tua offerta e accetto con gioia-, risposi continuando a fissare la ragazza che, alla mia risposta, sembrò però contrariata. Evidentemente non era una sua scelta ma dei suoi genitori.
A quella risposta, un grido di esultanza si levò da tutto il villaggio e in breve fu stabilito il giorno delle nozze. Uluda in persona mi spiegò tutte le fasi e i preparativi da fare per quell’unione. Lui stesso, in qualità di capo, avrebbe celebrato il rito e ci avrebbe sposati.

-Non avevano sacerdoti? Di solito le popolazioni a carattere tribale hanno sempre un uomo sacro a fare da intermediario con le divinità-, mi domanda Cristina perplessa. In effetti non avevo mai parlato di sacerdoti.
-Il Popolo del Leone venerava la natura e tutti gli esseri viventi che ne seguivano le leggi. Veneravano il leone su tutti. Colui che doveva vivere secondo le regole della natura era primariamente il cacciatore e quindi ogni uomo di quella gente era a tutti gli effetti un sacerdote. Uluda era il capo del villaggio e dei cacciatori, quindi anche il primo tra i sacerdoti.-

Dovevo procurarmi un dono per la famiglia e uno per la futura sposa, mi spiegò Uluda. Doveva essere qualcosa di importante, qualcosa che desse prestigio sia alla nuova coppia che alla famiglia di lei. Naturalmente non avevo idea di cosa potesse rispondere a tali requisiti per il Popolo del Leone. Il mio amico mi parlò dei suoi doni e di quelli di altri cacciatori, in occasione delle loro nozze, e così mi feci un’idea di cosa dovessi cercare. Iniziai dal regalo più facile. Frugai nella mia sacca finché non trovai la borsa di cuoio in cui tenevo il mio piccolo tesoro, delle monete d’oro e delle pietre preziose. Nel mio nascondiglio segreto, vicino a Tiro, avevo anche dei gioielli di pregevole fattura e mi rammaricai di non averne con me nessuno. Presi una manciata di monete d’oro e tre gemme, tre smeraldi di uguale dimensione. Per quel popolo la ricchezza era ciò che li faceva sopravvivere, quindi non avevano bisogno di denaro. Tuttavia avevo notato che le donne amavano molto gli ornamenti e più erano vistosi e colorati più si pavoneggiavano. Erano monili semplici, qualche pietra preziosa grezza o quarzi colorati, probabilmente provenienti dalle vicine montagne. Il verde aveva però un significato particolare nella loro cultura perché era il colore dell’erba, che di tale tonalità rimaneva per pochissimo tempo dopo le piogge. Un barlume di fresca vita in una terra bruciata dal sole. Contando su ciò, scelsi appunto tre stupendi smeraldi e…

-Eri innamorato di lei?- mi chiede seria Cristina.
Ci rifletto un attimo perché rischio di farla irritare con una risposta superficiale. Quando si parla di sentimenti mia nipote si infiamma facilmente. Difficilmente comprende il maschilismo globale che ha sempre caratterizzato la storia dell’essere umano.
-No-, ammisi sinceramente. –Non all’inizio, almeno. Si trattava pur sempre di un matrimonio combinato.-
-Perché la sposasti allora?-
-Come ti ho già detto, era una questione di coerenza. Voler vivere come loro significava anche questo. Con il Popolo del Leone ho conosciuto il mio primo, vero periodo di pace e non volevo che finisse. Non ho mai amato Netia come amai Cassandra ma il nostro matrimonio, finché durò, fu felice e mi fece capire molte cose sull’amore e sul rapporto tra uomo e donna.-
-Vai avanti-, mi incita impassibile. Pericolo scampato.

Con le mie conoscenze sulla metallurgia fusi le monete d’oro e le ridussi in tanti fili sottili ma resistenti. Li lucidai uno per un uno con una pelle di animale ed infine, con pazienza, li intrecciai e li modellai in modo da ottenere una collana in cui vi inserii i tre smeraldi. Non avevo l’abilità degli orafi di Damasco o di Tebe ma ottenni comunque un oggetto di grande bellezza. Ora non restava che trovare un dono adatto alla famiglia. Il Popolo del Leone non poteva contare sul sale, una delle maggiori ricchezze del mondo antico, perché troppo lontano sia dal mare, sia dai pochi laghi salati presenti in Africa. Fortunatamente ne avevo una piccola quantità tra i miei effetti personali, che contavano anche una rara mistura di spezie provenienti dalla Grecia. Non mi rammaricavo di sacrificarle perché dovevano servire per delle occasioni particolari e quale occasione poteva essere più speciale del mio matrimonio?. Chiesi a Uluda se voleva uscire con me per una caccia solitaria. Avevo bisogno di carne fresca, possibilmente di un animale di medie dimensioni come una gazzella o una giovane antilope. Non fummo così fortunati ma riuscimmo ad abbattere una zebra e fui comunque soddisfatto. La carne equina si prestava bene al procedimento che avevo in mente.
-Cosa vuoi farne ora?- mi domandò Uluda mentre insieme trascinavamo l’animale fino al villaggio.
-Se mi aiuterai, imparerai un nuovo modo di preparare e conservare il cibo. Chiameremo anche Idao perché ci serviranno due braccia in più.-
Giunti al villaggio scuoiammo l’animale e mettemmo da parte la pelle. Dovevo scambiarla con una già conciata e abbastanza grande da contenere il mio dono.
-La vuoi cucinare? Tutta?- mi domandò Idao perplesso.
-Non la voglio cucinare, amico mio. In ogni caso non mi serve tutta ma solo le parti più tenere. Il resto lo divideremo tra di noi visto che io e Uluda l’abbiamo uccisa e tu ci stai aiutando a prepararla.-
-Non essere modesto, Khalàd-, disse Uluda sorridente. –E’ stata la tua lancia ad uccidere la zebra. Non è ancora sorta la tredicesima luna da quando sei qui e già sei un cacciatore bravo quasi quanto noi.-
Era vero. Ero li da meno di un anno ma avevo già imparato molto sul modo di cacciare del Popolo del Leone. Correvo veloce quasi come una zebra, saltavo come una gazzella ed ero silenzioso come un serpente nell’avvicinarmi alle prede. I miei sensi si erano affinati molto in quei pochi mesi. Olfatto, vista, udito e persino il gusto. Non ero ancora al livello di Uluda e dei suoi ma ben presto ci sarei arrivato.
-Tagliate la carne a strisce sottili mentre io la condisco con il sale e la mia mistura di erbe-, dissi loro.
-Dev’essere ben preziosa quella roba se l’hai conservata così gelosamente-, mi fece notare Idao.
-Molto. Soprattutto perché viene da lontano. Tuttavia credo di averne abbastanza da poter preparare un po’ di carne anche per voi, a patto che non lo diciate a nessuno.-
-Saremo muti come sassi-, esclamò Uluda ridendo.
Così condita, lasciai riposare la carne per un giorno e una notte all’ombra e in un luogo fresco, una fossa che avevo scavato nel pavimento della mia capanna, dove la terra era un po’ più umida. Passato quel tempo, sempre con l’aiuto dei miei due complici, la affumicai e l’appesi a stagionare. Il matrimonio sarebbe stato celebrato alla luce della seguente luna piena a cui mancavano una ventina di giorni. Un tempo limitato ma sufficiente perché la carne esaltasse il suo sapore.
-Un dono insolito, sicuramente, Khalàd-, commentò Uluda guardando le strisce di carne appese a stagionare. –Originale direi. Se sarà così buona come appare, sarà certamente un dono degno di essere ricordato.-
-Lo spero proprio, Uluda. Ci tengo a fare bella figura.-
Giunse il giorno delle nozze e io, vestito e lavato per l’occasione, andai con i miei doni alla casa della sposa come il cerimoniale prevedeva. Idao si era offerto come portatore per la carne, racchiusa nella pelle di animale che mi ero procurato scambiando quella di zebra. Io tenevo in mano la collana di smeraldi per Netia. Tutti rimasero impressionati dai miei doni. Per la prima volta vidi un barlume di sincera felicità anche negli occhi della mia futura sposa. La collana che le stavo allacciando al collo era davvero un dono magnifico. Netia era vestita con un abito di pelle chiara e sottile che evidenziava in maniera quasi impertinente le sue giovani forme. Su di esso erano dipinte a colori vivaci innumerevoli scene di vita domestica, come si confaceva ad una donna che stava per sposarsi. I neri capelli erano raccolti in piccole ciocche fermate da spille fatte d’osso e pietre colorate. Per la prima volta la trovai veramente bellissima. Non che prima non lo fosse, ma forse non mi ero mai preso la briga di osservarla, di vedere in lei tutte le sfumature del suo corpo e della sua personalità. In verità non la conoscevo affatto e lei non conosceva me.
La cerimonia, al comparire della luna, fu un semplice scambio di promesse e di impegni. Assomigliava molto agli odierni matrimoni civili, dove si accettano precisi obblighi e doveri nei confronti del coniuge. Tutto il villaggio era presente e quando pronunciammo il nostro assenso e Uluda buttò in aria le braccia, un boato di gioia salutò la nostra unione.

-Mi avevi detto, però, che non ti eri mai sposato. Che la nonna fu la prima e unica donna-, mi fa notare un po’ acida Cristina.
-Ti ho detto la verità. Non ho mai considerato quello con Netia un vero e proprio matrimonio. Era molto lontano dalla mia concezione di unione e, quando ne parlai con Uluda, mi diede da intendere che la loro forma di sposalizio era prevalentemente un abbinamento tra un uomo e una donna per i fini ultimi della nostra natura, ovvero mutuo aiuto e procreazione. Non a caso i matrimoni venivano tutti combinati.-
-Era davvero una cosa triste-, commenta mia nipote un po’ delusa.
-In verità no. Non erano unioni cariche di sentimento come in altre culture ma garantivano a tutti i membri della tribù di non essere mai soli. In molti casi poi, l’amore sbocciava davvero. Era una forma un po’ forzata di matrimonio che però aiutava a mantenere saldo il tessuto sociale del Popolo del Leone.-
-Durò molto? Il tuo matrimonio con Netia, intendo.-
-No.-

Terminata la grande festa, io e Netia venimmo accompagnati alla nostra capanna dove avremmo consumato la prima notte di nozze. Entrati nella casa, la folla finalmente si disperse e rimanemmo davvero soli. La guardai fissa negli occhi.
-Non è stata una mia idea, Netia-, le dissi quasi a scusarmi.
-Lo so. E capisco che non ti conveniva opporti alla proposta dei miei genitori-, mi rispose lei serenamente.
-Se vorrai che il nostro matrimonio sia solo una unione di facciata, acconsentirò.-
-Perché dovrei? Non amo questa tradizione di combinare i matrimoni ma in fondo è per il bene del nostro popolo. E poi poteva capitarmi qualcuno peggiore di te, Khalàd-, disse con un sorriso. Era la prima volta che la sentivo pronunciare il mio nome. Quella notte ci comportammo esattamente come tutti i novelli sposi.
Iniziò così la mia vita matrimoniale, un periodo davvero felice anche se non coronato dall’amore. C’era però una questione che mi preoccupava. Non avevo ancora affrontato con nessuno il problema della mia immortalità e soprattutto della mia sterilità. Il fine ultimo del matrimonio tra quella gente era la procreazione e io non ne sarei stato in grado. Fu il mio maledetto destino a venirmi in aiuto, nel modo più crudele e sbrigativo possibile.
Era passato quasi un anno da quando mi ero sposato e un mattino mi trovavo assieme a Uluda e a Idao intento a costruire delle nuove lance per la caccia. Netia era uscita con delle altre donne a raccogliere della frutta. Verso metà mattinata una di loro giunse di corsa al villaggio. Aveva gli occhi sbarrati per il terrore ed era senza fiato. Quando si riprese iniziò ad urlare come una pazza, un’unica parola.
-Simbaio! Simbaio!-
-Dove sono le tue compagne?! Dov’è Netia?!- le chiesi quasi urlando, tenendola per le spalle e scuotendola per cercare di farla rinsavire. Lei continuava a fissarmi con occhi vacui. La lascia andare, afferrai la lancia e, seguito a ruota dai miei amici, mi lanciai di corsa nella direzione da cui la donna era venuta. Conoscevo la zona in cui Netia andava a fare il raccolto e, anche se era piuttosto lontana dal villaggio, coprii tutta quella distanza di corsa. Uluda e Idao, dopo un po’, dovettero fermarsi. I cacciatori del Popolo del Leone erano veloci come zebre ma solo per brevi tratti. Io ero dotato anche della durezza e della resistenza dello spartano. Quando giunsi al frutteto, all’ombra di quelle che chiamavano le Colline Aride, basse alture rocciose che spesso ospitavano le tane di feroci predatori, caddi in ginocchio per l’orrore. Non se ne era salvata nessuna. Netia era seduta con la schiena contro un albero. Il petto era squarciato ma si muoveva ancora, impercettibilmente. Corsi da lei e le sollevai la testa accarezzandole il viso con le mani. Ebbe il tempo di guardarmi per un’ultima volta, con la vita che abbandonava i suoi stupendi occhi, poi spirò. Giunsero anche Idao e Uluda. Entrambi rimasero paralizzati per lo spettacolo che si trovarono davanti. Le donne erano state tutte ferite a morte dagli artigli del Leone Nero, il Simbaio, ma nessuna portata via dall’animale per essere divorata.
-Mai vista una tale crudeltà da parte di un Simbaio-, disse il capo della tribù con un filo di voce.
-Guarda!- esclamò Idao indicando una donna con una gamba mezza spellata. –Ne ha bevuto il sangue! Questo leone non è solo malvagio! E’ un vero spirito maligno!-
Piansi dirotto per una ragazza che non avevo mai veramente amato, ma per la quale avevo provato un affetto immenso. Uluda e Idao mi si fecero a fianco.
-Capiamo il tuo dolore, Khalàd, e ti assicuro che qualcuno vendicherà Netia e le altre, ma ora dobbiamo assolvere ad un triste compito-, mi disse con tono gentile il capo della tribù.
-Dobbiamo accatastare i corpi e bruciarli-, spiegò Idao. -Siamo lontani dal villaggio e portarle li per il rito funebre attirerebbe troppi predatori, forse ancora lo stesso Simbaio e noi non siamo ancora pronti ad affrontarlo.-
Annuii e mi lasciai trarre indietro come un bambino. Non vollero che li aiutassi a radunare i corpi ma mi diedero l’onore di accendere la paglia che avevano messo sul macabro ammasso di carne umana. Per rispetto verso di me avevano posto Netia sopra tutte le altre. Guardai il fuoco arrampicarsi fino a lei ed avvilupparne il corpo, come fosse la mano della Morte venuta per portarla nell’oltretomba. Fissai il fumo nero e odoroso che saliva verso il cielo e si portava via la mia dolce Netia, verso il cielo e verso il sole, mio protettore. Un ruggito possente mi distolse dal mio silenzioso addio. Il leone, il Simbaio, si era arrampicato su una rupe poco lontano e ora faceva sentire la sua voce in tutta la prateria. Era davvero enorme.
-Mai visto un leone di quelle dimensioni-, esclamò Idao paralizzandosi.
-Sicuramente uno spirito maligno lo possiede-, convenne Uluda. –Torniamo al villaggio. Dobbiamo preparare la spedizione di caccia.-
Tornammo lentamente al villaggio del Popolo del Leone, senza correre. Io non proferii parola per tutto il tempo, tanto era lo strazio che provavo dentro.

-Eri andato nelle savane per cercare pace e vi avevi trovato ancora dolore-, commenta Cristina dispiaciuta.
-Stavolta era differente. Quello che era successo a Netia era stato un evento causato dalla natura. Questo lo potevo capire ed accettare, anche se ne soffrivo. Io volevo isolarmi dalla brama di guerra di un essere dotato di coscienza come l’uomo.-
-Andasti tu a caccia del Simbaio, vero?-

Tornati al villaggio, Uluda e Idao raccontarono ciò che era successo e, mentre le donne facevano i preparativi per il rito funebre e piangevano le loro figlie, sorelle e amiche, i cacciatori si radunarono per organizzare la caccia al Leone Nero. Un nuovo Uomo Leone stava per sorgere tra di loro.
Partecipai anche io alla riunione e ascoltai Uluda dare disposizioni per i preparativi. La partenza fu fissata il mattino seguente in modo da poter cacciare con la luce del giorno, favorevole più all’uomo che al feroce felino. Naturalmente, io avevo già fatto il mio piano. Non avrei permesso a nessuno di uccidere quella belva al posto mio. Mi resi infine conto, mentre il capo del Popolo del Leone parlava, che il guerriero che era dentro di me non se ne era mai andato, anzi, era diventato ancora più forte. Capii che prima accettavo ciò che ero, prima il destino avrebbe smesso di darmi contro.
Finita la riunione, andai alla mia capanna e, dopo un momento di raccoglimento personale in memoria di Netia, riordinai le sue cose e impugnai nuovamente, dopo molto tempo, la mia spada. Il Popolo del Leone cacciava con la lancia ma quell’animale dall’anima nera avrebbe conosciuto la morte per mezzo del mio metallo celeste. Affilai la lama anche se non ce n’era bisogno, mangiai qualcosa e andai a riempire un otre di acqua. Attesi il buio. Quando la falce di luna calante comparve nel cielo stellato seppi che era il momento di muovermi. Fu grande la mia sorpresa quando, giunto al varco nella palizzata per uscire dal villaggio, trovai Uluda ad attendermi.
-So cosa vuoi fare e ti dico che è una follia, Khalàd-, mi disse il nero amico guardandomi negli occhi.
-Non sono io a dovermi preoccupare, Uluda. E’ quel maledetto leone. Non mi interessa diventare un Uomo Leone, ma io lo ucciderò e porterò la testa al villaggio perché possa essere impalata davanti alla Capanna della Caccia.-
-Attendi domattina, amico. Saremo in molti e sono sicuro che avrai la tua occasione di uccidere il Simbaio-, mi supplico Uluda. Questa sua dimostrazione di affetto mi commosse.
-Non puoi favorirmi di fronte agli altri, amico mio. E poi io devo essere di fronte a lui al sorgere del sole, perché quello è il momento in cui io sarò più forte e lui più vulnerabile.-
-Non posso fermarti quindi.-
-No-, risposi deciso.
-Allora ti auguro di tornare, Khalàd, e che la forza di tutti gli Uomini Leone sia con te quando affronterai quella belva. Al nostro arrivo, se potremo, ti aiuteremo.- Detto questo, si voltò e tornò alla sua capanna mentre io mi incamminai a passo sostenuto verso le Colline Aride, verso il Simbaio.
Mancavano un paio d’ore all’alba quando giunsi in vista della sagoma delle colline rocciose, illuminate dalla fioca luce della luna. Un terribile ruggito si fece sentire da lontano, viaggiando sulle ali della brezza notturna. Era il Simbaio che faceva sentire la sua voce su quelli che aveva proclamato suoi domini.
-Pensi di spaventarmi?!- gli urlai contro di rimando. –Ti sbagli! Conoscerai presto la ferocia di un vero leone!- Estrassi la mia spada egizia e la levai in alto. –Grande Seth, Signore delle Tempeste, fai sentire a quella bestia senza cuore la forza della nostra voce tonante!-
In risposta alla mia invocazione, il vento iniziò a soffiare più forte, in direzione delle colline, sollevando polvere e portando con se l’ululato di cento sciacalli. Il leone tacque. Seth era sicuramente con me. Speravo che al sorgere del sole anche Amon-Ra, il Luminoso, fosse ancora al mio fianco.
Alle prime luci dell’alba raggiunsi il frutteto dove Netia e le sue compagne erano state massacrate. Guardai la nera catasta dei loro corpi, ancora calda e fumante, e levai una silenziosa preghiera alle potenze del cielo perché accogliessero quelle anime innocenti. Ripresi il cammino e mi inoltrai tra le rocce con la spada stretta in pugno e i miei nuovi sensi animali tutti all’erta. Il Simbaio poteva attaccarmi a tradimento in qualsiasi momento. Nel mio lento e silenzioso procedere di serpente trovai molte ossa di animali sparse sul sentiero. La tana del leone era vicina. Dopo aver scansato alcuni massi che deviavano il sentiero, passai sotto al tronco di un albero caduto, forse sradicato dalla sommità della collina, su cui erano impigliati ciuffi di peli color marrone scuro. Sbucai in uno spiazzo libero da pietre, completamente disseminato di ossa, qualcuna anche umana, e vidi proprio di fronte a me l’entrata di una grotta, la tana della belva. Stavo per prendere dalla cintura la piccola torcia che mi ero portato dal villaggio quando, con un sordo ruggito, il Simbaio, il Leone Nero, balzò da una roccia e si pose tra me e la sua tana.

-Non avevi paura di lui?-
-Da qualche parte, dentro di me, qualcosa mi diceva che avrei dovuto averne, ma il mio odio per quella bestia superava ogni esitazione. Ero assolutamente convinto che fosse lui a dover temere me.-
-Era pur sempre un leone assassino…-
-Bambina mia. Ero furioso con quella bestia, è vero, ma avevo imparato a tenere a bada la mia rabbia e il mio odio e ad incanalarli nel mio braccio.-

Mollai ogni cosa tranne la spada e la feci volteggiare un paio di volte per provare le reazioni del leone. Nessun movimento. La bestia era calma e fredda almeno quanto me. Oltre ad essere di dimensioni doppie rispetto agli altri leoni, aveva il pelo scuro e una criniera folta e irsuta che gli conferiva un aspetto maestoso e terribile allo stesso tempo. Denti colanti bava si allungavano da una bocca enorme che sembrava distorta in un ghigno malefico. I suoi occhi erano neri e sprizzavano malvagità ad ogni sguardo. Forse Uluda aveva ragione. Quello non era un leone ma uno spirito del male.
Come avevo imparato in molti scontri, era opportuno che inducessi il mio avversario ad attaccare per primo. Ero convinto di poterlo abbattere prima del sorgere del sole, prima di chiedere l’aiuto del Dio-sole. Come mi sbagliavo. La belva era più intelligente di quello che pensassi.
-Vieni avanti, ammasso di pelo! Vieni contro la mia spada!- lo stuzzicai facendo delle finte in avanti.
Il leone camminava da una parte all’altra senza distogliere lo sguardo da me e, soprattutto, senza abbandonare la sua posizione di attesa. Quando finalmente credetti che attaccasse, mi sorprese con la mia stessa tattica. Fece una finta con una zampa e, quando alzai la spada per proteggermi, mi lacerò la pelle delle cosce con un colpo di artiglio sferrato con l’altro micidiale arto. Mi ritrassi velocemente con le gambe infiammate dal dolore. Per fortuna durò poco perché le ferite smisero di sanguinare in pochi istanti e la pelle si richiuse. Il sangue era comunque sgorgato e il suo odore eccitò a tal punto il Simbaio da farlo attaccare con tutta la sua forza, senza nessuna prudenza. Sorpreso nuovamente da quell’assalto improvviso non feci in tempo a difendermi e l’animale riuscì a piantarmi i suoi artigli dritti nel petto, trapassandomi il cuore. Stava per stringere le sue fauci sulla mia testa quando, vincendo il dolore che mi attanagliava, mollai la spada e gli strinsi le mie forti mani sulla sua gola, allontanando la sua testa da me. In quel momento i primi raggi del sole ci avvolsero con la loro potenza vitale.
-Amon-Ra, Signore della Luce! Concedimi la forza di abbattere il mio nemico!- invocai e nuovament eil Dio rispose al mio richiamo. Di colpo mi sentii rinvigorito dai raggi del sole e la fatica scomparve da me, lasciando il posto ad una straordinaria forza che sorprese anche il Simbaio. Lentamente, lo respinsi indietro senza mai mollare la presa. Estrasse finalmente i suoi artigli dal mio petto e le ferite, che per un essere umano comune sarebbero state mortali, iniziarono subito a guarire. Il leone tuttavia non smetteva di lottare, prigioniero della mia morsa soffocante che tenevo su di lui con uno sforzo sovrumano. Menava su di me grandi colpi di artiglio che mi ferivano in profondità alle braccia, al volto e ancora al petto. E più il sangue scorreva più lui si inferociva. Infine stremato, mollai la presa e lo spinsi indietro. Avevo paura che il mio potere di guarigione non avrebbe fatto in tempo a operare su di me il miracolo ad una tale velocità. Temetti veramente di morire e non potevo ancora permettermelo. Anche il Simbaio faceva fatica a stare in piedi. Rantolava a testa bassa, come un gatto che deve sputare il pelo, ma sapevo che sarebbe tornato all’attacco. Avrebbe attaccato per tentare ancora di uccidermi, come aveva ucciso quelle donne, come aveva ucciso Netia. Raccolsi la spada e liberai tutta la mia rabbia, emettendo un ruggito degno del mio avversario. Prima ancora che potesse rialzare la testa affondai la mia spada nel suo fianco, dritta fino al cuore.
-Tu non sei… immortale… dannata bestiaccia…-, gli dissi ansimando per lo sforzo. –E adesso… scendi nel regno degli inferi… per non tornare mai più!-
Estrassi la spada e la calai con tutta la forza che mi restava sul suo collo, decapitandolo. Il corpo ebbe ancora degli spasmi, poi solo immobilità. Avevo vinto ma non era finita. Fissando gli occhi di quella malefica testa, occhi che si stavano definitivamente spegnendo, sentii quello spirito entrarmi dentro e pervadermi tutto. Stavo diventando un Uomo Leone. Fu come subire nuovamente l’effetto del fulmine, tanto era intensa quella sensazione. Caddi in ginocchio stremato dopo pochi minuti.

-Come ti cambiò lo spirito del leone?- mi domanda Cristina incuriosita.
-Mi completava. Avevo imparato ad assorbire l’essenza degli animali ma mi mancava ancora lo spirito necessario per dominarli. Ora ne avevo la capacità, anche se ancora non ne ero cosciente. Ci ho messo anni per capire quella mia nuova capacità.-

Dopo essermi ripreso mi dissetai dall’otre che mi ero portato appresso e pulii la spada sul corpo del leone morto. Afferrai un ciuffo della criniera di quella enorme testa e, trascinandomela dietro, ripresi lentamente la via del villaggio. Incontrai Uluda e gli altri a metà strada tra le colline e il villaggio e tutti rimasero stupefatti dell’impresa che avevo compiuto. Aodon sembrava in realtà dispiaciuto perché sperava di essere lui ad uccidere il Simbaio e diventare Uomo Leone. Mi aiutarono a turno a portare la testa e quando arrivammo al villaggio fummo accolti come eroi. Un alto palo acuminato era stato eretto di fronte alla Capanna della Caccia dove, salendo sulle spalle di Idao, piantai la testa del Simbaio come testimonianza della mia impresa. Mai un Leone Nero era stato ucciso tanto in fretta e da un uomo solo, soprattutto uno così grosso. Quella sera, durante una grande festa, sarei stato insignito del simbolo dell’Uomo Leone.

-Ma su di te nessuna cicatrice….-, obietta Cristina perplessa.
-Appunto-, concordo io inespressivo.

Ci fu un grande banchetto a cui presero parte tutti i membri della comunità. Non mancò un momento di commemorazione per le vittime del Simbaio. Mangiai in silenzio, con la mente vuota, e quasi non sentii Uluda che mi chiamava.
-Khalàd. E’ ora.-
Annuii e mi alzai da terra per raggiungere il capo del Popolo del Leone. Portavo al mio fianco la spada con cui avevo ucciso il mostro, affinché tutti la ammirassero. Uluda mi accompagnò al palo dove avevo infilzato la testa del leone ucciso e alzò le braccia in alto per chiedere silenzio.
-Oggi quest’uomo ha dimostrato ancora una volta il suo valore!- recitò. –Da solo ha ucciso la minaccia che opprimeva la nostra gente, come altri prima di lui! Lo spirito della belva lo ha reso più forte e ora egli è Uomo Leone!- Un boato di esultanza si levò dalla folla che tornò in silenzio ad un nuovo gesto del loro capo. –In segno di omaggio, io, Uluda, capo del Popolo del Leone, imprimerò sul suo corpo il segno dell’Uomo Leone, affinché tutti sappiano che Khalàd è un valoroso e un grande cacciatore!-
Solo allora ritornai in me e compresi in che guaio mi trovavo. Era troppo tardi. Uluda aveva in mano la punta di una lancia e già stava incidendo la carne del mio petto tracciando il disegno sacro del leone. Fece un balzo indietro quando vide il sangue smettere di scorrere e la pelle richiudersi.
-Che magia è questa?!- esclamò il capo della tribù guardandomi con gli occhi sbarrati. –Nessun uomo può fare questo!-
-Solo i demoni possono! E’ stato corrotto dallo spirito malvagio del Simbao!- urlò una donna che aveva visto la scena.
-Uluda! Lascia che ti spieghi…-, stavo tentando di dire avanzando verso il mio amico ma lui si ritrasse intimandomi di fermarmi.-
-E’ vero! Non sei riuscito a scacciare la malvagità dello spirito del Simbaio e ora sei come lui, uno spirito maligno!-
-Uccidiamolo!- urlò qualcuno e molte altre grida manifestarono assenso. Una pietra mi colpì in pieno volto lacerandomi una guancia e alla mia nuova guarigione si scatenò l’inferno. Gente che mi spingeva, che mi tirava pietre, che mi piantava lame nel corpo. Cadevo, faticavo a rialzarmi, sbalzato da un angolo all’altro. Un uomo mi diede uno spintone più poderoso degli altri, proprio verso la porta nella palizzata, poi lo stesso uomo si buttò su di me prima che arrivassero altri. Era Idao. Mi mise al collo qualcosa e mi disse solo una parola.
-Scappa!-
Mi alzai e, stringendo la spada per non rischiare di perderla, mi misi a correre nella notte, senza sapere che stavo andando nella stessa direzione dalla quale ero venuto quasi due anni prima. Idao aveva voluto aiutarmi. Mi aveva messo al collo un otre d’acqua e la piccola sacca contenente i miei averi. Probabilmente, visto quello che accadeva, era andato a recuperarla nella mia capanna. Non so dire quale motivo lo spinse a farlo ma fu l’unico a comportarsi da vero amico e per questo non l’ho mai dimenticato.

-Ti scacciarono proprio come un’animale.-
-Peggio, perché fino a pochi istanti prima si reputavano miei amici e io li consideravo tali. La superstizione aveva prevalso ma, in fondo, potevo dargli torto? Neppure io conoscevo il motivo della mia immortalità.-
-Esiste ancora quella tribù? Magari sotto un altro nome?- mi chiede mia nipote.
-No. Si estinsero non molti anni dopo la mia fuga. Non so cosa ne sia stato di loro ma quando molto tempo dopo ripassai da quelle parti trovai solo le rovine del villaggio. Solo una cosa era ancora ben visibile, ovvero il palo con il teschio del leone che avevo ucciso.-
-Immagino non portasti nulla con te da quel luogo-, commenta lei un po’ ironica. Ironia che non gradisco perché quell’esperienza mi aveva profondamente ferito.
-Nulla di materiale, se è quello che intendi. Appresi però il più triste e duro degli insegnamenti-, le dico chiudendo gli occhi e iniziando a perdermi nelle mie riflessioni. -L’uomo teme e scaccia ciò che non conosce e non comprende-, recito come una sentenza inappellabile. –E questo, temo, non cambierà mai.-

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